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Il restauro dell`Orologio della Torre di San Marco - Un grave e sorprendente caso di incoerenza nella salvaguardia del patrimoni
di Alberto Peratoner - inviato il 03/03/2001
Alberto Peratoner è stato l'ultimo manutentore a vivere nella Torre dell'Orologio. Laureato in
Filosofia è attualmente ricercatore presso il medesimo dipartimento dell'università di Ca' Foscari
a Venezia.

Un fatto grave di radicale manomissione di un'importante testimonianza del passato è recentemente
accaduto nella città di Venezia: l'Orologio della Torre di Piazza San Marco è stato fatto oggetto
di un restauro che ne ha stravolto le caratteristiche fondamentali della meccanica interna. E ciò è
potuto accadere in un'epoca in cui anche i brandelli più insignificanti del patrimonio storico,
architettonico e persino di arredo urbano (le tende dei bar, per esempio) sono fatti oggetto di
controlli al limite dell'ossessivo e in cui regna l'interdizione di qualsiasi intervento comporti
modifiche anche minimali. Ciò ha una sua logica, perché di fronte alla soggettività delle scelte di
trasformazione da un lato e l'antichità di un bene artistico, storico o monumentale dall'altro è
certo da ritenersi più 'sicuro' optare per la non-scelta, ovvero per una strategia di conservazione
generale, dove il capriccio del singolo non può trovare ascolto e le ipotesi, anche 'ragionate',
non hanno il diritto di interferire con lo stato di fatto del patrimonio esistente.
Tali principi, nel caso dell'Orologio della Torre, non hanno trovato applicazione coerente. Il
restauro, finanziato dalla Piaget e diretto dal Comune di Venezia, è stato condotto dallo storico
dell'orologeria G. Brusa e, materialmente, dal fabbro mantovano A. Gorla, che hanno operato in
senso non conservativo sullo stato meccanico dell'Orologio, sulla scorta di pretestuose
considerazioni di carattere filologico e con l'intento dichiarato di riportare l'organismo allo
stato precedente all'ultimo grande restauro ottocentesco. Va qui detto, infatti, che l'Orologio in
questione è giunto sino a noi quale complesso risultato di una serie di stratificazioni che dal
1499 si sono succedute ad ogni secolo con i vari interventi effettuati. Nel 1757 Bartolomeo
Ferracina ricostruì il corpo centrale e dotò per la prima volta l'Orologio del pendolo; nel 1858
Luigi De Lucia modificò in parte il sistema del 'tempo' e realizzò l'apparato di visualizzazione
numerica luminosa di ore e minuti. Quest'ultimo intervento, però, non è piaciuto a G. Brusa, che si
prefissò di eliminarlo radicalmente, quasi si trattasse di uno strato di sporco di cui ripulire il
grande Orologio, ma l'idea non riuscì a coinvolgere gli apparati numerici e si concentrò sul
sistema del 'tempo' e in particolare sul pendolo e lo scappamento connesso.
Così, con tale intervento, il pendolo ligneo lungo 4 metri e 15 cm (esemplare veramente raro e di
pregio) è stato sostituito con uno lungo meno della metà (m 1,90), collocato al lato opposto
rispetto al precedente, mentre il mutato periodo di oscillazione (136 contro i 2 del precedente) ha
obbligato alla completa ricostruzione del sistema di scappamento a caviglie. Per comprendere la
gravità di tali trasformazioni, basti pensare che queste parti formano l'Orologio propriamente
detto, in senso stretto, l'unico organismo in perenne movimento: tutte le altre parti del
meccanismo non sono altro che funzioni in dipendenza e derivazione da questo, che potremmo
metaforicamente definire il 'cuore' dell'Orologio.
Tale operazione è stata condotta sulla scorta di alcune considerazioni di G. Brusa, secondo il
quale questo sarebbe stato l'assetto 'ferraciniano' (1757) dell'Orologio, stravolto dall'intervento
del De Lucia (1858), considerazioni ipotetiche e del tutto insostenibili: lo provano documenti
d'archivio da me descritti e pubblicati nel libro L'Orologio della Torre di San Marco in Venezia.
Descrizione storica e tecnica e catalogo completo dei componenti, Venezia, Cafoscarina, 2000, pp.
37-43, ill., ma per i dettagli tecnici della questione rimando i lettori al sito web
www.orologeria.com.
