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Shambalà Hotel, Katmandu, 7

Siamo riusciti a tornarci, dai nostri amici fumatori della montagna. Dopo aver ceduto al pedaggio di Baktaphur e aver velocemente visitato una piccola parte dell’enorme area monumentale. I vasai mulinellano con un bastone una grande e pesante ruota di legno la cui inerzia gli consente di modellare a tornio il tempo sufficiente a formare un vaso piuttosto complesso o un certo numero di piccoli cylum. Hanno mani abili e gesti fluidi. Sono molto rari gli artigiani che sappiano svolgere più di un lavoro. Non escludo che quello che fa cylum sappia fare solo cylum, e quello dei vasi solo i vasi. Me ne sono reso conto con i ragazzi delle perle sbalzate. Quando gli ho proposto di realizzare il disegno della mia collana mi sono accorto che si trovavano in seria difficoltà. Per quanto bravi erano di sbalzo e cesello, non sapevano però realizzare una semplicissima cerniera. Quello che loro si credevano capaci di saldare erano solo i tubi da sbalzare. Il “lavoro mai fatto”, per semplice che fosse, li scoraggiava in partenza. È una sensazione diffusa, che il lavoro sia molto parcellizzato e a compartimenti stagni. Nel tessuto sociale sembra essere il mercante che tesse la costruzione di un oggetto attraverso il collegamento di vari artigiani del tutto ignari l’uno del lavoro dell’altro. Penso che questo potrebbe costituire un fattore decisivo dello scarso sviluppo della loro economia. Deve essere un qualcosa che ha a che vedere con la concezione castale della società.

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Ma quello che mi preme raccontare è del nostro reincontro con gli amici di Kavra, una frazione di Panauti, splendida cittadina a un 50 Km da Katmandu, dopo Baktaphur girando a destra al bivio di Bonipa. Con qualche difficoltà al terzo tentativo imbocchiamo la strada giusta per raggiungere la frazione, a mezzacosta sulla collina. Il tempo è stato buono tutto il giorno, e si sta preparando un tramonto con nubi verticali grandi e sfrangiate. È già piuttosto tardi, ma qualcosa mi ha convinto a tornare qui lo stesso, anche col rischio di un nuovo rientro notturno a Katmandu. La casa è vuota, incontriamo un uomo giovane e molto forbito, che parla inglese piuttosto bene e con un’accento quasi oxfordiano nella sua voce morbida. Ha lavorato nel turismo e iniziato studi di tipo lamaista, anche se non li ha compiuti per andare a lavorare. È molto affabile e ci intrattiene nel cia shop poco lontano fino al ritorno dal tempio del nostro conoscente, che non tarda ad arrivare.

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Ci accoglie ancora nella sua casa, stendendo sulle stuoie una coperta presa dal suo letto. Abbiamo portato dei poveri dolci (non ne abbiamo saputo cercare di migliori) e io gli porto un pezzo dell’hashish che mi è rimasto. Non sembra gradirlo particolarmente, evidentemente preferisce i fiori e le foglie delle sue piante, che si affretta ad ofrirci in un piccolo cylum. Tutti invece sono entusiasti delle fotografie, e mi fanno promettere di inviarne loro una copia dall’Italia. Ci offrono il cia e una piccola mela selvatica, intanto, con il vantaggio stavolta dell’interprete, parliamo della diversità delle religioni e dei costumi fra le nostre culture e, come immaginavo, li scopro ermetici, capaci di vedere la fede oltre la forma in cui si pratica, consapevoli del ricondurre all’Uno. Possiamo così sorridere del fatto che da noi sorbire il te con gusto e rumorosamente sia maleducazione, mentre Alessio scopre che sarebbe tenuto dall’uso nepalese, in quanto cognato e fratello, a baciare i piedi miei e di Patty quasi ogni mattina dopo i lavacri obbligatori…

