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Shambalà Hotel, Katmandu, 4

Continuano le nostre gite fuori porta. Una breve visita al Royal Botanical Garden ci lascia un senso di degrado e sui piedi le ferite di tre sanguisughe a testa. Devo anche far cambiare una camera d’aria della moto a causa di un chiodo. L’orto botanico è un immenso acquitrino, le piante quasi tutte sofferenti e gran parte delle serre sono chiuse. Unica curiosità degna di nota il grande prato con alberi piantati da capi di stato stranieri. Viene alla mente il corteo regale in visita al giardino agghindato per l’occasione. Dev’essere un uso ormai desueto, le ultime talee risalgono agli anni ’80.

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Una costante dei luoghi agresti della valle di Katmandu sono le coppiette. Non c’è posto idilliaco e appartato in cui non si annidi una coppia. Giardini, templi, boschetti, da qualche parte lui e lei siedono vicini e si parlano fitto. Appartarsi per fare una pipì è sempre affar serio. Non ci sono solo le coppie: si ha come l’impressione che ogni palmo del pur impervio territorio sia presidiato. Giorni fa sono entrato in una cava abbandonata, mi aggiravo per trovare un albero compiacente quando sento alcune voci di “Hallo!”.Mi guardo intorno: nessuno. “Hallo, hallo!” Stanno in tre o quattro, adulti, arrampicati su un albero a mezza costa sopra di me: cosa facciano lì con questa pioggia sottile e intridente resta tutto da appurare. Stringo la prostata e me ne torno sulla moto.

I nepalesi amano gli ombrelli, evidentemente. Da un luogo panoramico si contempla una giungla apparentemente impenetrabile e a un tratto, laggiù in fondo, nel fitto della macchia, si vede un ombrello che cammina. Usano gli ombrelli persino andando in motocicletta.

Sul prato inglese di un monastero molto ben tenuto e quieto, adiacente agli orti botanici, incontriamo un curioso gruppo di bimbi. Sono entusiasti delle foto e collaborano volentieri posando spontaneamente in gruppo e da soli.

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. Il Nepal mi sta donando alcune foto di bimbi davvero straordinarie, o forse lo sono per me solo perché non ho mai fotografato bambini…

 La seduzione femminile, qui, è praticata senza ritegno alcuno da bimbe come da adulte: sguardi, sorrisi, movenze e ornamenti da far saltare sulla sedia un gesuita. Eppure mi dicono che i costumi sono molto rigidi: non si esce con una ragazza senza averla sposata, il concetto di fidanzamento sembra non esistere, parlare di rapporti prematrimoniali provoca sorrisi casti e assolutamente increduli nei maschi della bottega di ricamo con cui ho occasione di scambiare qualche battuta. Propongono invece ad Alessio di sposarsi una bella ragazza di qui, e tenerla “per le vacanze”.

 Fuggiamo dagli orti botanici coi piedi sanguinanti e Patrizia sull’orlo dell’isteria: le simpatiche bestiole con due bocche a ventosa che si è trovata tra le dita dei piedi non le hanno fatto buona impressione. Da quel momento mutua le abitudini delle mucche: diventa molto difficile farla uscire dall’asfalto. Imbocchiamo una stradina che si inerpica tra le montagne. È molto stretta, ma deve essere una via di comunicazione importante, dato che si mantiene sgombra in mezzo a una giungla molto vitale e densa, a tratti è persino asfaltata di recente. Il viaggio stavolta sembra interessante, la strada ci porterà forse da Godawari in un’altra città, invece di perdersi nei campi. Non riusciamo però a raggiungerla, l’avvicinarsi della sera e una pioggia ci convincono a girare le moto e tornare sui nostri passi. Ci ripariamo nel chai shop (qui il te al latte si chiama cìa) dell’ultimo villaggio attraversato. La nostra presenza è talmente inconsueta che diventiamo centro dell’attenzione per tutti i presenti: qualcuno parla inglese, così ci scambiamo gli indirizzi e molta simpatia. Nonostante le insistenze si rifiutano di farci pagare la consumazione, anzi insistono per farci bere un secondo bicchiere di cìa con biscotti. Ce ne andiamo a malincuore, con la speranza di tornare anche qui con qualche dono in uno dei prossimi giorni.

