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Il grande torto dell`Occidente - Altre riflessioni sulla dinamica degli imperi
di Umberto Sartory - inviato il 20/03/2004
Ho avuto occasione in passato, proprio dalle pagine di Venezia ObServer, di affrontare il tema del conflitto Arabo Israeliano, ricavandone un’impressione decisamente sfavorevole alla causa araba. In particolare ricordo che non emergeva da quel discorso alcuna ragione sensata ascrivibile a quest’ultima.
Estendendo però l’analisi del fenomeno, che si è a sua volta in tal senso riesteso, al conflitto tra la civiltà di informazione celto-giudaico-cristiana e quella di informazione islamica, il bilancio delle ragioni e dei torti non è più così assolutamente in favore della nostra civiltà.
Vi è un torto grave relativamente recente, da noi commesso verso quella cultura e direttamente contro alcuni Stati ed economie da quella informate; un torto che, visto unilateralmente, può apparire trascurabile ma che, se visto obiettivamente, ovvero ribaltandolo in nostro sfavore, prende una luce che sono propenso a dichiarare determinante nell’inasprirsi del conflitto.
Riferisco ai bombardamenti con defolianti che l’ONU effettuò negli anni ’60-80 sulle piantagioni di canapa e oppio di Nepal, Pakistan, Afganisthan e chissà quali altri stati dediti a quelle coltivazioni.
Alla nostra opinione pubblica, tali barbare azioni sono state spacciate per una legittima lotta contro il traffico della droga. Alla nostra opinione pubblica si tiene però nascosto che anche la nostra civiltà usa l’araldo della droga per rappresentarsi nelle altre.
Nella nostra cultura, vino e superalcolici rappresentano quello che per gli Islamici e altri Orientali come gli Indù (complessivamente una buona metà della popolazione mondiale) è rappresentato dalla canapa e dall’oppio. Innanzittutto droga rituale religiosa, legata quindi alle radici profonde di ciascuna cultura. Poi ancora strumento di socializzazione e di evasione ludica...
Insomma, per dirla fuori dai denti: come avrebbe reagito la nostra civiltà se gli Stati islamici, mettiamo l’Afganisthan, avessero bombardato, a freddo e per anni consecutivi: lo Champagne e il Bordeaux, il Collio e il Chianti, i vigneti del Reno e quelli della California?
E non semplici bombe, ma cariche di veleni chimici in grado di sterilizzare quei terreni benedetti dal Signore? Lo avremmo considerato un mezzo lecito per arginare il dilagare dell’alcolismo tra le loro popolazioni? Eppure ben sappiamo che l’abuso alcool è di gran lunga la droga più distruttiva, sia dal punto di vista organolettico che da quello dei danni indotti con incidenti stradali, disagio sociale, emarginazione.
Questo è evidente nelle nostre nazioni e tragico in quelle orientali: da noi un drogato è ormai largamente considerato persona da curare, mentre per la cultura indù, i.e., un alcolista rovina socialmente non solo la propria vita, ma anche quella dei suoi parenti, che si vedono porre l’ostracismo con tutte le sue conseguenze: perdita del lavoro, della stima e delle relazioni sociali, fino al secondo grado di parentela. Un ubriacone nepalese distruggerà la vita del coniuge, dei figli, fratelli, sorelle, cugini e cognati. E chi è stato a spasso per Tamel o Delhi sa quanti sono i beoni in circolazione.
Eppure era ovvio che nel processo benefico di globalizzazione la commistione culturale sarebbe stata inevitabile oltre che auspicabile, e che l’uso di “porte magiche” sarebbe a sua volta divenuto transculturale.
Con quell’atto arbitrario di guerra chimica l’Occidente non soltanto ha offeso le radici culturali e sacrali di molti popoli e ne ha avvelenato vasti territori, ma ha anche consegnato l’economia di quelle nazioni (vocate a tali coltivazioni da millenni) nelle mani della malavita internazionale, mancando tra l’altro clamorosamente l’obiettivo di ridurre l’importazione delle droghe canapacee e oppiacee, che hanno, malgrado l’ONU e le sue patronesse bigotte, allargato il loro mercato in modo endemico se pur clandestino fra le nostre popolazioni, introducendovi anche la coltivazione locale.
Ribadisco, come sarebbe il nostro sentimento nei loro confronti se, per difendere le loro idiosincrasie, gli Arabi avessero avvelenato con le aerobombe i nostri migliori vigneti, senza riguardo a confini e usi locali? Come ci sentiremmo noi giudeo-cristiani se ci avessero fatto questo approfittando della nostra incapacità a difenderci?
Quelle civiltà, fondamentalmente agricole, non hanno appreso a produrre aeroplani, ma hanno dalla loro la consapevolezza naturale dei cicli, il che, in guerra, si traduce nel fatto che hanno una soglia di paura della morte assai più alta della nostra. Stiamo imparando a nostre spese quanto possono essere dannosi dei nemici che non hanno paura di morire e che sono motivati dall’assenza di speranza terrena.
Se come essere umano io non voglio mai dimenticare il torto da noi fatto ad Afghanistan Nepal e agli altri produttori di oppio e hashish, come pensatore non posso prescindere dalla visione sulla dinamica degli imperi, che, inquadrando l’episodio in un quadro più ampio può cambiare anche la sua impressione emotiva.