L’atmosfera è molto calorosa, ma fuori si sta facendo sera. Sono splendidi, ci invitano a passare la notte da loro, ma io devo declinare l’offerta. Ho alcuni buoni motivi ma anche delle remore che mi fanno assaggiare i primi come fossero scuse. I buoni motivi sono che se non telefono a James stasera il nostro affare di magliette probabilmente va in fumo (me ne dispiace ormai più per il ricamatore, che spera nella discreta commissione in un periodo magro, che per le magliette in sé) e che non tornando in albergo da una gita in moto si potrebbero generare inquietudini con ripercussioni in Italia. Le remore sono che ho sentito più volte, nel cia shop e anche in casa, tossi da TBC.  Inoltre continuo a sentirmi ingombrante, nelle loro case e anche un po’ nelle loro vite.

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Non insistono; il padrone di casa, nonno della maggior parte dei bambini delle foto, si offre di accompagnarci a Panauti per comperare un cylum come il suo. Gli dico che è molto tardi, e che scandere a Panauti e risalire per noi significa partire di notte. L’interprete ci assicura che il signore è felicissimo di accompagnarci e di ritornare a piedi. Non riesco a rifiutare oltre e mi riprometto di riaccompagnarlo almeno per un tratto dei circa 7 km.

Carico il nostro ospite sul sellino posteriore e scendiamo per lo sterrato. Sembra quasi che la moto veda da sola le buche, mi trovo a volteggiare da un lato all’altro della strada evitando tutti i sobbalzi. Ho la netta sensazione di guidare su quella strada utilizzando la conoscenza che ne ha l’anziano dietro di me.

A Panauti ci conduce dapprima a un grande tempio tibetano, splendido, costruito in muratura che si intarsia in forme ornamentali con il legno intagliato. Questa città è pulitissima, pavimentata interamente in mattoni e in buone condizioni; ci sono numerosi colatoi per l’acqua piovana disegnati nel mattone, e sono sgombri da detriti e mota. Il tempio sembra davvero come dovrebbe essere, senza imbrattamenti e curato, è avvolto di ordine e serenità. La sua pavimentazione in cotto ha un pattern esagonale di piastrelle a triangolo equilatero perfettamente connesse. Le case, i templi, tutto è di mattoni di colore rosso omogeneo a quello della pavimentazione.

Poi scendiamo a una punta di terra fra due fiumi cosparsa di tempietti, dove un gruppo di uomini siede in una loggia e parla. Ci invitano a sedere, ma il nostro tempo è avaro, devo staccarmi da loro e dal luogo a malincuore, glielo faccio capire, e gli dico che torneremo domani. Il posto è incantevole e incantato, domani cercheremo di passarci almeno il pomeriggio.

Andiamo quindi a comperare il cylum, che paghiamo 2 rupie al posto delle prevedibili 20. Tornati al crocevia mi offro di riaccompagnarlo per un tratto, ma è fermo nel rifiutare. Mi pento di non avergli chiesto il suo mestiere e altro sulla sua abitudine raccontata dall’interprete di recarsi quotidianamente al tempio e rimanervi alcune ore.

Il rientro a Katmandu è ormai di notte, fra nugoli densi di insetti, nessuno dei quali mi entra negli occhi, nonostante sia senza occhiali. Stavolta però riusciamo ad arrivare dritti in albergo, senza smarrirci nella Ring Road o nei sensi unici, così faccio in tempo a farmi una doccia e telefonare. I boys dell’albergo ci aspettano sulla porta e non nascondono il loro sollievo nel vederci tornare sani e salvi. Non sono molti i turisti che se ne vanno in giro per Katmandu in motocicletta, per la verità non ne abbiamo incontrato ancora nemmeno uno. I noleggiatori sembrano fare affari più con le coppiette locali, che infatti infestano le campagne.

Mangio una discreta zuppa di cipolle e adesso sono qui ad ascoltare le rane a 380 volts nello stagno del prato sotto la finestra.

04/08/2000 00:08