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Testimonianza sulle foibe istriane
di Luigi "Gigio" Zanon - inviato il 13/02/2010
Venezia 9.2.10

Per ricordare e capire la tragedia delle foibe e dell'esodo giuliano - dalmata vi consiglio di leggere questa storia che ha dell'incredibile.
Lo consiglio sopratutto a chi ancora oggi nega i fatti o li giustifica.
La verità dei fatti non si può negare, ma in questo caso si è cercato e ancora si cerca di occultarla.
Non aggiungo nessun commento



Mafalda Codan (Parenzo, 1926) è un'insegnante italiana.

Figlia di una famiglia di commercianti e proprietari che ebbe ben sette trucidati nelle foibe. Arrestata il 7 maggio 1945 a Trieste, a guerra finita, durante il periodo di occupazione jugoslava. Maestra elementare e Autrice di uno straordinario diario di sopravvissuta a quattro anni di deportazione in Jugoslavia, Mafalda fu liberata nel 1949.
Attualmente vive a Bibione, Provincia di Venezia.

Dopo l'8 settembre 1943
Nei giorni successivi all' 8 Settembre 1943, giorno di disfatta delle strutture dello Stato Italiano, in Istria si scatenò tra la popolazione slava, in parte organizzata dai partigiani di Tito, "l'occasione per vendicare i torti subiti nel Ventennio e dare sfogo alle rabbie represse: distruggere le tracce del controllo fascista, bruciare gli archivi dei municipi ".
I connotati politici della rivolta si saldano a quelli sociali, e i possidenti italiani diventano vittime dell'antagonismo di classe che coloni e mezzadri croati avevano accumulato nei confronti dei proprietari. (2)
Le motivazioni degli abusi slavi con le esecuzioni sommarie e gli infoibamenti, contro la minoranza italiana, che abitava nei paesi e città della costa dell'Istria e della Dalmazia, avevano aspetti etnici, politici e di jaquerie sociale.
A Parenzo trucidarono nella foiba di Vines il padre di Mafalda, lo zio Michele Codan, i fratelli della madre Giorgio, Beniamino, un cugino della madre Antonio. A seguito di questa tragedia Mafalda, con la madre e il fratello Arnaldo, si rifugiarono a Trieste.

L'arresto
Dal 1 maggio al 12 giugno 1945 Trieste fu occupata dall'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia in attesa dell'accordo, firmato a Belgrado il 9 giugno da Tito e il generale inglese Harold Alexander, che smembrò la Venezia Giulia secondo la linea di demarcazione nota come "linea Morgan".
In questo periodo non c'erano solo la "passione nazionale e l'intolleranza politica" per cui si potesse scomparire talvolta per sempre.
In molti casi bastava poco per decidere la sorte di un individuo, come del resto avviene di frequente nel vivo di grandi tragedie collettive.
Nel caso di Mafalda Codan, bastò "la parentela con una delle vittime delle foibe istriane del l'autunno del 1943", che suggeriva di far scomparire dalla circolazione testimoni scomodi.
Così il 7 maggio 1945, Mafalda, 19 anni, fu arrestata con il fratello Armando, 17 anni, e portati prima a Buie poi a Visnada e Visignano:
« (…) Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina (…) Prima sosta, Visinada. (…) Mi portano sulla piazza gremita di gente, partigiani, donne scalmanate, urlano, gesticolano, imprecano. Stoinich (Nino Stoinich di Valletta, partigiano, esecutore dell'arresto) mi presenta come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri, tutti cominciano ad insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni e a gridare: a morte, a morte. (…) »

La torturano davanti alla abitazione di Norma Cossetto, infoibata nel settembre del 1943, perché sua madre rivivesse il martirio della figlia.
Arrivata a Parenzo la Codan viene portata presso la sua abitazione dove il 9 maggio 1945 si costituisce un "tribunale del popolo", formato dagli ex coloni della famiglia. Questo "tribunale" decreta, davanti a una zia e al nonno di Mafalda, la sua condanna a morte; dopo averla fatta girare per i paese perché tutti gli abitanti la potessero vedere, insultare, bastonare, la riportano in prigione. Venne successivamente trasferita al carcere di Pola.

