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Shambalà Hotel, Katmandu, 8

Il viaggio verso Panauti sembra ogni volta più lungo, e in realtà il tempo di uscita da Katmandu varia a seconda della trappola di sensi unici in cui ci si caccia (non si esige strettamente di rispettarli, a volte non sembrano neppure segnalati, tuttavia fanno del loro meglio per portarti fuori strada, funzione che assolvono efficacemente in quasi tutte le città del globo, come ognuno ben sa).

Sento di non essere ancora riuscito a dare un’idea realistica di che cosa sia il rapporto fra traffico e strade. Nel bel dopo curva di una “highway”, dopo un tratto liscio e asfaltato di recente in cui possiamo spingere le moto per inebriarci dei 65Km/h che i generosi motori Yamaha 125 di fabbricazione indiana concedono, senza alcuna segnalazione la strada si riduce a una stretta carreggiata serpeggiante tra cumuli di terriccio e pietrame, con un fondo da partenza di endurance; in alcune delle buche si rischia di cadere, più che di sobbalzare.

Non sono scese che poche gocce di pioggia, c’è poco fango, ma la polvere, soprattutto la notte, quando torniamo, crea atmosfere di suggestione dantesca. Stelle di luce si muovono e ci vengono incontro forando dense volute, gli occhi si coprono di un velo umido denso, che contribuisce a sfocare la visione e che secerniamo dagli angoli come fango.

Di cantieri simili ce ne sono una decina, sulla strada per Banipa. Sono una buona occasione per superare i camion, che a loro volta possono creare banchi di nebbia nera soffocante sulla scia.

Panauti, la citta rosso mattone, è pulita come ieri sera, ma a quest’ora non è infrequente l’incontro con mucche,  grossi verri e scrofe.

Capisco che la pavimentazione è così in buono stato perchè solo una piccola parte della popolazione è motorizzata.

L’arrivo al tempio non è come me lo aspettavo. Non trovo il nostro conoscente e il ragazzo vestito d’arancione che stava al centro del gruppo di ieri sera dorme avvolto nelle sue vesti fin sopra il capo. C’è un altro circolo di persone, sul lato opposto della loggia, prevalentemente uomini fatti o anziani: quando mi avvicino mi invitano a sedere con loro. Cantano lodi e suonano a turno tabla, armonium e cimbali. A gesti chiedo tempo per cercare qualcuno, e faccio un giro tre le edicole sacre che marcano questa lingua di terra tra due grossi torrenti. Una donna sugli scalini alti di una pagodina dipana una stoffa rossa, molti gruppi di anitre nuotano e camminano intorno. Sulla punta estrema della confluenza, due spazi per pire crematorie incrementano con il loro apporto di cenere la secca che si prolunga fra i due flussi di corrente.

Mi lavo un po’ di polvere al ghat che hanno ricavato tagliando un rapido canale in pietra fra il ramo di destra, più grosso e impetuoso e quello di sinistra, più placido.

Finalmente vado a sedermi nella loggia, mi fanno spazio con sorrisi, mi viene offerto di suonare il tabla. Declino e li osservo, offro di preparare un cylum, che viene accettato con entusiasmo, anzi mi si solleva dall’onere: la sostanza passa nelle mani di un preparatore, e così sarà per il resto del mio tempo qui.

 Da ieri mi interrogo sulla vita nel tempio, e oggi mi offrono occasione di confermare le mie ipotesi. Alcuni, soprattutto gli anziani, vi passano la maggior parte della loro giornata. Conversano, fanno incontri, pregano, cantano le lodi del Signore, suonano, assistono alle cerimonie, mangiano ritualmente e profanamente. Molti altri passano dal tempio per periodi più brevi, scambiano qualche parola, fanno qualche tiro ai cylum che praticamente girano senza sosta. La preparazione è piuttosto laboriosa: purgano l’erba dai semi alla maniera marocchina facendoli rotolare su un foglio inclinato, poi cominciano a macinarla fra il pollice e il palmo, molto a lungo e con forza, finché, con l’aggiunta di qualche goccia d’acqua, ottengono una pallottola che stipano nella pipa. Hanno poi una corta esca aromatica vegetale attorcigliata, che chiusa a cerchio viene accesa e appoggiata sul fornello per l’accensione. Ritrovo gesti che mi sono familiari, che hanno accompagnato buona parte della mia vita. La pezzuola bagnata che avvolge il cannello, l’impugnatura a mani giunte, il bolo di fumo nei polmoni. Ma sono molto curioso di loro, li guardo, cerco di capire il senso del loro stare. Tengo d’occhio i movimenti del sadhu arancione sull’altro lato della loggia: si è svegliato, e gli hanno portato dell’acqua in un’anforetta molto cesellata. Con un lavorio che gli occupa non meno di dieci minuti si prepara una pipa che fumerà da solo, per poi rimanere a lungo assorto guardando giù lungo il fiume. Spesso le sue labbra si muovono in un mormorio che non odo.

