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Delhi Metropolis Hotel

A Copenhagen non è che un correre all’altro aereo su splendidi pianciti di legno lucido, appena il tempo di uno sguardo allo strano lucore esterno (non proprio un sole di mezzanotte: diciamo un pallido chiarore delle 23), ci aspettano e si decolla.

Sono seduto vicino a Marco, che va a Jaipur per sei mesi a rifinire la sua tesi in indi sul rapporto fra religione e sociologia. Dopo essere stata il sogno degli hippy, l’India si candida a lenire le sofferenze di una sinistra mondiale delusa e smarrita. Di poche cose la sinistra ha bisogno come di una nazione madre, un luogo che le faccia superare la paura del non luogo, dell’utopia. Karl Marx aveva previsto la rivoluzione nell’ordine in India, Cina Russia, ma è solo la prima che ancora culla il sogno marxista, probabilmente perchè non avendo mai messo in atto la cosiddetta “rivoluzione proletaria”, non ne ha scoperto la natura di incubo. Non racconto a Marco queste mie riflessioni, sono stanco, non mi piace stare sull’aeroplano e per di più sto molto scomodo; gli offro un chewing gum e stiamo a commentare la velocità dell’aereo e la temperatura esterna man mano che appaiono sullo schermo in fondo alla cabina. Nel frattempo perfeziono la strategia di volo che ho deciso di sperimentare in questo viaggio e che avevo già iniziato sul Venezia Copenhagen: realizzo che volare ubriaco è volare molto più sereno, almeno per quanto mi riguarda. Come spesso mi accade, scopro l’acqua calda: infatti le compagnie lo sanno e non lesinano sugli alcoolici: con un mezzo litro di vino californiano e qualche mignon di liquore riesco persino a dormire per un paio di migliaia di chilometri.

Delhi ha le nuvole di monsone basse sino alla punta dei campanili, vediamo l’aeroporto praticamente quando lo abbiamo sotto le ruote; dopo l’applauso che gli indù tributano ritualmente ai piloti che non si schiantano atterrando, c’è un interminabile rullare del gigante di alluminio verso il terminal, distante a quanto pare decine di chilometri: non ho grande esperienza di aerei, e mi stupisce vederne uno di enorme interagire con il traffico urbano: dall’oblo scorgo colonne di veicoli fermi come a un passaggio a livello per lasciar passare noi.

 

Si entra in India col primo passo sul tunnel di sbarco: la tecnologia aeroportuale cerca di arginare quell’indicibile marasma che preme da fuori, ma questo si insinua, si infiltra osmoticamente, ti si adagia sulle spalle come una calda coperta bagnata, lo annusi nelle sconnessure dei rivestimenti, ti guarda anche un po’ minaccioso dagli occhi del personale di frontiera. Una burocrazia da far impallidire Francesco Giuseppe. Moduli, foglietti, bigliettini: acquistare tre biglietti di treno per Benares è seriamente un affare di stato. I cambiavalute spaccano pacchi di banconote cucite a punto metallico: qui se vuoi spendere non ti serve un borsellino ma una tenaglia.

 

Eppure tutto questo non ha importanza, si scioglie via con il caldo che ti abbraccia stretto appena esci dall’illusione di aria condizionata del terminal. Si stempera nelle ruote lisce del taxi  Fiat 1100 che ti cattura per una gimkana verso l’albergo. Esplode nella fantasmagoria del traffico e delle costruzioni in un pout- pourri di auto e camion sgangherati che sgusciano senza freni fra mucche sacre, risciò a pedali, tricicli di ogni tipo, con individui estaticamente immobili nel bel mezzo del più fantastico caos che mente occidentale possa immaginare. Pensate alla tangenziale di Mestre nell’ora di punta, invecchiate il 98 % dei veicoli di una sessantina d’anni, spruzzateci sopra il traffico pedonale delle mercerie di una Venezia tardo settecentesca, aggiungete animali da tiro di varie specie, dal cammello al bue all’uomo, togliete l’efficienza dei freni al 30 % dei veicoli e una marmitta efficiente a tutti gli altri… beh, questo forse può assomigliargli, se nel bel mezzo dell’incrocio riuscite a vedere anche un paio di piccole mandrie di mucche che ruminano pacifiche sdraiate sull’asfalto.

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Infine l’albergo, che ha bei mobili intagliati antichi e una doccia decente nel bel mezzo di Paargangi, con le sue intricate stradine di botteghe e bancarelle. Due tikki per me e Alessio, più una per Patty che è rimasta in albergo a smaltire il jetlag. Fatico molto a impedire che le polpettine vengano spiaccicate sul pane dalle dita nere del venditore e cosparse di una salsa rossa molto improbabilmente appetibile ai nostri palati, ma alla fine ci riesco. Dormiamo, e a sera piove, io riesco a pluggare il pc e scrivo. Ora smetto e vado a cercarmi da fumare per il lungo viaggio in treno di domani.

17/07/2000 22:49