Il naufragio
Il 21 maggio 1945 Mafalda venne imbarcata, con tanti altri prigionieri tutti legati tra di loro con il fil di ferro, prima sul dragamine "Mont Blanc" e successivamente sulla nave cisterna "Lina Campanella".
Passato capo Promontore (promontorio a sud di Pola), nel comune di Medolino, la "Mont Blanc" (carica dei soli aguzzini) si fermò mentre la "Lina Campanella" (carica solo di prigionieri) venne fatta avanzare volutamente su una zona minata dove, alle ore 10.30 del 21 maggio, la nave urtò una mina e si inclinò su un fianco, rimanendo comunque a galla: nel mese di agosto sarà avvistata nel porto di Spalato, pur danneggiata a prora.
Nell'incidente molti sia tra i prigionieri che tra i loro aguzzini finirono in mare. Mafalda Codan fu tra i fortunati prigionieri che riuscirono a liberarsi e a salvarsi a nuoto. Arrivata a terra con altri prigionieri, fu accolta dalla popolazione slava con "bastoni e grida ostili" e, a piedi, raggiunse Dignano dove venne trattenuta in prigionia fino al 1 giugno 1945.

La foiba per il fratello
Ttrasferita poi nella prigione del Castello di Pisino, Mafalda vi vede ucciso nella foiba il fratello Arnaldo.
« (…)Tutte le notti un partigiano dalla faccia cupa e torva entra nelle celle ed esce con qualcuno che non tornerà più. Quando al lume delle torce cerca sul foglio i nomi, gli occhi di tutti sono attaccati alla sua bocca e un brivido improvviso ci attraversa il corpo.
Le urla di dolore di Arnaldo e degli altri suoi compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte. (…)
Al mattino gli aguzzini ritornano felici di aver ucciso tanti nemici del popolo. Li hanno massacrati tutti. Uno entra nella mia nuova "residenza" e mi chiede: "Quanti anni aveva tuo fratello? Non voleva morire sai, anche dopo morto il suo corpo ha continuato a saltare. (…)»

A Pisino lei rimase lì fino al 3 settembre 1945. In questo periodo visse anche un breve periodo di semilibertà. Dal testo si comprendono le motivazioni dell'arresto.

Le accuse
« (…)Entro in un ufficio, dietro una scrivania siedono due uomini dall'apparenza civile, sono due giudici, uno indossa l'uniforme l'altro è in borghese.
"Hai visite" mi dicono, aprono una porta ed entrano quattro donne scalmanate.
"Come? È ancora viva?" chiedono arrabbiate. "Perché non è "partita" con gli altri?" Urlano, gridano, vogliono picchiarmi.
I due capi glielo impediscono. Mi accusano di cose inaudite e allora urlo anch'io e da accusata divento accusatrice, di cose vere però.
Da una frase detta dalle forsennate, capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno trovato il mio diario.
In un quadernone ho scritto infatti il calvario della mia famiglia iniziato con l'occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho annotato nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole, dette, tutto (…) e corredato di fotografie, documenti importanti e pezzi di giornale.
Sono testimonianza che scottano, verità che non si possano negare, che condannano, che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte.
Ora racconto tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia, cosa ho vissuto, faccio nomi, non riesco a tacere perché ho la coscienza a posto, so di essere innocente, non ho paura di nessuno. (…)
Riesco a farle zittire e le quattro, scornate, lasciano l'ufficio con le pive nel sacco.
Da quell'istante la mia vita cambia. I due capi hanno capito, che sono indifesa in balia a dei pazzi esaltati dalla propaganda comunista e che, come diceva Honorè de Balzac, "Il sonno della ragione genera mostri" (…) ».


La "rieducazione"
Dal settembre al 10 febbraio 1946 Mafalda è in carcere a Fiume dove viene processata e condannata. L'11 febbraio, con tanti altri prigionieri, viene avviata al carcere di Maribor, dove rimarà fino al 15 maggio 1946.

Dal 15 maggio 1946 al 29 giugno 1948 fu presso il "Poboljsevalni Zavod" (carcere di correzione, politica) di Begunje,a circa 40 chilometri dal lago di Bled, in Slovenia. Tutto il personale del campo di correzione politica era composto solo da ex combattenti che si erano particolarmente distinti nella lotta partigiana comunista.


