Sui sentieri interrotti

"l'arte é ancora oggi una maniera essenziale e necessaria in cui si storicizza la verità decisiva per il nostro Esserci storico, o non lo é più?"(Heidegger, "Sentieri Interrotti")
Per capire le origini delle dominanti e a volte deliranti teorie estetiche di questo fine-millennio credo sia necessario risalire ad un altro momento terminale: quello della fine del secolo scorso. Quando una confluenza di potenti stimoli ha investito un modello di pensiero che imperava da oltre due millenni.
Penso al modello Platonico e a come, sia in campo filosofico che artistico, si siano manifestate forze, per la prima volta, in grado di opporsi al dominio della razionalità ad esso sottesa. Nietzsche, Marx e Freud da un lato, le avanguardie artistiche di fine ottocento- primo novecento dall'altro, hanno dato l'avvio ad una rivoluzione di quella visione del mondo razionalistica che iniziata nella grecità, così a lungo aveva distolto l'interesse per quanto vi é di irrazionale, specifico, soggettivo.
In campo scientifico invece fu nel 1927 che il principio di indeterminazione di Heisenberg, mise per la prima volta in dubbio la visione oggettiva del mondo fisico. Georg Steiner definisce questo processo:
"la rottura del patto mimetico tra rappresentazione e realtà".
E' con questo processo che cominciano a essere messi in discussione tutti i linguaggi. In campo artistico, Cézanne disse, con una frase apparentemente semplice, che non cercava di riprodurre la natura, la rappresentava. Ma quella parola "rappresentazione" condensava un enorme insieme di concetti e sentimenti."(S.Arieti,Creatività,la sintesi magica) Dopo un lungo periodo di "realismo" si apriva la strada alla soggettività.
Da questo momento in poi il mondo é diventato visione del mondo. Ne consegue che non vi é più nulla che garantisca la corrispondenza tra un segno, un significante, una rappresentazione e la realtà. I linguaggi, perso qualsiasi fondamento, vengono investiti da una responsabilità nuova. Il fatto che qualsiasi cosa possa essere detta, significa che ogni linguaggio, a qualsiasi livello operi, deve costantemente verificare la sua tenuta.(Franco Rella)
Il potenziale di cambiamento implicito in questa dinamica di pensiero é tale da indurre a una attenta e costante riflessione riguardo ai tentativi di ridefinizione dello scibile che hanno impegnato e impegnano un pò tutti gli operatori linguistici.
Il limite, il confine, la soglia, il bordo, l'orlo, il paradosso . Queste sono parole molto usate, ultimamente, dagli interpreti della contemporaneità. Come se il tentare di dare soluzione all'enigma dell'esistenza ci avesse condotti sul crinale(dimenticavo!) del mondo.
Ma una volta spezzati i recinti della ragione, una volta messo in dubbio il valore assoluto del pensiero calcolante ecco che lo scenario muta e si rivela in tutta la sua mobile inconsistenza. Concetti come fragilità, precarietà, leggerezza ci invitano a ridisegnare un mondo svincolato dalla pesantezza delle dicotomie, esposto al non senso ma anche all'interpretazione in continua reciproca tensione. La creatività non può che essere attivata da questa sfida costante!
Tuttavia, se da una parte si può notare l'assunzione della necessità etica di continue verifiche, dall'altra non si può non vedere che un'ansia nuova induce a tradire troppo spesso quanto di realmente innovativo può essere espresso in ogni settore e a ricercare un altro, oramai impossibile fondamento al linguaggio. L'arte concettuale e l'arte spirituale non sfuggono a questo impasse.
Ma la posta in gioco é troppo alta per non tentare almeno di evidenziare i rischi connessi a soluzioni regressive o a fughe in avanti. Se pensiamo alla natura del rischio che abbiamo di fronte ora, vediamo che anch'esso ha modificato il suo assetto. Oggi non si tratta più della possibilità di commettere un errore di calcolo. Oggi si ha a che fare con l'incalcolabilità; si rischia un senso là, dove nessun senso é dispiegato.
Ma dove ha inizio questo gioco, in cui siamo bene o male tutti coinvolti? Credo sia messo in atto nella terra della sera: in Occidente. Lo regola ancora, a nostra insaputa, un sistema di pensiero delegittimato che ha le sue radici nell'impianto Platonico e i suoi rami nella contemporaneità.
La tecnica è il più recente dei suoi frutti. L'arte una delle sue più avvizzite manifestazioni. Ridotta a imitazione dell'imitazione dell'idea, l'arte è stata estromessa dalla ricerca della verità. Il mito, la poesia, l'arte legate al mondo delle apparenze si dissolvono al cospetto della rotonda verità che abita il pensiero Platonico.
Eppure proprio il pensiero che ha ridotto l'arte a una forma di conoscenza inferiore, (Kant ci avvisa l'arte non ha a che fare con l'essere ma con le modalità dell'apparire), ora a sua volta si dissolve innanzi alla visione multi dimensionale e imprendibile del mondo che la scienza stessa gli fornisce (teorie quantistiche).
Il pensiero si é spinto oltre il limite della ragione e abita un orizzonte aperto al mistero e all'enigma.
Per quale motivo invece, la necessità di mettersi all'altezza delle conquiste operate dai vari linguaggi, é troppo spesso disattesa? Perché mai anche l'espressione artistica, che da sempre opera ai limiti del linguaggio, non riesce a ritrovare la sua vocazione più autentica, la sua funzione più alta e brancola tra i detriti del post-modernismo?
Ora, che sono state messe in evidenza, da più parti, le operazioni di "sorvolo" circa le origini del pensiero scientifico, non si può più chiedere al linguaggio scientifico di costituirsi sulla coscienza di avere a che fare con la verità del mondo. L'ipotesi per cui é la scienza che da informazioni reali oggettive sul mondo non tiene più.
Ma che cosa può rivelare oggi l'arte, di così importante? Rivela un sapere altro, un sapere irriducibile al concetto e che chiama il concetto stesso a una uscita da sé. Un sapere che eternamente ci sfugge in quanto inoggettivabile ma che decide di noi e del nostro rapporto con il mondo.
L'arte ci induce all'oltrepassamento e così facendo chiama il pensiero concettuale a un altro pensare dove decisiva non sia l'oggettivazione ma sia l'enigma. Il pensiero, quando é pensiero forte, intendo libero di giocare con i concetti, di accostarsi all'infinito, al tempo e allo spazio puro; apre mondi e fa mondo.
Il pensiero di Heidegger, ci ha reso manifesto un mondo aperto all'essere. Egli ci ha suggerito che
"dovremmo imparare che le cose stesse sono i luoghi e non solo appartengono a un luogo".
Ma per vedere, senza restare intrappolati da un riduttivo guardare, é necessario possedere un particolare tipo di sguardo. Uno sguardo inaccessibile a chi é saturo di immagini come la maggior parte di noi é.
Com'é possibile entrare nel racconto Heideggeriano e aprirsi alla visione che esso dischiude, se non si é riusciti, pur nel frastuono del mondo, a conservare una particolare sensibilità e capacità di trascendere l'evento per collocarlo in relazione al molteplice sfavillare di una miriade di possibili messe a fuoco degli accadimenti?
Ci vuole apertura per affrontare l'aperto. E' un'esperienza che può dare le vertigini a chi é cresciuto al chiuso cui lo ha costretto la struttura di pensiero Platonica. Tuttavia é la sola esperienza che ci permette di cogliere l'evento nella sua forma più autentica e di accostarci all'arte come alla "messa in opera della verità"