Della concretizzazione di queste scelte si è reso responsabile Giandomenico Romanelli, in qualità
di direttore dei Musei Civici Veneziani, che sino ad ora non ha trovato di meglio che invocare
l'autorevolezza dei restauratori coinvolti, da lui definiti i maggiori esperti. Definizione
discutibile, in quanto la semplice lettura di quanto pubblicato sinora sull'Orologio della Torre da
G. Brusa rivela un'incontestabile superficialità nella conoscenza dello stesso 'storico', che è
giunto a fissare sulla carta errori grossolani e inesattezze palesi anche a qualsiasi veneziano,
come l'affermare che la soneria della ‘meridiana’ sarebbe stata disattivata nel 1858 (mentre ciò
accadde nel 1915) e che persino il quadrante sulle Mercerie non funzionava da quell'epoca, mentre
funzionò incessantemente fino al 1997, quando l'Orologio fu smontato. Possibile che Brusa arrivi al
punto da negare l'esistenza delle componenti di trasmissione del moto al quadrante? (si veda
l'opuscolo Restauro dell’Orologio della Torre, presentato in occasione della mostra a Palazzo
Ducale nel 1999, pp. 29-30). Si leggano poi le amenità scritte nel libro L'arte dell'orologeria in
Europa (Bramante, 1978), in cui Brusa scrisse che «originariamente, sopra la mostra verso la
Piazza, una processione di Angeli e Magi allo scoccare dell’ora sfilava innanzi alla Madonna ...»
(pag. 40), quando tutti sanno che si tratta delle statue dei tre Re Magi e di UN angelo,
perfettamente funzionanti e ammirate fino allo smontaggio del 1997.
Va detto, comunque, che il restauro effettuato non è irreparabile: l'operazione è reversibile, e si
è ancora in tempo affinché l'assetto dell'Orologio torni allo stato precedente. Per concludere, la
questione del restauro dell'Orologio della Torre è riconducibile a due punti: 1) E' da ritenersi
scorretta in linea di principio un'operazione di ripristino filologico retrospettivo, qualora porti
alla soppressione di un bene preesistente, in questo caso una pregevolissima meccanica di 140 anni
di età. Di regola non si agisce così, e vengono salvaguardati e conservati oggetti molto più
recenti (bastano 50 anni). L'opinione di chicchessia, fosse anche il più grande esperto mondiale
(ma non è certo questo il caso), di fronte a tutti i rischi che l'espressione della soggettività
comporta, deve trovare uno sbarramento nell'oggettività della conservazione del bene nel suo stato
di fatto, del quale vanno rispettate tutte le stratificazioni storiche di provata antichità, e non
arbitrariamente discriminate tra più o meno degne. Perché allora non ricostruire San Geminiano al
posto dell'Ala Napoleonica, o eliminare i mosaici rinascimentali della Basilica di San Marco per
ricomporli nelle forme bizantine originali? Questi ripristini sarebbero dei 'falsi', realizzati al
posto di opere comunque di un certo valore e antichità, come è un 'falso' un Orologio costruito nel
1998-99, anche riproducesse la forma di uno stadio più antico rispetto a quello del 1858. 2) Anche
se Brusa avesse ragione, dunque, l'operazione sarebbe da rigettare come scorretta e totalmente
difforme dal modo comune di operare. Ma la stessa posizione di Brusa è incontrovertibilmente
sconfessata da prove e documenti d'archivio, oggettivi e indipendenti dalla volontà di chiunque: la
sua fantasiosa costruzione poggia su inutili complicazioni e si sgonfia del tutto una volta
dimostrata l’esistenza dell'effettivo assetto del pendolo precedente all’intervento del De Lucia
(1858).
Di fronte a tutto ciò fanno sorridere, infine, le dichiarazioni dello stesso Romanelli sul caso del
Teatro La Fenice: su Il Manifesto del 6.2.1996 (Un teatro strato su strato, riprodotto in T&A News,
febbraio 1996) egli infatti scrisse, giustamente: «... la Fenice ha continuato a modificarsi e ad
evolvere, ad adeguarsi alle esigenze tecnologiche non meno che a quelle del gusto: pensare, per la
ricostruzione che oggi è necessaria e urgente, a una Fenice originaria e incontaminata (a un
presunto livello selviano, per così dire) è illusorio e ridicolo». Complimenti, Romanelli! Quanto
siete riusciti a fare dell'Orologio è esattamente questo, illusorio e ridicolo, come il presunto
livello ferraciniano vagheggiato da Brusa.

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