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Sabato mattina ordino un paio di marsupi a  tracolla per Alessio e me. Fotografo il fabbricatore di borse, e il giorno dopo anche un suo giovane amico.

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Poi  pranzo a casa di Mr Mun Chun, che dirige un progetto internazionale di aiuti ai disabili. Persona molto mite e anche simpatica, ma spira un’aria di rassegnazione che, associata allo squallore del grande istituto poco distante dal grande stupa di Boudha, non contribuisce a mettermi di buonumore. Ha però una deliziosa e neghittosa nipotina da fotografare, che si rasserena solo all’apparire dei dolci stile occidentale che abbiamo portato.

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Dopo il pasto come sempre da queste parti decisamente troppo abbondante, visitiamo il tempio di Pashupathinat, (Vishnu nel suo amore per gli animali). Immensa area collinare tempestata di centinaia di piccole costruzioni votive molto suggestive alcune delle quali abitate da sadhu. Attraversata da un fiume con ghat per le cremazioni e circondata da un quartiere modello la Duchesca napoletana.

Il tempio è infestato di guide petulanti e, in misura minore, di scimmie. Con una di queste, incontinente nello sfoggiare il suo italiano, giungo quasi alle mani per levarmela di torno (la guida, non la scimmia, non mi sognerei mai di venire alle mani con una scimmia). Oltre alla sua già di per se importuna presenza, il bel tomo voleva anche giustificarmi l’interdizione ai non Hindu da settori del tempio. Quando mi ha detto, sempre mio malgrado, mentre noi tutti gli chiedevamo gentilmente di lasciarci in pace, che se anche io non mangiavo animali, ben li avevano mangiati i miei genitori prima di fare kama sutra per generarmi, ho proprio perso le staffe e gli ho ricordato che i “cristiani” come me sono proverbialmente violenti e che lui stava per averne una prova in corpore vili. Si è allontanato giaculando il suo vocabolario di volgarità italiane collezionato in anni di persecutorie offerte ai nostri connazionali in visita.

Non basta tutto il tempio, che non è tra i più degradati, a farmi passare il malumore.

Per la prima volta mi concedo un gesto irriverente verso gli Hindu: scatto una foto satirica a quattro sadhu che del resto pago profumatamente il doppio della consueta tariffa. Una foto che, quando tento di spedirla con il mio bollettino di aggiornamento, a mo’ di cartolina, mi inchioderà il server di posta o9o (ancora adesso non so se ha ripreso a funzionare).

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Alla sera, terzo tentativo dopo i due falliti nei giorni scorsi, riesco a localizzare la famiglia Rajkar, cui devo portare un regalo da parte di Riccardo, Accoglienza calorosissima e invito a cena per la prossima settimana. Non posso dire di esserne felice, ma non so come difendermi dalla loro gentilezza. Nella casa mi sento ingombrante, e la loro frenesia per le fotografie è imbarazzante, le donne addirittura corrono a cambiarsi d’abito e tornano agghindate. Ho la percezione di ferree gerarchie fra di loro al cui apice siede la sordomuta che governa il nucleo con occhi di vespa.

Gli uomini di casa, tutti molto giovani, hanno per lo più espressioni intontite e sottomesse. Sono tutti legati da rapporti di varia parentela e alcune delle donne sono visibilmente belle e simpatiche persone, ma sul tutto si stende il velo di indiscussa autorità dell’invalida che mi turba e mette a disagio.

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Il giorno dopo, cioè ieri, restiamo in città per varie commissioni: cercare lo spedizioniere per le magliette, un orafo per legare le pietre che ho portato da Jaipur, il sarto di Patrizia e Sunhil, il venditore di seta…

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Non è facile trovare gli orafi. Non c’è un jewellery-bazar pullulante di artigiani come nelle città indiane. Si vedono solo negozi, i laboratori sono molto rari e sembrano essere solo pretesti per dar colore alla bottega. Del resto è molto evidente che gran parte della merce esposta è di fabbricazione rajastana.