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Io invece sono seduto di fronte a un baba, anche se ci metto non poco a capirlo, assieme a una decina di altre persone. È vestito di grigio come la maggior parte degli altri, solo porta al collo numerose collane di semi Rudra, e sta semisdraiato nell’angolo con l’aria di chi non se ne muove mai. Sulle prime mi ispira una certa diffidenza, per quel suo viso così segnato, ma quando colgo i suoi occhi e vedo la sua delusione per non riuscir a comprendere come funzioni la fotocamera digitale e il suo magico piccolo monitor, mi rendo conto di essere di fronte a un uomo di conoscenza. Quando la macchina gli viene passata (gira per tutto il settore della loggia, dopo ogni foto), lui non guarda l’immagine, cerca di vedere dentro la macchina scrutandola da più angolazioni. Vorrei spiegargli della retina di silicio fotosensibile, dirgli che è Ayur Veda anche quella, magia dei cristalli, ma per tutto il nostro breve incontro non ci scambieremo che sguardi, qualche sorriso e il cylum, naturalmente. Se pure non riesce a conoscere sente però che l’oggetto è positivo e non se ne ha a male se talvolta, soprattutto in mano ai bambini,  movimenta l’atmosfera del tempio. Non turba le cerimonie, perché ne diviene parte integrante, con il suo apporto di meraviglia e gioia.

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Nessuno manifesta desiderio di appropriarsi della macchina, nemmeno i bambini più piccoli, sono solo tutti più o meno estasiati di poter guardare, e ingenuamente inorgogliti se nella foto riconoscono se stessi.

Non vedo arrivare il mio amico, e dopo un rapido consiglio con Patrizia e Alessio decido di andare a cercarlo a casa. Lo trovo ed è felice di venire in moto al tempio con me. Incontriamo il giovane vestito di arancione che passeggia, con un volto insieme deciso, mite e schivo.

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 L’inoltrarsi del pomeriggio ha affollato il resto della loggia, ci sono anche donne, e verso le quattro l’altare che si è andato formando al centro con fiori e offerte di cibo viene consegnato a un sacerdote che non avevo visto arrivare, e che comincia una cerimonia di canti, letture e gesti più formali del nostro stare nel tempio fino a quel momento. gli astanti ogni tanto gettano pop corn e polvere colorata sul celebrante e su quello che sembra il suo assistente.

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Quando il sacerdote anziano legge dal libro a fogli sciolti non sembra di udire parole ma una serie di suoni vibranti e modulati. Resto a lungo con la sensazione di ascoltare un handshake fra modem. Ferma i fogli nella leggera brezza con quello che sembra un cristallo di quarzo biterminato. Un uomo passa con il vassoio delle elemosine accompagnate dalla marcatura della fronte, fatta con una pasta grossa e rossa. Poi il celebrante inizia come una lunghissima omelia, intuisco che si tratta di un racconto intonato con parole enfatiche e suggestive. Gli astanti non sembrano tenuti a prestare una particolare attenzione, alternano momenti di meditazione o di unione ai canti a un proseguire discreto e sommesso delle loro attività sociali, a un passeggiare fra le edicole. La cerimonia, e più in genere tutta la musica prodotta nella loggia viene raccolta da un microfono, e diffusa di continuo nelle adiacenze del tempio da un rudimentale impianto d’altoparlanti.

