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Shambalà Hotel, Katmandu, 2

Ieri invece non ho scritto, dovevo sbrigare non poca posta, sistemare i disegni per le magliette che sto facendo ricamare e mettere on line un po’ di questo materiale.

Cerco di rimediare oggi, anche se la mia vena è debole e tutte le occasioni letterarie che ho sentito affiorare alla mente in questi due giorni sembrano svanite come le bolle di sapone che Alessio si è portato dall’Italia.

 

Da Benares partiamo con un’Ambassador che, ufficialmente, ci è stata prestata dal professor Willson docente di Storia all’Università di Varanasi. In realtà costa 7000 rupie per tre giorni di noleggio in nero. Ci resta anche un po’ il dubbio che l’autista sia il professore stesso. Certo è che l’automezzo proviene dal museo dell’automobile, dove giaceva in attesa di radicali restauri. Ha un qualcosa che fa pensare a un vecchissimo elefante saggio. L’autista la cura amorevolmente, circa ogni cento chilometri in pianura e ogni venti in montagna, apre il cofano, annaffia abbondantemente il radiatore e lo rabbocca. I pneumatici, ridotti alla tela, sono stati sommariamente ricoperti con il battistrada di qualche altra ruota, e ricordano vagamente le ciabatte friulane. Quando me ne accorgo e infilo il dito fra i due strati di gomma, l’autista si affretta ad esclamare “That’s not a problem!” con un tono così perentorio da togliermi la voglia di investigare su quali invece possano essere i veri problemi. Comunque “Her Venerability Professor Willson’s Ambassador Car”, come mi viene spontaneo di chiamarla, ha un vecchio cuore generoso e ci porterà fino a Katmandu alla rispettabile media di 30 Km/h con punte che sfiorano i 60. Il viaggio è costellato di fermate nei chai shop, passiamo il primo giorno in attesa di veder spuntare l’Himalaya all’orizzonte, ma si arriva a sera e siamo ancora in pianura; dormiamo a Sanauli, sulla frontiera India Nepal.

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Riempiti i moduli indiani (l’autista se ne esenta e ottiene l’espatrio per Her Venerability con una piccola mancia passata sottomano) ci godiamo un po’ di burocrazia nepalese per visto e registrazione del laptop sul passaporto.

Dopo circa un’altra ora finalmente incontriamo le montagne, sotto forma di ripide colline verdi.

Prima fermata in un chai shop nepalese che a differenza di quelli indiani offre anche qualche varieta di cibo. Nettamente piu appetibile di quello indiano, comincio a pensare che questo non sarà un viaggio di digiuno: ottime le patate, soprattutto fritte, poi zuppe stile cinese e verdure come le nostre cotte e crude. Soprattutto la sensazione è di maggiore pulizia. 

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La strada è in condizioni indiane : camion e autobus riversi nel profondo fosso parastradale o rovesciati in mezzo alla strada sono uno spettacolo che si ripete con una frequenza significativa dello stato dei loro freni e delle abitudini dei guidatori. 

Il codice della strada, sia qui che in India, prevede la circolazione a sinistra, ma sembra porsi più come consiglio che come obbligo, anche perchè spesso la sinistra della strada non c’è affatto, rosicchiata da smottamenti o presa in concessione esclusiva da un qualche gruppo di grossi animali del tutto indifferenti al clackson e al pericolo. Ora che da qualche giorno giro in motocicletta per le viuzze di Katmandu comincio a capire che la regola prima di circolazione si riassume in: “Se c’è un pertugio libero mi ci ficco, prima che lo faccia qualcun altro”. Regola indistintamente seguita dai camion come dai tricicli Ape o a pedali, da auto, moto, cani, capre e umani. I bovini invece tendono a stare installati nel luogo in cui si trovano, poco importa se sono nel mezzo del più trafficato incrocio della Ring Road.

Il movimento è fatto di sterzate in extremis, brusche accelerazioni e frenate: prima e seconda, freno e frizione, prima e seconda, freno, buca, buca con acqua, fango alto. Sempre e comunque, clackson.

