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Delhi Metropolis Hotel

 

È una conclusione senz’altro affrettata, quella che abbozzo nella stanza 111 dell’hotel Metropolis di Delhi, a Paharganji Main Bazaar, su un quaderno di scuola rurale nepalese. Ne ho comperati otto, cercando quelli che non fossero rosi dai topi, in una drogheria di paese. Patrizia sta copiando al laptop le sue lunghe e spesso intense note di viaggio, Alessio scrive su un suo quadernetto nero (che si presenta in assai migliore stato del suo passaporto). Da alcuni giorni il mio scrivere è limitato a pochi appunti a matita su fogli volanti. Sono tentato adesso da una narrazione cronologicamente inversa, per concludere il mio lavoro diciamo così, al suo interno, un po’ come si fa l’orlo a un tessuto.

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Prima però è necessaria una sutura: l’incontro con Edwin si conclude nella cena in un ristorante nepalese e con l’acquazzone che ci coglie all’uscita. Ci separiamo lasciandolo nel taxi che lo porta in albergo. Il giorno dopo è l’ultimo a KTM, troppo denso di impegni per lasciarmi tempo ed energia per scrivere.

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Poi c’è il viaggio via terra che ci porta a Delhi in questa stanza, dove cerco di riannodare il filo.

Mi sono svegliato nell’alba degli stagni di ninfee e trampolieri a nord di Delhi, dopo che la sera ci aveva addormentato in un bagno di lucciole. Gli alberi ne baluginavano in tutto il corpo, esse sfrecciavano come faville nella scia del treno. Al suo interno una torma di anneriti, traboccante dalla 3a  classe fin sui predellini e sul tetto dei vagoni.

Partiti alle 15:15 da Gorakpur, impiegheremo 19 ore per i 7/800 Km fino a Delhi.

Ho scritto poco in questi giorni di trasferimento, e ho scattato parecchie foto. Speravo nel lungo tempo sul treno per riordinare i ricordi e gli appunti, ma la situazione non lo consentiva.

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A Gorakpur da Sanauli una corsa in camionetta Mahindra, ma da KTM a Pokhra e da qui a Sunauli, frontiera indo-nepalese, il viaggio vale la pena di un piccolo racconto.

Partiamo la mattina tardi, forse alle 11:30, la frenesia di cose da ultimare non si era esaurita nel giorno precedente. L’auto è una Nissan Mazda di rispettabile età e dal cofano imponente. L’autista, rasato a zero per il recente lutto paterno, è sveglio e parla inglese. Ha in macchina un paio di opuscoli scritti in nepalese, che mi hanno un che di familiare. Dapprima penso a giornali porno, poi la memoria mi va a fuoco molto nel passato e le classifico: sono stampa filocinese. Ci scommetterei e vinco, perché, quando il giorno dopo ne sfoglio una, tra i caratteri incomprensibili vedo campeggiare le foto in bianco e nero del presidente Mao Tse Tung in atteggiamento benedicente. Mi sembra di tornare bambino, e racconto della mia adolescenziale passione maoista al guidatore. Mi guarda leggermente divertito e chiede se mi dura ancora. Nego, e mi dilungo sul dichiarare terrorismo e rivoluzioni come atti criminali mai efficenti al popolo, mero effetto di strategie oligarchiche contrapposte. Avevo già avuto occasione il giorno precedente di affrontare il tema sociale e gli effetti che Internet si spera produrrà. Chandra, si chiama così il driver, si era limitato a informarmi, in merito ai disordini di KTM, che esistevano gruppi che “facevano brutte cose”, come sparare e mettere bombe. Ma lo aveva fatto in modo anodino, come mi avrebbe parlato di una frana su una strada che non interessasse il nostro itinerario.

Io invece ho passato giorni a girare in moto tra gli artigiani dei villaggi come un propagandista anni 50, incitandoli a unirsi per aprire negozi virtuali, cercando di fargli capire che la via per il loro affrancamento dalla miseria e dalla schiavitù sotto i mercanti passava per l’e-commerce. Ho trovato molta sensibilità per il problema, in un caso sono stato addirittura portato a parlare del fatto con il preside della locale scuola cooperativa, che sta per l’appunto cercando di creare un nodo di rete nella scuola stessa.

La strada KTM-Pokhra, pur meno vertiginosa, è precaria e dissestata come quella Uttarcashi-Gangotri. Centinaia di frane in perenne movimento si danno il turno per bloccarla o troncarla. Uomini seminudi e potenti bulldozer fanno la spola tra file di truck e bus per riaprire tratturi su cui smaltirle. Si passa poi sui malsicuri ponti di fango sopra canaloni di scarico o sotto l’incombere di montagne di terriccio umido e breccia. A volte un camion è troppo carico per affrontare la pendenza, allora il traffico si blocca nei due sensi finché il mezzo, a suon di rincorse, supera il tratto bordeggiando da un lato all’altro della strada.