La liberazione
Nel 1949 i condannati italiani, assistiti dalla Croce Rossa Italiana, furono sollecitati a scegliere tra le due nazionalità. Tutte le amiche di prigionia e Mafalda Codan scelsero l'Italia; così il 10 giugno 1949, dopo aver transitato più volte nelle carceri di Lubiana e Nova Gorica, venne liberata in cambio di prigionieri.

In Italia ha fatto l'insegnante elementare nella provincia di Venezia. Tra le scuole dove ha insegnato si ricordano quelle di Vetrego di Mirano e di Bibione, dove attualmente vive con la famiglia.


F ò i b e


Tutta la tragedia dell’Istria è racchiusa in questa oscura parola, che riassume in sè le vicende dolorose degli ultimi tre anni e l'ansia di un temuto destino. Paurosa parola: mette il brivido, a pronunciarla, in chi ha avuto l'amara ventura di veder risalire alla luce, dall’ abisso delle foibe istriane i cadaveri dei fratelli massacrati.
Fu nel settembre dell' armistizio che gli slavi giocarono la loro facile carta, armando con le nostre armi bande affrettatamente raccolte fra l'elemento slavo delle campagne istriane con lusinghe di immaginari vantaggi, da agitatori locali e d'oltre confine.
Bastò meno di un mese, ai nuovi venuti, per compiere il loro trucemente premeditato disegno: colpire l' italianità dell' Istria eliminando i suoi uomini migliori.
In venti giorni essi inflissero agli italiani sofferenze e lutti indescrivibilmente più gravi di quanti ne avessero sopportati gli slavi dell’ Istria per colpa del fascismo, in venti anni.
In venti giorni! Basti, per farsene un' idea, questa cifra: più di 600 morti.
Una media spaventosa: trenta vittime al giorno. Nè si sarebbero fermati, se non avessero dovuto abbandonare il campo.
Lo dimostrarono infatti al loro ritorno, nel maggio 1945: da allora a oggi quasi cinquemila persone sono scomparse in Istria, secondo un calcolo inevitabilmente approssimativo ma attendibile.
Cinquemila, fra arrestati, deportati, massacrati: la loro fine è avvolta nel mistero.

Era avvenuto così, nel '43.
Impossessatisi del potere in tutte le cittadine istriane esclusa Pala, occupata subito dai tedeschi, gli Slavi piantarono le loro bandiere sui veneti municipi e misero al bando gli Italiani dai Pubblici Uffici.
Cominciò un periodo di caotica amministrazione: di gente inesperta che bruciò, per esempio, tutti i documenti annonari, nell’incredibile illusione di dare così al popolo una malintesa libertà e portandolo invece, in meno di un mese, alle soglie della fame, per l' incontrollato rapido esaurimento delle scorte alimentari della provincia poverissima.
Ma non fu questo, il male maggiore; nè le ansie sofferte nè le umiliazioni patite, nel sottostare al malgoverno di gente arretrata.
Ben presto cominciarono gli arresti. Avvenivano solitamente di notte.
Due o tre armigeri si presentavano nelle case degli italiani, li invitavano a seguirli al "Comando" per una richiesta urgente di informazioni, per degli schiarimenti, per controllo. E non tornarono più, quegli sventurati.
La sola Parenzo - una piccola città della costa - perse 65 dei suoi figli migliori! Alle mamme, alle spose, ai sacerdoti che cercarono di aver notizie di tanti innocenti scomparsi, furono sempre date le più tranquillizzanti rassicurazioni: arresti precauzionali o, tutt' al più, campo di concentramento, e "torneranno, sì, torneranno".
Talchè, quando all' occupazione slava subentrò quella tedesca, i familiari ancora speravano, e sperarono per tutto un mese, finchè la parola paurosa corse per la piccola penisola: fòìbe, a svelare il mistero in cui era il avvolta la sorte di tanti italiani.
Gli arrestati avevano subito, prima delle esecuzioni, un processo.
I cosiddetti "tribunali popolari" giudicarono e anche assolsero, ma assolsero soltanto alcuni italiani che non erano originari del posto.
Chi era giunto qui da altre province, venne messo in libertà, fosse pure il più accanito dei fascisti, e fatto partire dall' Istria.
Fu, quindi, un piano preordinato, non l'insurrezione di una classe sociale sfruttata, non furore di popolo, non sete di giustizia o di vendetta, a decretare la sorte degli istriani in quell' infausto settembre 1943.
Chi paragona le uccisioni di allora alle esecuzioni sommarie di fascisti avvenute nell' Italia settentrionale dopo la liberazione, sbaglia: i contadini slavi non uccisero alcun italiano all' angolo della via, perchè nessuno slavo era stato ucciso in Istria nei vent' anni di governo italiano!
Funzionarono invece squadre di torturatori nelle segrete delle carceri e plotoni di esecuzione presso le foibe e le cave di bauxite.
Oggi, fatta la nuova esperienza titina, un gran numero di contadini slavi dell' Istria spera in segreto un ritorno dell' Italia in questa terra ingiustamente contesa.

