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Shambalà Hotel, Katmandu, 9

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Ieri giornata senza storia. Sunhil ci porta a vedere un villaggio originario, “in predicato per essere posto sotto tutela dall’Unesco” a cinque km da Katmandu. Rispetto a Panauti, questo è già morto di occidente. C’è molto colore, a cominciare dai festoni di peperoncino che addobbano le case, e un numero sconsiderato di papere per le vie. Tutte le donne che non lavano alle fontane sono sulla porta a cardare con fusi rudimentali e gesti di automatica abilità. Prendono il bagno in pubblico scoprendo seni dai grossi capezzoli mentre torme di mocciosi corrono le strade. Percepisco un’atmosfera fasulla, e mi annoio anche quando mi portano a vedere l’antico frantoio per l’olio di mustard, che costituiva la principale caratteristica del paese prima che venisse l’attesa della tutela.

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Naturalmente l’avvento di questa attesa ha spazzato via o relegato nella vergogna tutto quanto di “originario” dispiace alle patronesse internazionali. Non vedo vita quotidiana nel tempio, le cerimonie sono ormai relegate a momenti di folklore o all’intimità familiare. In nessun luogo si è colti dalla fragranza della canapa che dovrebbe essere infestante. Spiego a Sunhil queste cose mentre ce ne andiamo, gli dico che stanno cercando di adattarsi a un mondo che è a sua volta già morto e putrefatto, che la via per sollevarsi dalla loro miseria è mettere in discussione la propria visione dell’organizzazione sociale, non obbedire ciecamente ai desideri altrui in cambio di una manciata di rupie. Conviene sull’ipocrisia degli aiuti internazionali, e vedo che il discorso sul nuovo mondo di Internet lo lascia scosso e confuso, ma sento anche che intuitivamente mi ha capito. Del resto anche lui, mercante da generazioni, vuole fuggire dal suo ruolo. Il discorso sull’e-commerce lo lascia insieme atterrito e speranzoso.

D’altro canto qui siamo in pieno feudo delle pseudomassonerie caritatevoli, uno dei lavatoi delle coscienze sporche dell’occidente.

E il loro detersivo avvelena in primis la religiosità e la socialità spontenee, una delle poche cose che qui varrebbe davvero la pena di salvare. Ricorda troppo vivamente la radice del loro errore, non si concede alla superficialità con cui si può accarezzare un visino imbrattato (per lavarsi poi le mani con l’alcool) e magari adottarlo “a distanza”.

 

Vedo anche sempre più chiaro il rapporto fra l’induismo e il lamaismo tibetano-mongolo. Fra il “Porto delle Scimmie” e il “Monte Analogo”, per cogliere un’analogia in Daumal. Ma il lamaismo non pratica il concetto di cultura, bensì la trasmissione ai predestinati. Dopo che Mao gli ha sottratto l’area di influenza cinese, i monaci svelano la loro elite in massa (non male come paradosso) nelle valli dell’altro versante dell’Himalaya.

Il loro muoversi fra la gente, che ho già avuto modo di notare, vale una fotografia sociologica. Non posso dire di essere un esperto di dottrine tibetane, men che meno sociali, ma sono propenso a credere che siano operativamente efficaci al mantenimento dello status quo, affidando ai bodhisattwa ogni incombenza evolutiva.

I mercanti tengono le connessioni delle operazioni produttive. Il concetto di “arte liberale” non sembra essere mai penetrato in questa cultura. Vi si cullano il servilismo e la pigrizia mentale, sotto una religiosità alle eggregori e alla natura che pure è commovente.

Dalla mia finestra un acquazzone improvviso scroscia a zittire le rane elettriche nel prato e nella mia testa.

Non è il genere di discorsi che volevo avere in mente da queste parti.

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Sono tornato al tempio di Panauti, oggi, per respirare ancora quella sensazione di accoglienza nel nome del Signore, quel condividere nel tempio l’offerta e l’amicizia.