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Il cielo del Nepal ci regala due splendide giornate senza pioggia, con nubi spettacolari e fratture di azzurro e di sole. Ogni tanto un’aquila volteggia bassa sopra la nostra auto. Dopo i dintorni di KTM, il paesaggio è montagne verdi, e fiumi, torrenti, fontane e cascate. Quasi a ogni occasione orografica, piccoli villaggi raccolti attorno ai cia shop. Ci sono farfalle e fiori sgargianti, persino un arcobaleno fa ponte fra due montagne.

Le chiamo montagne con il mio metro di europeo, che in realtà in Himalaya non sono neppure colline, ma quell’eccezionale varietà di doline scoscese che un regime di piogge intense può intagliare nell’immensa morena scistosa spinta chissà quando dai ghiacciai sulla pianura. Una formazione analoga al nostro Alpago, con la differenza che i valloni interni hanno le proporzioni che da noi hanno le grandi valli alpine.

La bassa velocità cui procediamo lascia il tempo di cogliere frammenti di vita quotidiana. Vorrei memorizzare con gli occhi quei cento piccoli particolari che dichiarano un paesaggio nel suo divenire interiore: lo stretto sentiero che attraversa il canalone di frana senz’altro sostegno che un muro a secco rampante, anzi aggrappato; il balenare di un volto assorto nella cornice di una finestra disegnata per esaltarlo; in un varco tra i rami, sul tronco attraverso un ruscello, i colori di bambini aggrappolati; il pervinca e l’arancio nello schiudersi dell’ala di un uccello grigio; gli sguardi, soprattutto, lucenti, profondi eppure aperti, curiosi ed eccitati al passaggio dell’automobile con gli stranieri; e mucche e bufali, dolcissimi, imperturbabili, balzani o giochevoli. I corvi sono presenza costante, con dei saltapicchi rossastri e talvolta alberi di avvoltoi dal lungo collo ripiegato tra le ali.

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Al santuario di Manakamana ci attende la sorpresa di una ovovia stile cortinese, di fabbricazione svizzera, che con un’unica tratta arditissima supera tre valli e ci deposita nel villaggio attorno a un tempio votivo di Kali molto amato dai Nepalesi. La vista di lassù e dalla teleferica è grandiosa, ma le lontane grandi divinità rocciose restano ammantate nelle loro nubi di monsone. Compero due minuscoli falcetti su una bancarella, anche se ho la sgradevole sensazione che siano strumenti per i sacrifici di sangue tributati ritualmente alla dea nera.

Pokhra ha l’atmosfera di un luogo di villeggiatura fuori stagione, ci sono buone pasticcerie con dolci di tipo europeo e tutto costa tre volte più caro che a KTM.

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Ci facciamo anche turlupinare da un mellifluo albergatore che ci convince della necessità di prenotare il treno Gorakpur Delhi, per non correre il rischio di dover aspettare giorni in quella stazione. Il nostro tempo stringe, e cadiamo nel tranello.

Giunti a Gorakpur scopriamo di avergli pagato 1200 rupie un biglietto che ne costava 240. A uso dei viaggiatori, riporto il nome dell’albergo, con il cui proprietario ho seria intenzione di tornar a fare i conti, prima o poi:

Gauri Shankar Guest House, Lakeside, Baidam-6, Pokhara, Nepal.

Non andateci, o se ci andate non pagate il conto e sputategli in un occhio come anticipo da parte mia. Simile gentaglia corrotta dall’avidità rovina l’immagine di un popolo invece onesto fino allo scrupolo,  ospitale anche nella più evidente povertà e capace ancora del romanticismo ingenuo del “due cuori e una capanna”, pur se con l’aggiunta di una mezza carovana di pargoli.

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Partiti da Pokhara, durante la sosta a un ristorante, scendo al fiume con alcuni bambini che pascolano un giovane bufalo. Facciamo un bagno tutti assieme, il bufalo mi si è affezionato dopo che gli ho dato due caramelle. Entra in acqua con noi, e sta a guardarci da una pozza tranquilla mentre caprioliamo tra le basse rapide di acqua tiepida. È mite e socievole, mi accarezza con il grande naso umido e mi dice che lì il fiume è buono, non ci sono pericoli, che se un bambino venisse afferrato da un vortice troppo forte sarebbe lui a opporre all’acqua la forza delle sue quattro gambe di perfetto nuotatore per riportarlo a riva…

