Orazione di Minerva a Venere

"Il mio tempo sembra prossimo" dice Minerva a Venere mentre assieme osservano Marte flettere i muscoli.

   "Da troppo tempo ormai tu neghi al mondo chiara la visione della tua bellezza, sì che son forzata ora a mostrar lì la mia, che tu sai cruenta e infine pur crudele.

   Son saggia invero e quindi non restia, a pararmi ed effigiarmi armata, non foss'altro che a difesa. Ed è a tal fine che io non ho obliata la categoria della bellezza, però ricorda che a questo scopo solo io la ho coltivata: non mi compete lo studio di armonie per delicate cattedrali né tesser rigeneranti le pitture, non mi si adatta l'ispirare musiche e poesie che elevino i mortali alle iperuranee sfere... Che a questo, sempre tu ti dedicasti.

   Nella felicità dei tempi io pascolo gli smarriti nelle oscure selve del filosofare e li guido con fatica, verso l'ovile della tua virtù; ma in tempi oscuri sono il mio scudo e la mia spada a rilucere sinistramente. Se da pastora unica costruttrice mi ritrovo, solidamente costruirò. Non spetta però a me, impartire altra educazione che la rigida disciplina delle armi, non l'elaborare itinerari simbolici profondi e raffinati, condotti con estro di metafora ne la fantasia allegorica.

   Io, so costruire fortezze sulle cui mura percuotano invano i proiettili d'artiglieria, e ancora balisti che quelle mura apprendano a intaccare e mura ancor più forti e così via finché mi sazi, morder la coda di Uroborus. Agli uomini io insegno a uccidere i nemici in armi, nel modo più efficiente secondo il loro impegno; non produco efebi tesi alla crescita, alla ricerca eclettica, bensì rigidi guerrieri, con il cuore stretto e concentrato sul coraggio, con poco spazio per sentimenti altri.

A me compete la difesa, ricorda, e i miei protetti avranno la schiena dritta e il cuore adamantino.

   Un'altra volta ancora te lo chiedo, o Iside Afrodite, prima ch'io scosti la cappa dal mio scudo e agiti appieno le mie armi, un'orazione a te, a noi tutti cara: -Tanto grave è l'affronto che ti è fatto?- È il tuo consorte auriga indignato a segno tale che tu distoglier non lo possa dall'esiger la catarsi per mio mezzo? Già io sono partita, e meno fiumi di sangue a impregnare la terra e le nari degli uomini crudeli. Stuoli dei miei devoti ho già incarnato, atti a gioire della loro abilità cruenta. Coloro percorrono, tra gli uomini mortali, itinerari occulti; ovunque sento affondare i loro magli da combattimento nel tonfo molle di un corpo sociale decomposto.

   I tuoi adepti, già spodestati nel servizio ai tuoi altari da prezzolati spagiristi, han mantenuto però in uso il tempio occulto, nella diaspora frammentato in unità. E han conseguito, o Venere Callimaca. Un altro gradino hanno percorso, un nuovo mondo o un modo hanno creato, con l'aiuto dello Spirito Superno, di raffigurar noi e sé e il mondo e le sue gesta ed altro ancora. L'amore e la speranza degli artisti l'han voluto, matematici e ingegneri formato e concepito, pazienti tecnici cresciuto in giardini di cristallo e di metallo raro. Tanto mirabil cosa da esser vista dai ciechi, sentita dai sordi, raccontata dai muti; giammai scritta dagli analfabeti bada bene. Ma buona a dar moto e servizio a un infermo o un clavicordo a un senza dita.

   Ancora io ti prego, o Afrodite altera, che il tuo sposo invii a trascinare seco il mio, che da compagni vadano a bisboccia nelle obliate ormai taverne di Citera.

   Sempre una nuova terra hai data ai tuoi fedeli ove la cerca ascetica potesse proseguire, speranza almeno a chi di speranza sempre si è nutrito. Ma qual promessa puoi tu fare ora, se Apollo plaude all'efficienza e alla bravura del mio sposo. Se abbandoni alle mie ire un uomo fatto ormai creatore e distruttore in pieno grado della sua misura, non vi sarà più terra da promettere agli eletti, né tempio alcuno per la nostra e le superne adorazioni. Alta vola la mente mortale, contempla cieli dove solo gli spiriti predestinati e i semidei erano ammessi. Se ne cadesse, hainoi.

   Titani e Ctonii dal contraccolpo destati avremmo e a noi di ritornare a quell'antica lotta si converrebbe e a fatiche e noia usarsi per servir noi e un popolo capace di adorarci ormai non più al di su dei piedi, hainoi. Disciogli il tuo sdegno in una grazia pia, svela il tuo volto, a tessere riprendi l'antica tela dell'umano andare di cui noi ci vestiamo, o bella tra le belle.

   Non so quanti mortali ti abbian recata offesa ma so, che i tuoi seguaci hanno approntato tanto filo da annasparci dentro, se tu non riavvii quel tuo telaio che solo reca senso ad ogni umano agire.

   Insegna tu altro uso a quell'acciaro che or nelle fucine assume foggia d'arme, spogliami alfin di questo peso di corazze e spade che le mie membra opprime, che anch'io leggiadra possa danzar con te, sorella nello specchio ignuda.

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