Si tenga presente, nella cronologia che segue, che le strategie d’impero si muovono in tempi che travalicano ampiamente quelli di una singola vita umana; esporrò comunque solo il più recente segmento di queste strategie, rimandando chi volesse inquadrarlo dall’ellenismo in poi alle “Pagine Esoteriche” che Fernando Pessoa ha dedicato all’argomento.
Ho già accennato alle droghe come araldi d’infiltrazione delle civiltà. Nella logica conflittuale che queste hanno adottato questi araldi sono spesso usati come veri e propri commandos sabotatori. Gli stessi Americani probabilmente non prevedevano l’effetto devastante dell’acqua di fuoco sugli indigeni: una volta stravinta la “guerra indiana”, infatti, intimoriti dagli effetti verificati sul campo dell’arma alcool, provvedono d’urgenza a proibirlo ai propri cittadini. Provvedimento stupido in sé, ma che sembra rilanciare la palla alla sorniona visione imperiale, quella che nei secoli e da secoli muove la lenta strategia delle nazioni. Pochi anni dopo la proibizione dell’alcool, (fenomeno di ben breve durata), scatta anche la proibizione di oppio e hashish, che vengono ufficialmente dichiarati come male assoluto, ponendo le basi ideologico-morali per quei bombardamenti che forniranno il casus belli oltre trent’anni più tardi. Indicativo a questo senso, come le leggi di proibizione su oppio e hashish siano passate nel giro di pochi anni in tutti o quasi i paesi celto-giudaico-cristiani, senza riguardo ai conflitti interni in atto e latenti. Roosevelt, Hitler, Churcill e Mussolini sono stranamente fratelli in questo legiferare.
30 anni dopo la nostra pressione culturale raggiunge uno stato in cui i sistemi arcaici non sono più tollerabili: la nostra coscienza planetaria e il nostro concetto del rispetto individuale non sopportano più che in Africa sia legittimo resecare la clitoride alle bimbe o che in Afghanistan le donne debbano star velate a sgozzare i propri mariti. Io stesso, in prima persona non sono affatto disposto a tollerare simili pratiche, dovunque esse avvengano: esse sono perpetrate verso il corpo dell’umanità e quindi contro il mio stesso corpo, spiritualmente parlando.
Del resto simili paesi fino agli anni ‘70 sono da lungo tempo chiusi a bozzolo nei loro usi e non manifestano particolari intenzioni bellicose nei confronti del resto del mondo, pur vivendo su sistemi di governo incompatibili con il nostro modello di civiltà e in quasi perenne stato di conflitto interno.
Bombardando le piantagioni negli anni ‘80 noi esasperiamo la situazione. Spingiamo quelle popolazioni a comportarsi in modo tale da meritare i bombardamenti veri e propri e le invasioni che arriveranno 20 anni dopo ancora.
Noi vinceremo questa guerra, io lo spero con tutto il cuore, ma non posso esimermi dal pensare che ci stiamo muovendo su strategie vecchie di quasi ormai cent’anni, e che nel frattempo potrebbero essere intervenuti fattori in grado di inficiare quelle strategie nelle loro stesse motivazioni, oltre che nelle procedure.
L’imprevedibile sviluppo che l’informatica ha introdotto nella comunicazione e nell’economia rende oggi possibile pensare a un rapporto non conflittuale nella dinamica degli imperi; a suffragio di questa speranza direi che, mentre ancora noi siamo in guerra aperta con certa parte della civiltà araba, abbiamo però in corso protocolli di omologazione con altra parte di quella stessa civiltà.
La guerra è in fondo un conflitto di torti alla ricerca di ragione.
La comunicazione è invece il raggiungimento di tale ragione attraverso il colloquio. Noi dobbiamo oggi combattere perché si diffonda il concetto di “sacralità dei dati”, perché sia la comunicazione e non la “brutalità abile” o la demagogia a governare il melting pot mondiale.
Sacralità dei dati significa ancora verità, condivisione del sapere e progresso, tutti assunti fondanti della nostra civiltà.
E tuttavia le vecchie strategie preinformatiche ancora perpetuano la loro energia latente che si traduce per noi tutti in dolore sangue e distruzioni. Come virare le navi degli imperi, da sempre abituate a raggi di curva con angoli dai 50 anni in su?
Provo profondo rispetto e gratitudine, di fronte a Mr. Bush e ai ragazzi che uccidono e muoiono in battaglia per difendere e propagare il nostro modello di vita e di cultura, ma sento anche profondo dispetto per quella che mi appare come una carenza di fantasia e immaginazione nei nostri metodi.
Se invece di bombardare Afghani e Irakeni con tonnellate di bombe e defolianti, avessimo usato gli aerei e i bilanci di guerra per sommergerli con lanci di caramelle, cioccolata, medicinali, videocassette e foto pornografiche, videoclip musicali e depliant di viaggi, non avremmo ottenuto un miglior effetto, rispetto all’evolversi di quei popoli verso una misura mentale più tollerante e meno feroce?
Questo non era pensabile ai tempi dell’economia del ferro in cui nacque questa tranche della strategia di conquista mediante conflitto, ma oggi lo è, grazie al viraggio verso l’economia del silicio, che potrebbe slegarci dalla guerra come fattore indispensabile nell’economia del ferro...

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