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Poi siamo ancora tra le montagne a zigzagare, facciamo il bagno ancora nel ribollire di una cascata con tre allegri ragazzi nepalesi. Il guidatore è gentile e ci aspetta, anche se questo vorrà dire guidare di notte per l’ultimo tratto verso Sunauli. Dopo il conto del ristorante in cui ci ha portato e il prezzo del biglietto pagato nell’albergo di sua fiducia, però, non riesco a non sospettarlo di complicità, e me ne dispiace molto, sembra un ragazzo a modo, ma evidentemente le mie attenzioni nei suoi confronti non hanno fatto breccia nella sua prassi di raggirare i turisti. Ciononostante nell’afa di Sunauli lo invitiamo a dormire con noi nell’unica camera dotata di aria condizionata del paese. Accetta e beve birra con noi a cena. La verifica della truffa sui biglietti che faremo a Gorakpur, 100 km dopo averlo lasciato lo inchioda, ha troppo insistito sull’opportunità di quella prenotazione. Eppure mi piace pensare che lo faccia non per avidità, che con quei soldi sovvenzioni magari i suoi amici maoisti. Il suo sguardo era troppo limpido e la sua cortesia sincera, il suo segnarsi al passaggio di ogni fiume troppo ispirato e pio per albergare in un cuore corrotto. Una mente esasperata e indottrinata certo può produrre danni maggiori della semplice avidità personale, ma in qualche misura mi è meno disgustosa.

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Solo i due giorni senza pioggia ci consentono di varcare due guadi lungo la strada per la frontiera di Sunauli. Ci sono i ponti in costruzione, e parecchi edifici e uffici campano sul progetto, si direbbe da molti anni… Sui guadi in sé, invece, campa una tribù di “spingitori”, che può traghettare anche l’auto meno adatta, sigillando se occorre carburatore e bobina con involti di nailon.

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Lasciato Chandra alla frontiera resta da raccontare della scenata che faccio a Mr. Gupta di Gorakpur (terzo e ultimo anello nella catena di agenti di viaggio che ci ha promesso la prenotazione di un treno indiano dal Nepal), dopo aver verificato il prezzo allo sportello ferroviario. Non gliele mando a dire, sono esplicito e poco forbito. Nel mio rudimentale inglese gli faccio però ben capire che lo valuto un imbroglione, che oltre a sporgere denuncia alla polizia scriverò di loro nel mio reportage di viaggio e mi concederò anche un pezzo da inviare alla Lonely Planet. Gli dico con tono piuttosto alterato che farò del mio meglio per far saltare la loro comarella, informando in Nepal i conoscenti influenti con cui ho avuto rapporti d’affari. Tutte cose che sto facendo, e farò, denuncia legale a parte. La mia reazione, suffragata certo dal fatto che giro con un computer portatile e che indubbiamente scrivo molto, fa ingolfare Mr. Gupta in una mezz’ora di telefonate, da cui riemerge rasserenato e rasserenante. Nel frattempo un suo collaboratore ci illustra ampiamente come Gupta sia un bravissimo uomo, noto per aver più volte aiutato turisti in difficoltà. Si scopre che la truffa è stata perpetrata dal solo albergatore di Pokhara, mentre il mediatore di Sunauli e il presente Mr. Gupta sono completamente innocenti, essendosi trovati a dover convertire un biglietto da 240 rupie in uno da 1100. Anzi, Gupta rivela che ci ha trovato i posti sul treno del primo pomeriggio anziché della sera, che porta una carrozza di seconda classe a tre letti con aria condizionata, meno costosa di quella a due che risultava disponibile in precedenza. Ci restituisce pertanto  400 rupie a testa. Disgraziatamente per lui, non ho tempo ne voglia di verificare la consistenza dal punto di vista ferroviario delle sue spiegazioni, così mi resta e trasmetto il dubbio sulla loro veridicità.

Infine il lungo viaggio in treno, noioso e interminabile anche se dormo quasi nove ore filate. Faccio foto ferroviarie per il mio amico Bruno che è appassionato di treni.

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173SleepersPatty.jpg (28012 bytes) Questa foto e' di Patrizia

Andiamo così piano da aver tempo per fugaci saluti a voce con i passanti, per scambiare un gesto, per fotografare. La linea ferroviaria è popolata senza quasi soluzione di continuità: studenti in fila indiana, pastori dei più svariati animali, casellanti con turbante e bandierine, passaggi a livello, contadini e camminatori fanno di continuo ala al passaggio, anche se ci dedicano meno attenzione di coloro colti in atto di espletare i loro bisogni corporali, che anche qui non mancano.