Gli unici cibi che mi sento di definire veramente gradevoli, anzi prelibati, fra quelli che ho assaggiato in India e Nepal, provenivano da offerte al tempio. Giustamente dolci e sapientemente speziati, non hanno a che vedere con gli intrugli di sapori forti e accozzati che contraddistinguono la cucina profana. Anche le nostre focaccine stile europeo, quanto di meglio sono riuscito a trovare a Katmandu, morbide e giustamente imburrate, sono state accettate, e poste nei vassoi per la distribuzione. Al nostro arrivo la cerimonia era assai più affollata di quella dell’altroieri, e sembrava anche molto più fervente e gioiosa. La musica e i canti più alti e limpidi, le dita sui tabla più agili ed espressive. All’apposizione del punto rosso in fronte non circola il piatto delle elemosine, e non c’è esitazione stupita in colui che ce l’amministra, ma un sorriso di contentezza. Quando tra l’allegria generale vengono distribuite collane di fiori ce n’è una anche per ciascuno di noi. Sono estasiato dalla loro capacità di bearsi di metafisica e di poesia.

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Non vedo il baba dell’altra sera, e me ne dispiace. Ho dimenticato di lasciare un’offerta nell’unico luogo in cui non mi è stata chiesta e questo pensiero mi arrovella da due giorni. Eppure avevo visto la sua ciotola di rame delle rupie, passargli tra le mani qualche volta.

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Mentre fotografo un giovane che si esibisce in una danza, il bambino muto dalla faccia tonda mi chiama, le sue dita piccole e dure grattano il mio braccio con insistenza. Da qualche dieci minuti è lui che cura la regia delle mie foto. Ieri Patrizia deve avergliele date corte, è sfavorevolmente impressionata  da alcune sue insistenze e dalla sua molto dubbia igiene personale. Con me invece scatta una comprensione immediata. Ci sentiamo, me ne accorgo io e, assai prima, se ne è accorto lui. È lui a strattonare gli anziani che vogliono una foto perché escano dal controluce, dopo che inutilmente io glielo ho chiesto a gesti.

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Mi chiama, e mi porta in una stanzetta del tempio, sul lato opposto della loggia. Il baba che cercavo è lì, con un altro baba dal cappello a cono che suona il monocordo.

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Sono così contento di rivederlo, quanto lo sarei con un vecchio amico. Mi accoglie senza parole e mi fa sedere vicino con un sorriso. Appariamo spaventosamente diversi, eppure sento che abbiamo la stessa consapevolezza del mondo. A punto tale che non ci serve parlare. Godo della sua semplice compagnia come della migliore conversazione, e so che lui fa altrettanto. Vorrei togliergli quella curiosità sul funzionamento della fotocamera digitale. Spiego l’applicazione della dinamica dei cristalli in chiave AyurVeda a qualcuno che parla un po’ di inglese perché gliela traduca. La persona invece non capisce e non traduce affatto, ma vedo il viso del baba distendersi in un sorriso soddisfatto.

L’ampia scollatura di Patrizia deve valere le tentazioni di Sant’Antonio, per i due santuomini nello stambugio. Uno alla volta, prima Alessio e poi Patty, il bambino muto li ha introdotti entrambi. Vedo gli occhi degli asceti e, via via che le sono vicini, anche quelli degli altri uomini con noi nella stanzetta, polarizzarsi verso quella pelle bianca, e poi venire consapevolmente distratti, ma sono segni quasi impercettibili, più di stupore incredulo e incantato che di desiderio o condanna. Una distrazione inopportuna, comunque, e uno dei baba gira due volte sul collo la lunga collana di fiori a Patrizia, che lo prende per un vezzo di moda.

 

Ancora il bambino muto mi fa battere le mani al suono flebile del monocordo, e vuole che le batta forte, con lo schiocco, liberando energia come mi ha sentito fare poco prima nel loggiato al suono dei tabla e dell’armonium. Quando faccio la cosa giusta smette di “importunarmi” e si siede composto col suo sorriso da monna Lisa. È l’unico fra tutti quelli incontrati nel tempio a capire che abbiamo degli imbarazzi di ignoranza e fa qualcosa per mostrarci i comportamenti consueti. Gli altri ci accettano, così, come un evento naturale inspiegabile non nocivo e anzi vagamente benefico.