A proposito di Duchamp

Che tipo di sguardo é necessario per capire Duchamp? Io credo che sia necessario uno sguardo ironico e forse per questo, Duchamp é stato imitato a dismisura ma capito poco.
Potrei paragonare Duchamp a Nostradamus. Il profeta Nostradamus che, terrorizzato dalla sua stessa visione, pur sentendosi chiamato a comunicarla agli uomini, ha voluto occultarla, all'interno di un messaggio complesso e indecifrabile: le Centurie. Ora, secondo i credenti, lui ha previsto tutto e ogni accadimento era stato anticipato nella sua opera (compresi i nomi dei nostri squallidi politici attuali).
Da parte degli scettici invece esiste la convinzione che tutti gli eventi si trovino effettivamente nella profezia, ma solo perché il messaggio è talmente complesso da permettere comunque di trovarli rappresentati. Inoltre le scorribande linguistiche dell'autore, attraverso l'uso simultaneo di linguaggi diversi, ma di alto valore simbolico si prestano a qualunque interpretazione.
In ogni caso il messaggio si manifesta nella sua verità sempre e solo a fatto compiuto.
Perché ho fatto questa associazione tra il profeta e Duchamp?
Perché anche l'opera di Duchamp custodisce un messaggio profetico. Una sorta di profezia autoadempientesi, ben celata e difficilmente accessibile.