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Ci sono le lucciole magiche a sbarluccicare sugli alberi, i pavoni, gli aironi e le ninfee, ma anche le dense nubi di fumo nero che la motrice ci vomita addosso a ogni rallentare, la sporcizia del treno cui fa riscontro lo sporcare dei passeggeri: a ogni passaggio del venditore di chai c’è un gran volare di bicchieri di plastica vuoti dai finestrini. Il treno si ferma spesso e a lungo, la gente scende sulla massicciata e il sentore di urina si fa pesante. Fra i sassi scorgo un’inquietante frequenza di escrementi umani che liquefano sotto il sole umido. Vicino a Delhi gli stagni si fanno neri di putredine, la dignitosa povertà delle campagne himalayane e subhimalayane si muta in degrado, il fango diviene lerciume, non le ninfee ma solo muffe e alghe giallo verdi riescono ad attecchire. Nell’alba sul treno abbiamo tutti facce stravolte.

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14/08/2000 22:53

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Avrei chiuso qui la storia di questo viaggio, forse domattina potrò fare l’upload delle ultime parti, e in aereo conto di inserire le molte foto che mancano. Invece uscendo a cena incontriamo un bambino cui avevo dato dieci rupie per scollarlo dal finestrino del taxi alla nostra partenza dal Metropolis quasi un mese fa. Ci riconosce e si fa invitare a cena. Il ragazzo (potrà avere nove anni, anche se ne dichiara 14) vale una rassegna sul neorealismo italiano, e ha una forza magnetica negli occhi decisamente impressionante. Quando voglio rimproverarlo con lo sguardo perché cerca di scacciare due suoi compagni che vorrebbero unirsi alla compagnia, oppone una resistenza che mi strema, non distoglie lo sguardo un attimo dai miei occhi corrucciati, vedo un velo di diamante stendersi sulle sue pupille e realizzo che non lo indurrò mai ad abbassare i suoi occhi. Allora gli parlo, e dopo poco è lui a chiedermi qualcosa da mangiare anche per i suoi amici. Ha una prontezza di intelligenza che gli fa imparare subito l’uso della fotocamera digitale, scatta anche una foto di me e Alessio che gli sediamo di fronte. Ci intrattiene con smorfie e ammiccamenti, alcuni dei quali piuttosto equivoci, forse ci ha preso per turisti sessuali.

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Poi interviene un uomo mediamente ubriaco, che comincia a esaminare il bambino con i gesti sicuri della professione medica: gli tasta il polso e ripetutamente la gola, che sembra un po’ gonfia attorno al pomo d’adamo, gli esamina gli occhi ribaltandone le palpebre e comincia a parlarmi del fatto che in India ci sono molte organizzazioni per aiutare i ragazzi di strada come il nostro amico e che lui lavora per una di queste. A noi tre ricorda immediatamente Marziano, quel suo modo un po’ brusco di visitare il paziente con modi sicuri e a tratti arroganti. Gli dico che tuttavia il ragazzo non sembra affatto contento della sua presenza, e lui ribatte che si tratta solo di un giovane teppista, alla ricerca di droga e vita facile. Mi spiega che i bambini di Paarganji Bazar si drogano fiutando benzina rubata alle motociclette, e io faccio notare che non mi sembra il caso di sottilizzare sulle droghe visto che lui stesso, il missionario salvatore di bambini, è visibilmente ubriaco. Come quasi tutti gli ubriachi ha la tendenza a non ascoltare, insiste nell’invitarci a visitare la sua missione, incurante del fatto che partiamo domani e con continui e imperativi: ”Listen to me”. A un certo punto mi inquieto, e gli rifilo una lavata di capo che lo rende più ragionevole e gli fa in parte passare la sbronza. Proprio quando cominciamo a poter comunicare, il suo fratello maggiore, che è il padrone del ristorante, lo fa allontanare con una scusa, mi ha sentito alzare la voce e teme che ci sentiamo disturbati nel suo locale. A nulla vale il mio tentativo di spiegare che il discorso si faceva interessante e che come europeo ho dimestichezza a trattare gli ubriachi, il fratello missionario segue il ristoratore su per una scala per non ricomparire. Mi è sembrato che capisse, quando con collera gli ho detto che il suo lavoro alla missione non valeva un acca, se i bambini avevano paura o disgusto ad andarci, e che la soluzione non era dargli cibo e protezione, ma approntare vie che dessero loro il senso di una dignità del vivere nel lavoro, che il problema andava affrontato mondialmente dal punto di vista culturale, e non assistenziale, che è ora di finirla col tamponare le falle a valle, che i problemi si risolvono davvero solo lavorando a monte. Ho visto schiarirsi il suo sguardo, sotto questa mia sfuriata, la sua posizione seduta farsi più composta e le sue orecchie aprirsi. Ma è venuto il fratello, timoroso per la quiete dei suoi clienti, e lo ha cacciato in soffitta a smaltire quel poco di sbornia che gli restava.

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15/08/2000 01:58