Inoltre quando mostro la collana e il bracciale che vorrei fondere per realizzare nuovi oggetti, orafi e argentieri storcono il naso e rispondono che loro sono disposti a lavorare solo oro dai 22 carati in su. Mi fanno chiaramente capire che il nostro 18 è un qualcosa di indecente, che uno dovrebbe vergognarsi anche solo a possederlo.

Al quinto trattamento di questo tipo mi viene una brillante idea: invece di chiedergli di fondere, gli chiedo di raffinarmi l’oro. Dopo un paio di rimbalzi da una bottega all’altra, un gioielliere molto gentile mi fa accompagnare dal raffinatore.

Capisco adesso perché non trovavo i laboratori. Sono infrattati nei meandri più stretti della città; cinque minuti di giravolte per le callette, poi dentro un sottoportico non più alto di un metro e mezzo e largo 70 cm, che porta in una corte, poi una scaletta e al primo piano la fornace del raffinatore. Due bilance, una cassetta di sicurezza, qualche secchio d’acqua, una fornacetta a fola, bottiglie di birra piene di acido nitrico, un matraccio sferico, una scodella e un piatto: è tutto quello che gli serve per compiere l’operazione.

Nessuna formalità, moduli, licenze. Pesa con precisione attentissima. Poi fonde collana e bracciale (due orrendi orpelli valenzani che Patrizia ha avuto in regalo dal padre) in un crogiolo a bicchiere coperto immerso nel carbone della forgia. Regola il fuoco variando l’aria della fola e spostando con gesti veloci i pezzi di carbone acceso. Getta di tanto in tanto della polvere, che si comporta sulla fusione come il salnitro. A metallo quasi freddo rimesta nel crogiolo e fa saltar fuori le due molle d’acciaio dei fermagli. Ripesa la goccia ottenuta e mi avvisa che c’è stato un calo di 200 mg, il peso delle molle.  Calcola la percentuale d’inquartamento, estrae l’argento in verghe e ne taglia la quantità necessaria ad abbassare il titolo in modo che l’acido nitrico possa penetrare nella lega tra le molecole d’oro lavando via tutte le componenti non auree. Nuova fusione, che viene poi versata molto dall’alto in un grosso secchio d’acqua, per parcellizzare il materiale facilitando il seguente lavoro dell’acido.

Tutti i suoi gesti sono tanto accurati da sembrare magici. Acqua, fuoco e sale sono gli elementi concorrenti. È straordinaria l’abilità con cui li fa agire. Da questo punto in poi il metallo è a frammenti anche piccolissimi, dopo l’azione dell’acido sarà addirittura polvere impalpabile che si attacca alle pareti dei recipienti, eppure lui con pochi spruzzi dalle sue dita li trasferisce senza perdite dalla tazza al piatto, al crogiolo.

 Fin dall’inizio mi chiedo come farà in quell’ambiente angusto, con i terribili fumi che si sviluppano durante la morsura dell’acido in ebollizione. La mia esperienza è sufficiente a capire che se svolge quell’operazione lì dentro, non solo noi, ma l’intero caseggiato che circonda la corte saremo in serio pericolo.

Invece lui con molta calma trasferisce le irregolari goccette di metallo nel  matraccio sferico, e ci versa sopra un mezzo litro di nitrico da una bottiglia col tappo a corona.

Poi copre il carbone acceso con un piatto di ferro e ci poggia sopra il matraccio. Quindi prende un lungo tubo di plastica nera piegato a semicerchio che infila nel collo del matraccio turandolo e mandando i fumi a gorgogliare nell’acqua dentro un grosso fusto. Così possiamo assistere per una mezz’ora all’ampolla che diviene gialla, poi rosso scura e infine cian trasparente rimanendo in un’atmosfera perfettamente respirabile (per quanto si possa considerare respirabile l’aria di Katmandu).

Poi un cambio di acido e una nuova morsura a caldo molto più rapida, poi l’ultimo lavaggio della polvere in acqua, con una cura che sarebbe maniacale, se i gesti delle mani nell’acqua tra matraccio, scodella e piattino non fossero così agili ed efficaci.