Io credo che, sia gli interpreti di Nostradamus che quelli di Duchamp, abbiano dato un senso alla loro vita cercando di trovarlo in queste opere. E di sensi da rinvenire ne hanno avuto sicuramente a profusione! Questa la grandezza dei profeti! Il loro sguardo è capace di proiettarsi molto lontano.
Vedono e vorrebbero rivelare la loro visione, quasi per liberarsene, tuttavia provano, al contempo, un certo pudore che li trattiene dall'essere troppo espliciti, così, celano il segreto all'interno di giochi complessi. Togliere il velo impresa impossibile.
Ma qual'è la profezia di Duchamp? E' una profezia tragica! Un'Apocalisse! A meno che...

Egli affermava che

"l'arte é una delle forme più alte dell'esistenza, a condizione che il creatore sfugga ad un doppio tranello: l'illusione dell'opera d'arte e la tentazione di assumere la maschera dell'artista.Tutte e due ci pietrificano: la prima fa di una passione una prigione, la seconda una professione di una libertà."
Egli ci ha dimostrato che il fine non era l'opera ma la libertà, che l'opera era una via e nient'altro; eppure il suo effetto é stato disastroso! Una vera e propria fuga collettiva dalla libertà!
Il suo gesto artistico era inimitabile, definitivo! Uno scacco matto! Una beffa tragica che conduceva a un binario morto.
Ma via, tuttidietro, a strappare tele, azzerare, appiattire. Tutti a rendersi ridicoli come chi fosse costretto a suicidarsi ogni giorno in modo sempre diverso, riducendo il proprio personale percorso all'imitazione dell'imitazione.
Vorrei ricordare anche, quanto diceva Duchamp a proposito del messaggio pittorico.
"Credo che vi sia differenza tra un tipo di pittura indirizzata soprattutto alla retina, all'impressione retinica e una pittura che va oltre la retina e usa il tubetto di colore come un trampolino per qualcosa d'altro. E' il caso degli artisti religiosi del Rinascimento. A loro non interessava il tubetto di colore. Ciò che stava loro a cuore era esprimere l'idea della divinità, sotto una forma o un'altra. Quindi senza imitarli, la mia idea comunque è che la pittura pura non è finalizzata a se stessa. Per me lo scopo è qual cos'altro è una combinazione o almeno un modo di esprimere che soltanto la materia grigia può realizzare."
Su questo punto sono d'accordo : lo strumento serve per dire qualche cosa, per comunicare un'idea.
Ma secondo me comunica anche altro.
Il linguaggio poi, che viene usato, sia esso semplice o complesso, armonico o violento, dipende, non solo dalla quantità di materia grigia dell'autore ma anche e soprattutto dalla sua capacità di tradurre i propri pensieri in opera.
E' a questo punto, che si incontra il problema della "qualità" di un'opera. Mi riferisco a quanto di elevato, complesso, sublime l'opera riesce o non riesce ad esprimere.
Duschamp con il suo gesto artistico non ha certo abbassato il livello del messaggio, lo ha solo spostato sul terreno che a lui era più congeniale! Mi pare questa un' operazione non solo legittima, ma anche necessaria.
Usando la meta-ironia, ha realizzato con la massima fedeltà a se stesso, la sua più alta possibilità di esistenza. Ha dispiegato tutta la sua libertà creativa! In maniera lucida e rigorosa ha messo in atto, ridendosela, un'inaudita violenza intellettuale, di cui ancora oggi, subiamo le tragiche conseguenze.
Con il suo gusto per il sottile, combinato a un bisogno di esasperare qualsiasi idea per meglio distruggerla, ha costruito intorno a noi un labirinto che ci tiene ancora in trappola.
Mi pare di udire l'eco della sua risata che percorre tutto il 900!
Oggi, solo una triste mascherata , cela pudicamente una creatività ordinaria. Oramai chiunque può indossare i panni dell'arista senza possederne la statura!
L'effetto sarebbe quello del ridicolo, se qualcuno non avesse legittimato l'operazione spesso con grande abilità e persino senso artistico. Il sodalizio tra critica e mercato è una delle cause di ciò che sotto i nostri occhi si compie nel mondo dell'arte.