Nell' Istria, gli abitanti delle campagne - tranne la costa, compattamente italiana - erano slavi; ma gli abitanti di tutte le cittadine, anche all' interno, erano sempre stati italiani.
I piccoli commercianti, i piccoli artigiani, i piccoli industriali, tutti italiani, e italiani sopratutto gli uomini delle scuole e degli uffici.
Per far tacere per sempre la loro voce bastava - pensarono gli Slavi, e si dimostrarono in ciò diabolicamente crudeli - eliminare gli elementi più capaci, più decisi, più rappresentativi; per intimorire la massa, non trascurarono di eliminare anche elementi insignificanti, inoffensivi.
Tolsero così di mezzo impiegati, agricoltori, insegnanti, sacerdoti, pescatori, piccoli artigiani, piccoli commercianti. Scorrendo il lungo elenco dei martiri delle foibe, leggiamo nomi che avevano avuto, nei loro paesi, risonanza per vecchia nobiltà e per vita industriosa, ma anche nomi oscuri di modesti lavoratori.
Fu una tragedia, per l' Istria, la più grave della sua storia, non solo per il numero elevato dei morti che privava questa terra degli elementi più validi, ma anche - e soprattutto - riguardo l’ avvenire.
Perchè queste stragi, quando furono. conosciute, provocarono l'esodo di centinaia di italiani, che diventarono migliaia alla seconda invasione slava, nel maggio 1945, in cerca di un asilo in altre regioni.
L' Istria si spopolò così della maggior parte degli Italiani, ed era a questo che gli slavi avevano mirato dal primo giorno del loro tristo dominio.

Un giorno piovoso dell' ottobre 1943, appena fuggiti gli slavi dinanzi ai nuovi occupatori, un ragazzetto di 16 anni vagava per le campagne dell'Istria orientale, vicino ad Arsia, dove sorgono le miniere.
Suo padre, un capo minatore, era stato arrestato dagli slavi assieme ad altri 40 italiani del suo paese; il ragazzo andava ora di casa in casa, cercando invano notizie sulla sorte dei mancanti dai contadini, che tacevano per paura o per omertà. Nel suo pellegrinare giunse, per caso, presso una foiba, fenomeno frequente nella campagna istriana: sono voragini che s'aprono nella terra a forma d'imbuto rovesciato e sono profonde, alcune, anche più di cento metri.
C'era, tutt' intorno, il filo spinato che i contadini usano porre a riparo per le loro bestie al pascolo; ma in un punto esso s' interrompeva, e fu ciò che attrasse l' attenzione del giovane.
Si avvicinò, esaminò il terreno. Scorse un paio d' occhiali, poi una cintura avviluppata a un arbusto, più in là i bossoli di un fucile mitragliatore.
Smosse col piede un po' di terra: c'era una pietra arrossata di sangue.