Voglio lasciare un’offerta al baba, sono quasi venuto qui per questo. So che non ha bisogno di nulla, è amato e nutrito dalla comunione dei fedeli, ma voglio regalargli la soddisfazione di una golosità. So che tutti gli asceti veri ne conservano alcune, sono i loro animaletti di compagnia, una volta domate come esigenze, possono essere fonte di piccole innocenti gioie. Una buona sigaretta, della charas invece della ganja, donare un dolce a un bambino, non so con esattezza e non mi importa. La ciotola delle rupie però non si vede. La cerco con lo sguardo nella piccola stanza affollata. È in cima a un armadietto, sempre che sia quella, in posizione per me irraggiungibile senza far uscire qualcuno. Sono imbarazzato e cerco aiuto dal quasi-parlante-inglese. Fa un po’ l’impermalosito e mi dice che al baba non manca niente, che io non devo disturbarmi. Il bambino muto dalla faccia tonda invece è raggiante. Io non ho ancora tirato fuori nessuna banconota, e nemmeno il borsellino, eppure lui è tutto sorridente che mi guarda annuendo vistosamente e indicandomi il baba con il movimento delle mani giunte. Quando estraggo la banconota da 500 rupie e la metto frettolosamente nelle mani del baba fa capolino il sorriso da monna Lisa. Poi mi fa cenno che anche lui vuole qualcosa. Gli diamo dieci rupie, lui le prende in mano senza dargli importanza, quasi nemmeno le guarda, non chiede altro. Solo dopo, accompagnandoci verso le moto, mi chiederà di dare altri soldi a una bambina che incontriamo. Sotto il timore di vedermi assediato da tutti i bimbi del quartiere, come mi è già successo, faccio segno di no con la testa. Non c’e neanche accenno di insistenza e la bambina si allontana. Pensare che per loro il nostro diniego col capo significa sì, o almeno forse…

 

Abbiamo poco tempo, come in tutto questo assurdo viaggio, poco tempo per osservare, capire, condividere, poco tempo per assaporare la compagnia di queste dolci persone. Le dita del bambino muto lo sanno, sono ancora loro a ricordarmi la strada polverosa per Katmandu e la notte che arriva. Non sono 50 Km ma forse 35, ho scoperto, eppure ci vogliono quasi due ore se non ci si perde. Mi porta fuori dalla stanzetta del baba e mi guida a salutare i pochi anziani che sono rimasti nella loggia. Ci scambiamo i namasté e una intensa corrente di simpatia. Attraversiamo il paese, stavolta le moto le abbiamo lasciate fuori, sulla “highway”. Mi vergogno di essere passato con le scarpe chiodate sul cotto di Panauti per ben due volte. Un forte vociare di uccelli mi fa scorgere uno stormo di grossi volatili bianchi che si posa su alcuni alberi dall’altro lato del fiume.

Per gran parte della strada siamo preceduti da una pioggerellina che seda la polvere in un limo sottile. È pericoloso come guidare sul cioccolato fuso, ma la prudenza costa poco, mentre alla polvere non si può opporre riparo.

Arrivo a Cheetrapathi (non giurerei sulle ortografie toponomastiche di questo racconto, sia chiaro) che ho ancora in fronte la vistosissima “tikka” rossa e la collana di fiori al collo. Il droghiere da cui compero delle sigarette mi chiede se sono appena arrivato a Katmandu. Gli chiedo a mia volta perché me lo chiede, e lui accenna a tikka e collana. Pensa che sia stato vittima dei numerosi dispensatori di benedizioni a pagamento che punteggiano Thamel e Durbhar Maarg. Gli dico solo: “Puja, Panauti” e lo vedo contrirsi come uno che, dopo aver rumorosamente scoreggiato credendosi  inascoltato, scopra dietro di sè una timida fanciulla bionda che lo guarda esterefatta.

Salgo in camera con un lassi e del caffé, che correggo con wisky nepalese e sorseggio mentre scrivo; anch’io ho le mie piccole golosità.

07/08/2000 01:37