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Ultima fusione ed ecco l’oro finalmente, quello vero, denso, caldo, plastico, profondo, edule perfino. Tanto giallo da render blu per contrasto il foglio grigio su cui è appoggiato, all’occhio digitale della mia fotocamera.  Avevano ragione loro, c’è quasi da vergognarsi a sporcarlo col rame e l’argento per cambiarne le qualità meccaniche. Vuoi una roba dura? Fattela d’acciaio, perdiana! L’oro è l’oro, e il suo colore dev’essere quello del Sole caldo di primavera, la sua docilità quella di un amico sincero, la sua emozione la commozione intima.

Il pallido sole scandinavo del 18 carati gli faceva i brividi agli orafi. Non hanno pudore dei loro sentimenti magici, da queste parti: gli faceva schifo davvero.

Quando sono andato da uno di loro con il nostro nuovo gocciolone giallo l’accoglienza è stata totalmente diversa. Non più gli sguardi diffidenti e obliqui da gioielliere delle mercerie, con cui mi accoglievano quando mostravo loro la collana, ma occhi accesi di gioia come tra orafi appassionati che si incontrano per parlare del loro lavoro.

 

Il resto della giornata ci vede a comperare vestiti, con il buffo intervento di un esagitato che si piazza davanti alla moto, prende la ruota anteriore fra le ginocchia e non ci lascia ripartire finché non ha finito un sommario disegno a matita di me e Patty.

Finalmente lo firma e ci scrive a grandi lettere RS. 200. Mi è rimasto simpatico, con il suo segno veloce animato da un’ingenuamente efficace frenesia, poi la sua aria spiritata mi ricorda Massimo Marcon, così gli do 100 RS. Ne lui ne i numerosi astanti credevano possibile la cosa, tutti se ne vanno stupiti e lui contento, mentre io vado nel più vicino posto sulle colline per uno spinellino serale.

A questo proposito va annotato che, dopo il mio terzo rifiuto di comperare hashish scadente, (uno per sera, tornava sempre con lo stesso tocco cambiandogli forma e peso) Vishnu, il dealer che mi ha adottato (qui essere adottati è piu facile che adottare, ti arpionano e non ti mollano finché non li minacci seriamente di mettergli le mani addosso o chiamare la polizia) è finalmente arrivato con una sostanza di qualità decente (diciamo pure buona). Dopo estenuante contrattazione ne ho preso tre grammi (che secondo lui erano 5) a un prezzo pressocché veneziano. Non mi piaceva l’idea di passare per Katmandu senza rinverdire l’amicizia con la nepalese azzurra che non incontravo da vent’anni, e non sono stato deluso.

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Cena in centro sulla terrazza di un ristorante per turisti, sfoggiano un cocktail bar occidentale, ma la cosa li imbarazza e li eccita in modo quasi comico. Gli insegno a fare un daiquiri usando rum Gurka e mangio un’ottima zuppa di cipolle. Dalla terrazza vicina un music café fa del suo meglio per convincermi che sono nel Nepal dei primi anni settanta, ma non riesco a credergli, ho ormai incontrato troppi “amici“ da dieci rupie a sorriso,  e la pressione dell’imbecillità internazionale ha già assassinato le mie amiche piante con bombardamenti di defolianti sulle coltivazioni della valle e regi decreti estorti con il ricatto economico. Hanno costretto i Nepalesi a vergognarsi del loro vino, del loro ingenuo e naturale passatempo sociale. Adesso possono invece fumare liberamente benzina e gas di nafta incombusti, o ammazzarsi in camion folli senza freni. L’importante è che nessun occhio turista possa scorgere la pianta maledetta, la terribile Cannabis Indica. Qui cresce come da noi le ortiche e c’è un gran daffare per esercito e polizia a estirpare e avvelenare il terreno, per compiacere le ottuse patronesse dell’ONU larghe di emolumenti ai corrotti “benefattori” locali, che girano con Toyota immense per le callette veneziane di Katmandu.

Tornando a casa fotografo un bimbo addormentato sul suo sacco di bottiglie di plastica… In un’ironia straordinariamente amara mi sorge la frase: “Ecco uno che dorme sul suo lavoro”.