Cosa significa metterci all'altezza del nostro pensare?

Ora, che il diabolico, forse necessario "patto mimetico" si é spezzato e ne sono usciti i mostri del 900 ; l'irrazionale, l'ombroso, il molteplice, tutto l'inespresso insomma, chiede di essere integrato alle strutture della ragione.
Relegato e negato sarebbe destinato a dotarsi di una forza che, persi i contatti con il mondo, diventerebbe impossibile tenere a freno.
La storia é testimone.
Io credo che per ricomporre quello che il sistema di pensiero Platonico ha disgiunto, sia necessario attivare nuove capacità che permettano di creare quei collegamenti che consentano fluidità di percorso tra ambiti fino ad ora tenuti separati.
Un mondo multidimensionale richiede un'approccio in grado di recepirlo! Perché, anche ora, dopo aver capito che abitiamo un luogo senza alcun fondamento che non sia l'assenza di ogni fondamento, é così difficile accedere alla dimensione della leggerezza?
Io vorrei continuare a pensare, nonostante tutto, che là dove esiste contraddizione esista anche un ventaglio di possibilità intermedie virtualmente attive che possono dissolverla.
Penso alla fluidità prodotta dallo scioglimento delle idee al calore delle cose. Questa la strada che conduce alla leggerezza...
Quando dico leggerezza non intendo quel processo di insignificanza che rende il soggetto stesso insignificante (Franco Rella,Confini), ma quello a cui penso é a un riequilibrarsi delle dinamiche psichiche umane a un livello più alto dell'attuale.
Leggerezza é maggiore libertà, maggiore apertura, maggiore consapevolezza dei propri limiti ma anche delle proprie potenzialità.
Ora che sappiamo dell'assoluta virtualità del mondo, ora che conosciamo i rischi cui siamo esposti (penso a Baudrillard), dobbiamo solo metterci all'altezza del nostro pensiero.
Forse non siamo mai stati così vicini alla libertà come in questo momento! E' vero anche che non siamo mai stati così esposti alla depressione e all'ansia.
La ricerca del senso tuttavia non può fermarsi perché é costitutiva e fondante il nostro psichismo. E' il suo lato luminoso.
Il mito della caverna non dice più i nostri possibili vissuti. Ora siamo all'aperto.
Ora noi, abitatori della terra della sera, dobbiamo imparare a non definire troppo, a non chiudere troppo. Eludendo il linguaggio, cercare di rispondere alle sollecitazioni del mondo restando sempre in rapporto con l'enigma; senza soffrirne, ma al contrario, traendone piacere.
Cominciare ad amare l'indeterminatezza, la fragilità, la precarietà, l'ignoranza delle ragioni, perché solo così facendo possiamo mantenere aperte quelle vie che a ogni passo mostrano un nuovo orizzonte.

La funzione dell'arte

Come ci suggerisce Heidegger il linguaggio poetico non é un "segno" che rinvia a qualche cosa che é già dato, ma é il luogo in cui l'essere si dà, si eventua.
In questo senso l'opera d'arte é opera di svelamento.
Dove, l'arte ritrova il suo senso più autentico, se non nell'illuminare quei sentieri che senza la sua guida resterebbero nell'oscurità? Nel costringere chi guarda a straniarsi dai codici interpretativi abituali e ad accedere ad una dimensione altra? Una dimensione ove la così detta realtà non é che una delle infinite manifestazioni possibili?
Non può essere che l'appalto della ridefinizione delle parole sia lasciato a chi vuole ridurre il mondo a mercato. A chi enfatizzando il carattere di originalità dell'opera tradisce in suo senso profondo e dimentica che essa a che fare con l"originario", che il suo fine non é solo quello di suscitare meraviglia ma pensiero.