La prima foiba dei martiri istriani fu scoperta così. Da quel giorno tutta l' Istria fu battuta nelle sue campagne, nei suoi boschi, e la tragedia rivelò la sua ampiezza: vennero alla luce massacri che non avevano ancora esempio nella storia delle nostre terre.
Cominciò un lungo, estenuante lavoro per il ricupero dei poveri morti, ma non tutti i cadaveri furono trovati: quando le ricerche furono interrotte, non si conosceva ancora, nè mai più si conobbe, il posto in cui erano stati massacrati numerosi gruppi di istriani strappati alle loro case in quel tragico settembre.
Fu materialmente impossibile esplorare tutte le foibe e di molti si seppe ch'erano stati gettati in mare, vicino ad Albona, legati a catena con grosse pietre al collo.
Il ricupero delle salme e finalmente il racconto di qualche testimonio oculare, permise un'esatta ricostruzione della fine dei martiri.
Si apprese così che molti di essi erano stati fatti precipitare ancor vivi nel baratro: legati a coppie, schiena contro schiena; non tutti furono colpiti dal fuoco dei fucili mitragliatori, sicchè il compagno morente trascinò spesso nella foiba quello vivo.
Episodi di inaudita ferocia, testimonianze di sevizie indicibili vennero scoperti.
All'orrore della macabra rivelazione si aggiunse lo strazio dell'incontro dei vivi con i loro poveri morti.
I parenti degli uccisi giungevano in folla sui luoghi dei massacri per cercare tra i corpi martoriati un fratello, uno sposo, un figlio, il padre, la propria mamma. Giungevano lì per avere, in tanta sventura, il conforto almeno di sapere dov'era morto il proprio caro, di ritrovare i suoi resti e ricomporli nei piccoli campisanti delle borgate dove erano nati e vissuti amando l'Italia.
Urla di dolore e di orrore, pianti. che nulla avevano di umano, come di gente ferita nelle proprie carni, gli occhi sbarrati in una fissità che contempla va senza forse vedere .... Ma come conoscere, fra quei volti non più conoscibili, fra quei corpi lacerati, spezzati, fra quei brandelli insanguinati e corrosi, come conoscere un segno che dicesse al cuore della mamma "questa è la tua creatura ", all'affetto del figlio “questo è tuo padre"?
Eppure una forza misteriosa, forse il segreto della vita, forse il sangue che unisce il padre al figlio, il fratello al fratello, faceva scorgere in quei resti le care persone perdute.
Quante mamme, prima ancora di esser vicine a un gruppo di salme, gridarono che il loro figlio era là, e il loro figlio c'era, esse lo vedevano, i loro occhi piangenti scorgevano nella carne informe le loro creature, carne della loro carne, quel figlio per cui tanto avevano sofferto nel dargli la vita così barbaramente perduta, quel figlio che un giorno gli slavi avevano strappato alla casa ove una sposa e i bimbi invano ancora attendevano, quel figlio era là, senza la pace delle morti volute da Dio.


Ma questi sono fatti del ‘43. Dram¬mi più recenti, conosce l' Istria. Ecco la testimonianza viva di un giovane istriano imprigionato dagli slavi nel 1945 e uscito miracolosamente salvo da una foiba. Questo suo racconto fu pubblicato dal giornale di Trieste "La prora", che ne garantisce l' autenticità, il 20 gennaio 1946
"Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell'alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri: "Facciamo presto, perchè si parte subito".
Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solamente le calze.
Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi.
Fummo sospinti verso l'orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa.
Un partigiano allora, in piedi su di una roccia laterale col mitra puntato, ci impose di seguirne l' esempio.
Poiché non mi muovevo, mi sparò contro, ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anzichè ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella fòiba, il sasso era rotolato lontano da me.
La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell' acqua che stagnava in profondità.
Cadendo, non toccai il fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole: "Un' altra volta li butteremo di qua, è più comodo", pronunciate da uno degli assassini.
Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott' acqua, schiacciandomi con la pressione contro la roccia.
Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola.
Solo allora potei sentirmi finalmente salvo".