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31/07/2000 11:05

Ho scritto molto oggi, dopo due giorni, ho impaginato HTML tutto il testo e le foto fatte sinora, complice anche una pioggerella mattutina e una levata di buonora. Patty e Alessio sono usciti e io li dovrei raggiungere da ore, ma non riesco a staccarmi dallo scrivere, sento voci lontane dalla città e un’atmosfera mi imprigiona in questa stanza, mentre un sari rosso attraversa il prato sotto di me. Penso che dovrei proprio smettere e andare alla posta, da due giorni sono e-mail isolato e il fatto mi preoccupa non poco… Esco, e vado a spedire tutto questo

Nel prato invece sono comparsi tre studenti e poi una ragazza vestita di nero. Il prato adesso è deserto ma gli studenti restano con la loro inamidata dimostrazione di nitore e pulizia, come occasione di raccontare della presenza quotidiana degli scolari nelle città come nei villaggi. Da soli, più spesso a coppie o in gruppi, spiccano ovunque. A sera invadono le strade trotterellando verso casa o chissadove. Le loro uniformi pulitissime e stirate li mettono come in un’aura di luce elettrica rispetto agli stracci usati come abbigliamento della maggior parte dei passanti o anche ai sofisticatissimi costumi indiani. Il loro contrasto sconfina nel patetico, quando visto in raporto al lerciume delle strade… Una folla di educande e cadetti nelle più svariate uniformi, chiare, attraversa in frotta il pantano di Palazzo Reale…. Poi trotterella su biciclette tra le profonde pozzanghere della piazza centrale della capitale, svanisce infine in un formicare di pertugi che ammettono a un labirinto di connessioni edilizie e familiari per riapparire poco dopo in un brulicare di bimbi  e ragazzi seminudi che affollano di suoni le sere prima della notte. Poi c’è il silenzio e il vuoto, anche nelle vie del centro salvo qualche girellone straniero e una ridottissima parte della popolazione, solitamente dedita a traffici poco leciti.

Cyber Joint, si chiama la mia connessione Internet qui a Katmandu, ed è ora che io ci vada davvero.

31/07/2000 13:28:26

 

Ci sono andato, ed è la sera dello stesso giorno. Poi abbiamo tentato una spedizione verso Patan alla ricerca di bambu per costruire le custodie ai flauti, ma dopo poco ci siamo persi Alessio e dopo un altro poco ho perso del tutto l’orientamento anch’io, e ho continuato a girare in tondo per più di due ore, di cui una sotto una pioggia molto insistente. Alla fine riesco a ritrovare l’albergo con Alessio comodamente sdraiato che legge. Il lungo calvario nel traffico ha stremato Patrizia e fiaccato i miei nervi, ma ho capito un altro paio di cose sul codice della strada nepalese: è identico a quello di Venezia, solo che si applica anche ai veicoli. In pratica tutti si muovono liberamente, cercando di non urtarsi a vicenda e, date le condizioni delle strade e le velocità possibili, ci riescono abbastanza bene.

Rinfrancatomi alquanto decido di cenare in camera con un caffelatte e brioches che ho comperato a Durbhar square, la piazza monumentale della città, o meglio una delle piazze monumentali, perchè Katmandu è policentrica, ovvero formata di parecchi centri storici distinti ma saldati tra loro da periferie molto simili. Questo fa sì che, una volta perso l’orientamento, sia molto difficile ritrovarlo, soprattutto quando, come oggi, il cielo è uniformemente coperto e manca il riferimento del Sole. Si aggiunga che la gente, se da indicazioni, queste sono vaghissime, tipo un gesto in una direzione e anche estremamente inaffidabili per motivi cui ho già accennato.

Certo che i Nepalesi fanno cose ben strane: a chi, mi chiedo, verrebbe in mente di spalmare di burro una brioche dall’esterno? Eppure la mia è esattamente così. Buona, niente da dire, la pasta è molto simile a quel pane soffice, umido e dolcetto che i Triestini chiamano pane degli angeli, ma è completamente spalmata di burro, sì da diventare sgusciante come un’anguilla.

A proposito di cibo, c’è un’altra incongruenza: tutti i Nepalesi con cui ne ho parlato, sostengono di alimentarsi con un pugno di riso e qualche chapati: quando però ci invitano a pranzo e nei ristoranti le porzioni sono enormi e i cibi elaborati e molto speziati. Che accada l’opposto che da noi, dove la gente mangia molto ma ai turisti si somministrano porzioni minuscole?