Venice ObServer, The San Giorgio in Alega isle in Venice Lagoon
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The San Giorgio in Alega isle in Venice Lagoon

Photos by Tello De Marco, text by Umberto Sartory

San Giorgio in Alega

Raccontare l'isola di San Giorgio in Alega è un poco come ripercorrere la mia stessa vita. Quest'isoletta sperduta infatti è legata a ricordi emblematici delle mie età. Un luogo che mi era familiare e quasi quotidiano nell'infanzia, meta com'era della passione per la pesca di mio padre e che ho poi continuato a visitare pur con intervalli sempre più lunghi.
Posso quindi davvero raccontare gli ultimi cinquant'anni di San Giorgio in Alega per testimonianza diretta.
C'è, o meglio c'era, un canale a ridosso dell'isola verso Sud-Est, che al tempo della mia infanzia era frequentato dalle anguille: sulla terza bricola mio padre legava il sandolo noleggiato da Seno e lanciava le sue togne con un ampio movimento rotatorio del piombo sopra la testa. A volte ero con lui, ma più spesso le mie qualità di disturbatore mi avevano già fruttato un "affidamento" alle mura di mattoni della vicina isola.
Nè lì ero solo. Negli ultimi anni cinquanta un gruppo di pescatori curava la terra oltre a depositarvi le reti. Vi erano cani domestici e una sorgente d'acqua dolce.





Vigneti e frutteti ombreggiavano rustici tavoli e panche dove i gitanti e i clienti consumavano pasti di scampagnata o trattavano casse di frutta e di pesce.
L'isola era stata la prima a venire restituita al pubblico dai militari; gli edifici e la cinta muraria erano pressocché intatti. Sull'angolo di Nord-Est ancora si poteva vedere la statua di una Madonnina secentesca; sopra l'aggraziato arco in pietra d'Istria che dava accesso alla cavana in fondo alla darsena, spiccava una croce in marmo policromo assai più antica: sentivo mio padre descriverla come del '400. La chiesa presentava già piccoli danni al tetto, ma era integra nei suoi volumi e nelle strutture portanti. Altrettanto integri, e in parte abitati erano gli altri edifici, alcuni antichi e altri, come la torretta d'artiglieria in cemento, costruiti per la servitù militare.
Accostato al muro di cinta verso Venezia ancora ricordo un piccolo allevamento di conigli e galline.
Sullo spiazzo a destra entrando in darsena un grande cumulo di tubi di cartone catramato, contenitori vuoti delle cariche di lancio dell'artiglieria, per me bambino costituiva un settore esplorativo affascinante quanto proibito, come proibita mi era tutta la parte Ovest dell'isola, già inselvatichita e disseminata di residuati bellici.

Lo scalo di alaggio a sinistra era ancora parzialmente coperto dal tetto in travi assi e tegole: ospitava il rottame di una grossa imbarcazione lagunare ed era ancora in uso come squero per la riparazione di piccole barche. Perfettamente integro era anche il molo d'attracco in pietra d'Istria.

I pescatori-contadini se ne andarono, scacciati da una qualche ordinanza; si disse che l'isola era stata venduta per farne un albergo. Il luogo disabitato divenne ancora più affascinante per la mia lunga adolescenza inquieta e sensuale, ma anche più disponibile per attività illecite. Si cominciò a sentir parlare di refurtiva, contrabbando, armi che potevano esservi nascosti, e i normali gitanti smisero di andarci.
La vegetazione abbandonata a sé stessa rivelò ben presto la virulenza della vite che, non più potata né spogliata dei suoi frutti, scese dagli impalchi artificiali per avvolgere raso terra quasi tutta l'isola compresi gli edifici più bassi, soffocando gli altri alberi da frutto e vincendo anche l'edera che già si era insediata a ridosso dei muri e i cespugli di rovo. Negli ultimi anni però anche la vite ha ceduto, e ora l'isola è avvolta da un altro infestante di cui non conosco il nome, presumibilmente un'edera velenosa.





La sorgente dapprima si impaludò e poi scomparve tornando sotterranea.
Gli edifici, sotto l'attacco combinato della vegetazione, dell'incuria, dei vandali e dei ladri, che erano rimasti gli unici frequentatori dell'isola oltre ai romantici avventurosi come me, cominciarono a cedere. Archi e architravi, depredati della pietra d'Istria, si sbrecciarono e infine ruppero, cadde il tetto della chiesa e l'acqua cominciò ad attaccare le volte dei sotterranei, che ancora oggi però strenuamente resistono quasi intere.
La Madonnina della cinta murata, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, fu rubata: legata a una fune, venne trascinata sul fondo nel tentativo dei malintenzionati di non dare nell'occhio. Ma il fondale attorno all'isola è infido per cumuli di macerie scaricati abusivamente negli ultimi cent'anni. La statua si impigliò e la fune si ruppe. Un ultimo barlume di coscienza nei ladri fece loro segnalare anonimamente il fatto e il luogo d'incaglio. La statua fu quindi recuperata e ora è in deposito, si dice, presso una Sovrintendenza.

Sono passati cinquant'anni da quando sbarcai per la prima volta a San Giorgio, sento ancora l'aroma delle pesche bianche, delle ciliege e degli amoli, ancora ho nella memoria le immagini di gente cordiale e di un'isola accogliente e pulita.

Davanti agli occhi e all'obiettivo di Tello De Marco, invece, la devastazione dell'isola grida la condizione estrema in cui versa Venezia tutta, nelle mani di barbari del tutto indegni della Storia e della Civiltà veneziane.

Seno - Uno dei noleggiatori di barche, che era situato nel canale di Ognissanti alle Zattere. All'epoca vi erano almeno una decina di stazi attivi in città.
Togne - Semplici lenze lunghe. Tenute arrotolate solitamente su una tavoletta di legno o sughero, al momento dell'uso venivano svolte in apie volute sul fondo della barca. Il pescatore stringeva tra indice e pollice l'estremità a circa settanta centimetri dal piombo e la faceva roteare sopra la testa per lanciarla a qualche decina di metri dalla barca. La togna veniva poi lentamente recuperata.
Amoli - Specie locale di albicocche.


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