Vedo con la coda dell’occhio un nuovo arrivato passare al baba che mi sta di fronte un involto di giornale dalla balconata di destra. Contiene una polenta gialla e dolce che l’uomo si affretta a suddividere e distribuire: la riceviamo tra le mani accostate e, dopo averlo visto fare agli altri, la mangiamo. È particolarmente buona. Intuisco il senso dell’operazione e chiedo ad Alessio, che è in posizione più agevole per muoversi, di prendere le dieci focaccine che abbiamo portato e passarle al baba. Patty e Alessio inorridiscono: temono di turbare chissà quale ferreo protocollo. Sorrido, e decido di passare il fiume per fotografare una panoramica della zona. Il punto più adatto sarebbe guadare lungo la secca della confluenza, so che nessuno mi direbbe niente, ma camminerei virtualmente sulle ceneri dei loro morti di migliaia di anni. Scorgo un ponte sospeso, poco a monte e decido per l’aggiramento. Vicino al ponte un gruppo di bambini rotola fra le rapide gentili. Anch’io voglio giocare con il fiume, ma non ho costume da bagno né mutande (da qualche anno mi causano un insopportabile prurito alle anche). Alcuni dei bimbi sono nudi, ma non sono sicuro di poter fare altrettanto, così, scattate le foto del tempio, riattraverso il ponte e vado a cercare un costume. Compero un paio di slip e ritorno. I bambini mi accolgono con stupore, ma mi accettano e mi mostrano i posti adatti a immergersi. Il primo tuffo nella corrente mi travolge, fatico un poco a fermarmi a ridosso di un masso, ma al secondo sento il fiume e riesco a seguire dei tracciati di risalita più decorosi. La riga trasversale di grossi sassi che ci fanno da trampolini termina sulla riva opposta in un solitario e folto cespuglio di canapa.

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È un’esperienza breve, quattro o cinque tuffi che ben valgono la rinuncia al rafting e all’idrospeed organizzati che avevano popolato i nostri primitivi piani di soggiorno. Scorgo Patrizia, Alessio e il nostro ospite nell’apertura tra due case sulla sponda opposta, che mi fanno cenni di partenza. I bambini si sono intanto rivestiti, e il sole sta scendendo sotto le case. Li fotografo in gruppo. Poi torno al tempio, Mangiamo una focaccina a testa e passo le rimanenti al baba dalla balconata. Come immaginavo le accetta, e dopo averle sminuzzate le distribuisce. Il rito arcano della polentina gialla altro non era che un dirsi: “vado al tempio e se posso divido qualcosa con gli amici”. Così si fa con lo spirito, la preghiera, il cibo, l’erba.

Nel tempio e probabilmente del tempio vive anche un bimbo muto.

Questa volta riaccompagnamo il nostro ospite fino alla sua frazione. Non riesco a memorizzare il suo nome, va un po’ meglio col cognome, Banjari. Ci invita in casa, ci rinnova l’invito a pernottare da lui, ma stasera c’è l’appuntamento di Sunhil, il venditore di seta amico di Riccardo, con cui domani abbiamo in programma una gita mattiniera.

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Sono quasi le tre, e mi dovrò alzare presto, ma ormai questo rapporto con lo scrivere è diventato qualcosa che mi avvince più della stanchezza. So di non poter dormire prima di aver svuotato la mente dalle frasi che vi sono gorgogliate per tutto il giorno.

Come era indovinabile, Banjari fa il contadino, mi chiede se può venire a lavorare in Italia, gli rispondo che con le sue visite al tempio può viaggiare ben più lontano, lui sorride con complicità. Prima di partire gli regalo il mio binocolo tascabile, con il patto che lui lo faccia provare almeno una volta a tutti i bambini di Khavre. Non sa metterlo a fuoco, e non mi sembra che le mie spiegazioni siano molto efficaci, ma evidentemente gli piace e i bimbi ne sono entusiasti. Anche qui, come al tempio, saluto tutti con la frase: “Non vi dimenticherò” e con gli occhi che mi si gonfiano inopinatamente di lacrime.

Nelle nubi di polvere del ritorno le lacrime tornano fangose, e sogno la sigaretta che fumerò nella quieta bottega di seta, dove Sunhil ci aspetta dietro le imposte socchiuse.

05/08/2000 03:24