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Le strade sono talmente malridotte, anche nel centro di Katmandu, da ricordare una pista da endurance. Giungo persino a pensare che facciano apposta a tenerle così. In effetti, sono le buche a regolare il traffico, molto più efficaci dei rallentatori (ci sono anche quelli, soprattutto nei villaggi, veri e propri gradini da superare in prima da fermi). Le buche e il clackson: qui un mezzo può mancare di tutto, freni, carrozzeria, battistrada, paraurti sono accessori di lusso, ma anche l’ultimo dei risciò a pedali dispone di una tromba da autocorriera o di un lancinante cicalino. Si suona per segnalare che si è in coda, che si accelera, che si rallenta, che si sorpassa, che si sta arrivando, che si sta partendo; si suona, sempre e comunque, per avvisare il mondo della propria presenza, più che per chiedere strada.

 Una menzione a parte meritano le pozzanghere stradali, di cui non si accusa certo la mancanza. Mi è capitato di osservarne alcune, la cui tipologia e misura induceva a valutarne la profondità non maggiore di una decina di centimetri, che si sono rivelate in grado di ospitare comodamente il semicupio rinfrescante di un intero bufalo.

I nepalesi sono stati per me una sorpresa. Hanno spesso bei lineamenti, sguardi limpidi svegli e simpatici, il tratto spontaneo e un po’ scanzonato. Non vedo nei loro occhi quella profondità insondabile e spesso torbida degli indiani. Le loro donne sono socievoli, facili al sorriso e fumano sigarette in pubblico con grande passione.

Sovente appena fuori dai villaggi la sera si vedono coppie di amici in conversazione seduti sui paracarri, e mi coglie il desiderio di sapere di cosa stiano parlando, con quell’espressione seria e assorta.

 

Ieri siamo andati fuori città al tempio di DashinKali, luogo dei sacrifici cruenti alla Dea. Fortunatamente tutto quello che ho visto di queste pratiche di macellazione rituale sono state solo le magre zampe di un capretto che spuntavano dalla borsa di un devoto di ritorno dalla cerimonia. Nonostante le premesse il luogo spirava una certa qual serenità, una valletta permeata d’acqua tutta costellata di templi, tempietti e lingam, con sculture in pietra alcune delle quali di ottima fattura. Lungo la strada, assai più interessante, un altro complesso di templi probabilmente lamaisti e dall’aria molto antica, con ampie vasche d’acqua raccordate fra loro e sculture e steli semisommerse.

 

Mi par di notare in Himalaya la presenza di due livelli religiosi distinti. Da un lato la folla induista, con teofanie al cui confronto il nostro rococò e uno stile sobrio, con una continua mescolanza di sacro e profano, di preghiere e offerte di cibo ai simulacri: grande esteriorizzazione, inchini, gesti plateali, offerte scampanii e giaculatorie. Dall’altro, la presenza silenziosa di templi estremamente austeri, spesso semiabbandonati o a volte inglobati in quelli indù. Quasi allo stesso modo fra la folla eterogenea e quasi scimmiesca delle città scivolano distinti nelle loro uniformi rosso gialle i monaci lamaisti, con passo atletico e piglio decisamente intellettuale.

 

Oggi a Swaiambur, il tempio delle scimmie. Non sono numerose come nel tempio loro dedicato a Jaipur, ma sempre diffidenti e aggressive. Caramelle e qualche chapati non sono bastati a renderle più socievoli. Nel tempio fervevano grandi attività di pulizia: centinaia di devoti, soprattutto donne, tutti intenti a raschiare le lucerne votive, lucidare gli ottoni, smacchiare il bosco circostante. Il tempio, come sempre da queste parti, è in realtà un complesso di costruzioni singole attorno a un grande Stupa centrale, più una miriade di piccoli altari, pietre incise o scolpite, dorghe, lingam, mandala, che copre un’intera collina con un lunghissimo muro alla base a recingere il tutto. A parte l’edificante spettacolo di tanta gente intenta a lavorare assieme per il decoro dello spazio sacro, il luogo è infestato (come quasi tutti gli altri templi che ho visto) di negozi di paccottiglia votiva e devozionale, souvenir e artigianato locale.

27/07/2000 02:45

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