Gli agitatori slavi in Istria, nel settembre '43, avevano attirato a sè i contadini dicendo loro: "Con noi trionfa il nazionalismo croato; la stella rossa non è che lo specchietto per i comunisti italiani".
Al contempo, avevano attirato a sè i comunisti italiani assicurandoli che era giunta l’ora del trionfo rosso: la bandiera croata non era che il contentino che si doveva dare ai contadini per avvicinarli al comunismo.
Portarono in Istria, in effetti, un nazional-comunismo che scontentò e i comunisti italiani e i contadini croati.
Arrivati i tedeschi, gli slavi se ne andarono. Cominciò allora l' eroica lotta dei boschi, dove Italiani e Slavi lottarono onestamente assieme contro i nazisti e i fascisti, finchè si giunse al maggio della liberazione.
Gli slavi, col fiato in gola per arrivare prima degli alleati, tornarono in Istria e misero piede a Trieste e a Pola.
Parlarono, questa volta, di democrazia progressista e di fratellanza italo - slava, ma a Rovigno uccisero con un colpo alla nuca - e non fu questo il solo episodio del genere - il partigiano Calì Rocco, davanti alla sua abitazione, mentre tornava dalla montagna: aveva al collo un fazzoletto tricolore. Democrazia, fratellanza, parole bellissime.
Ma all' ombra della bandiera rossa s'insinuò invece fra noi l'imperialismo di Belgrado, e con esso il mal governo, i giudizi sommari, la tragedia delle deportazioni. E deportazione, ormai si sa, vuol dir morte.
Chi sono i deportati, questi "nemici del popolo" strappati alle loro case dai portatori del verbo di Tito? Vecchi criminali fascisti? Avanzi di brigate nere? Torturatori di slavi innocenti ?
NO! Sono in gran parte volontari delle brigate partigiane comuniste italiane, o cittadini ingiustamente denunciati.
Ma sono sopratatto i rivoluzionari antifascisti Silvestri, Zustovich, Ulivi, Sverzutti, Adam, comunisti purissimi che avevano conosciuto le galere fasciste e i campi di Hitler, che avevano combattuto al fianco degli slavi per il trionfo della libertà, ma che non si lasciarono ingannare dalle false parole di Belgrado, compresero ciò che qualche italiano di province lontane a noi può purtroppo non aver ancora compreso: il gioco di Tito.
Compresero quel gioco e misteriosamente sparirono dalle loro case.
La verità imperante è una sola: il più puro antifascista che non abbracci senza riserve la tesi jugoslava, diventa in queste terre martoriate il più spregevole dei reazionari, nemico del popolo.
Diventa, semplicemente, un fascista. E come tale gli spetta la foiba.
Che nuove foibe siano state riempite con cadaveri di italiani, in Istria, che altri istriani siano stati ammazzati e gettati in mare, dopo il maggio '45, non c' è più, purtroppo, alcun dubbio. Se non bastassero le testimonianze dei fuggiaschi (essi parlano dell' esistenza di foibe a Pisino, Villa Checchi, Pedena, Urnago, Albona, ecc.) sono una prova convincente le scoperte fatte nella zona A dopo che le truppe di Tito, per il poco rispettato accordo Tito-Alexander, lasciarono questa parte della Venezia Giulia trincerandosi nella zona B.
Ma quando potremo esplorare queste nuove foibe? Potremo mai dar sepoltura alle nuove vittime, come un giorno facemmo per i massacrati del '43, o il tempo distruggerà ogni loro resto?
Sulla fine dei comunisti italiani massacrati dai comunisti slavi - tragica alleanza! - e di tutti gli altri nostri fratelli deportati a migliaia, i giornali del cosiddetto partito comunista giuliano di Trieste e dell’ Istria non hanno mai voluto rispondere, neppure per offrire qualche cavillosa spiegazione o per rigettare l'accusa gravissima.
Sono ancora vivi! Quando conosceremo la loro sorte? Kardelj parla a Parigi, ma non parla per rispondere a queste nostre domande. Nè rispondono i paladini della cosiddetta "fratellanza" italo-slava, fra i quali si annidano, spesso con funzioni di comando, i peggiori elementi del fascismo locale, che hanno avuto salva la vita mettendosi a servizio degli occupatori.
Non vogliono udire i nostri appelli angosciati. Non hanno tempo da perdere per le nostre sciagure di oggi. .
Devono pensare a quelle che ci infliggerebbero domani, padroni indisturbati, se l' Istria dovesse venir strappata all'Italia. Perché la tragedia dell’Istria è sempre in quell' oscura parola: F0IBE.


V E N E T I ! !

I morti Istriani vi chiedono
Di non dimenticarvi dei vivi:
i vostri fratelli che ancora
soffrono nell’Istria oppressa!

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