Perché i pittori nel tempo della povertà?

Circola, sottesa alle scelte espositive delle più importanti manifestazioni d'arte del momento e suffragata da autorevoli critici, l'idea che la pittura ,come canale espressivo, abbia esaurito la sua funzione storica.
In sua vece, quando non si privilegiano altri canali (video, fotografia), vengono messe in atto e definite "opere" performance, istallazioni, manufatti di vario tipo allo scopo di inviare (o non inviare) messaggi, in genere, di basso livello comunicativo e di alto costo e impegno espositivo.
Credo che tutto ciò altro non sia che la rappresentazione funebre dei possibili epiloghi del gioco Duchampiano. Comunque una serie di sconfitte dell'intelletto, variamente rappresentate !
Alla ragione, penso si possa chiedere di più!
Lui (l'inimitabile troppo imitato), da chissà dove, forse se la ride, mentre "il mondo dell'arte" celebra l'ennesima danza intorno all'arca vuota.
Duchamp é stato geniale, ma credo sia giunto il momento di cambiare le regole del gioco.
A mio avviso solo quando, in campo artistico, si esaurirà l'effetto Duchamp e il suo utilizzo in termini di marketing, altri linguaggi potranno farsi udire e opporsi al processo di mistificazione posto in atto da chi detiene il controllo economico degli accadimenti.
Credo convenga uscire dal gioco per inaugurare un altro gioco possibile, un gioco in cui lo sguardo stanco possa trovare riposo e un respiro di sollievo disperda gli ultimi brandelli di teorie estetiche deliranti.
Basta con i riti funebri!
Perché non affermare per la pittura quanto, nelle Sue "Lezioni americane", I. Calvino esprime nei confronti della letteratura?
A questo proposito, mi limito a riportare le parole con cui Egli introduce la prima lezione:
"La mia fiducia nei confronti della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici".
E proprio partendo da questa fiducia e interrogandosi su cosa salvare per il prossimo millennio, riflette su "alcuni valori o qualità o specificità della letteratura".
Perché non fare altrettanto per la pittura invece di volerle ad ogni costo scavare la fossa?
La specificità della pittura, il suo raccogliere nell'immagine due diversi atteggiamenti di pensiero, quello razionale e quello irrazionale, può permettere di avvicinarsi a ciò che non é raggiungibile con altri mezzi e di accostarsi al senso delle cose.
A quel senso che"il processo di riduzione vertiginosa" in atto tende a negare.
La pittura, liberatasi sia dalla funzione celebrativa, che da quella rappresentativa, diventa un tramite ancora più importante, perché il suo compito oggi può essere conoscitivo. La pittura può consentire infatti, una forma di conoscenza che non é raggiungibile con altri linguaggi.
Difendendo il senso del fare pittorico io difendo quella specificità che lo rende insostituibile.
La pratica della pittura infatti mi pare ancora consentire all'unicità dell'esperienza soggettiva di esprimersi completamente e non é cosa da poco! Non credo si tratti, come molti affermano, di un'inutile manipolazione di emozioni personali ma della messa in atto di una possibile, autentica libertà.
La mia difesa potrebbe assumere i connotati del conservatorismo ma io credo che i veri conservatori siano coloro che, pensando di avere un'anima Duchampiana, lo hanno preso alla lettera (dimenticando solo che Lui regalava i suoi Readymades).
Può darsi che non si siano accorti che, così facendo, ricostruivano l'impianto concettuale Platonico che Duchamp aveva distrutto con l'ironia.
E l'ironia, si sa, é un'arma sottile che ama nascondere la sua verità perché sa che la verità non é pronunciabile. Il suo fine semmai é proprio quello di svelarne tutta l'indecifrabile ambiguità.

Ora mi domando e domando: "Che fare? Farsi travolgere o cercare di contrastare quelli che Kundera chiama i "paradossi terminali dei Tempi Moderni"?

Sandra Caroldi
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