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Shambalà Hotel, Katmandu, 3

Oggi c’è davvero qualcosa da raccontare. Finalmente ci siamo scostati dalla Lonely Planet di Patty per tentare un’escursione “a naso” nella campagna. Tutto parte con il nostro rifiuto di pagare il biglietto per entrare a Bakhtapur. A quel punto mi stufo davvero di frequentare gli itinerari proposti dalla guida con la loro ressa di bancarelle e intromettitori petulanti. Montiamo sulle moto e ce ne andiamo radialmente dalla città. Dopo una ventina di km giro a sinistra a un incrocio. Attraversiamo un paesotto e ci fermiamo per un chai e qualche dolcetto a un crocevia sul limite esterno dell’abitato. Hanno anche del castagnaccio. Poi riattraversiamo il paese e dall’altro lato troviamo la zona del tempio. Qui il luogo conserva una buona atmosfera, anche se spira un senso di abbandono. Sotto l’orpelleria Hindu si intuisce come costruttrice una civiltà austera, ordinata e informata a un simbolismo rigorosamente elementare. Quella stessa che ha tracciato le strade su queste montagne, che, anche se disastrate, non cessano di essere in qualche modo percorribili. Non ci sono bancarelle ne battitori, pochissimi veicoli a motore. La gente ci guarda con curiosità distaccata. Da una porticina posteriore del tempio scorgo una grande roccia scolpita sul greto di un torrente e scendiamo a vedere. È Vishnu Narajana, che dorme sul suo serpentone. La stessa raffigurazione cui ci era stato interdetto l’ingresso giorni fa. Il Narajana agreste è invece più ospitale, e possiamo avvicinarci per salire rispettosamente sulla scultura. È molto grande e del tutto inaspettata in quel luogo.

Baraktpur.jpg (41861 bytes) BaraktpurLion.jpg (36811 bytes) bimba1.jpg (32751 bytes) Narajana1.jpg (80085 bytes) Narajana2.jpg (41492 bytes)

Torniamo sui nostri passi e riattraversiamo l’incrocio con la strada principale per inoltrarci una trentina di km nelle valli a sinistra lungo uno sterrato. Zona di risaie e colline, Nei villaggi che attraversiamo non vi sono auto ne moto parcheggiate, il traffico si limita a poche camionette e, incredibilmente, a radi autobus di linea che entrano ed escono dalle incessanti buche pantanose della strada. Da queste parti i turisti devono essere molto rari: ogni volta che ci fermiamo le moto suscitano grande curiosità nei bambini. Per non parlare della fotocamera digitale che provoca veri e propri assembramenti. Ho una vaga speranza, confortata da indicazioni dei residenti, di riuscire a fare un semicerchio sugli sterrati per tornare in direzione di Katmandu, ma dopo un’oretta incontro un autobus, il cui autista esclude questa possibilità. Allora mi ricordo che i nepalesi non amano contraddire gli stranieri, e che le loro conferme che Katmandu “si trovava più avanti” altro non erano che effetto di ragionamenti tipo: “Se voi stranieri sulle moto, con quell’aria così decisa, andate da quella parte, sicuramente Katmandu è di là…).

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Torniamo indietro, perchè si sta facendo sera. A un tratto sulla strada sento l’inconfondibile profumo della canapa. Fermo la moto e subito scorgo un enorme cespuglio a ridosso di una casupola. Mentre lo indico con ammirazione ad Alessio alla finestra appare un volto maschile sorridente con un piccolo cylum in mano che ci fa cenni di invito. Saliamo nella sua casa attraverso una stalla buia di capre ed entriamo in un rustico salottino in cui quattro uomini seduti a terra giocano a carte e fumano. Ci sono due letti e il pavimento è coperto di stuoie. Sono persone ospitali e cordialissime. Non parlano inglese, tuttavia riusciamo a comunicarci parecchie cose, dai nomi alle rispettive religioni, e a come mai se sono cristiano io non mangio carne ma bevo bensì alcolici… Hanno bei visi, semplici e simpatici, vorrei fare fotografie, ma riesco a cogliere solo la splendida nipotina del padrone di casa, faccio in tempo a fargli vedere il risultato sul piccolo monitor della macchina, poi le batterie mi piantano in asso. Mandano a prenderne altre quattro chissà dove, ma sono cinesi di pessima qualità, e la macchina non si accende neppure. È un gran peccato, perche la stanzetta si popola di deliziosi esemplari del bel sesso di tutte le età fra i tre e i tredici anni. Cinque bimbe e un maschietto bellissimi. Una serie di foto che intitolerei “Gioielli dell’Himalaya”. Ma non ci sono batterie. Mi riprometto di tornare portando dolcetti per tutti loro.

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Gli uomini fumano ganja, e riescono finalmente a farmi capire perchè a Katmandu non si trova hashish decente. A queste quote collinari la pianta produce pochissima resina: per trovarla come tradizione popolare bisogna salire sulle montagne.

Fumo con loro un paio di pipe in atmosfera di grande cordialità. Riusciamo a capirci abbastanza bene parlando ciascuno la propria lingua, con l’aiuto di qualche parola inglese e gran illustrazioni gestuali. Dopo una breve discussione fra di loro mi par di capire che decidono di farci partecipare a una loro piccola devozione: accendono un incenso intorcolato e lo collocano sulla grande foto di Haridwar (città santa sul Gange) che è appesa al muro; tutti uniamo le mani nel gesto di namasté.

Ripartiamo che è ormai l’imbrunire e il ritorno a Katmandu è davvero epico. Le strade non sono illuminate e la città è sparsa in ampi quartieri su tutta la valle, circondata da una “ring road” non illuminata, trafficatissima e polverosissima. Il buio non ci consente di usare gli occhiali che sono da sole, e la polvere negli occhi è davvero tanta. Entriamo per errore a Patan, la cui piazza monumentale per un attimo ci fa credere di essere arrivati al centro di Katmandu. Invece ci vuole più di un’ora ancora a girare sul ring prima che azzecchiamo l’uscita giusta per Thamel.

È la prima volta in questo viaggio che sento la stanchezza come un’intima soddisfazione.

28/07/2000 23:35