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Toponomastica Veneziana - A
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Abate (Corte dell')
a S. Gregorio. Nella Descrizione della Contrada di S. Gregorio, ordinata dai X Savii sopra le Decime per l'anno 1661, si vede chiaramente che questa Corte, fin d'allora chiamata «dell'Abate», prese il nome da alcune case di proprietà dell'Abazia di S. Gregorio. Essa le dava da abitare gratuitamente a povere famiglie, e sulla facciata d'una delle medesime esiste tuttora un'iscrizione donde si ricava che vennero rifabbricate nel 1703 per opera del cardinale Ottobuoni.

Pietro Ottobuono, nato in Venezia nell'anno 1667, fu nel 1689 da Papa Alessandro VIII, suo prozio, eletto cardinale, amministratore generale di tutto l'ecclesiastico dominio, poscia legato d'Avignone, e vice-cancelliere di Santa Chiesa. Egli nel 1693 ebbe pure in commenda l'abazia di S. Gregorio di Venezia. Benché lontano dalla patria, s'adoperò in varie occasioni a favorirla, ed ottenne nel 1701 che suo padre Antonio, già generale di Santa Chiesa, fosse riammesso in grazia del Senato, da cui era decaduto per essere stato agli stipendi d'un principe estero. Ma questa disgrazia toccò a Pietro medesimo. Imperocché, avendo nel 1710, contro l'insinuazione dei Veneziani, accettato il grado di protettore della corona di Francia nella Corte Romana, si vide cancellato pubblicamente dal Libro d'Oro, e privato del proprio patrimonio. Questo cardinale, mecenate dei letterati, e letterato egli stesso, morì a Roma nel 1740, estinguendosi in lui la patrizia famiglia Ottobuoni. Vedi Emmanuele Cicogna: «Inscrizioni Veneziane», vol. I.

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Abazia (Calle dell')
a S. Gregorio. Vedi Abate.

Abazia (Fondamenta, Sottoportico, Campo, Ponte, Fondamenta dell')
a S. Maria della Misericordia. La chiesa abaziale di S. Maria della Misericordia, detta l'Abazia, s'innalzò nel 939 sopra un terreno erboso, chiamato Val Verde, o dal solo Cesare dei Giulii, detto Andreardo, o dalle famiglie Giulia e Moro insieme congiunte. In sulle prime si consegnò ad eremiti, e quindi a frati, probabilmente Agostiniani, che vi eressero accanto un convento, periti i quali nella peste del 1348, il priore, che solo era rimasto su, cedette prima di morire la sua dignità a Luca Moro. Questi ottenne nel 1369 che la sua famiglia dovesse possedere in perpetuo il giuspatronato della chiesa. La facciata della medesima fu rialzata nel secolo XVII sul disegno di Clemente Moli, a spese di Gasparo Moro filosofo insigne. L'interno però minacciava rovina, e ne fu preservato a merito del priore monsignor Pietro Pianton, che vi praticò radicali restauri. Questa chiesa nel 1868 andò chiusa, ma nel 1884 venne comperata dal patriarca di Venezia Domenico Agostini coll'intendimento di restituirla al culto divino.

Fra i priori di S. Maria della Misericordia è degno di menzione il pio e dotto Girolamo Savina, che ottenne da Clemente VIII per sé e successori il diritto di portare la mitra ed il pastorale. Essendo egli stato avvelenato da un iniquo sacerdote nel sacro calice, desiderò prima di morire, il 9 giugno 1601, che venisse condonata la pena al sacrilego omicida.

S'impara da un'incisione del Lovisa che il «Ponte dell'Abazia» era nel secolo scorso di pietra. Quindi fu atterrato, e nel 1833 ricostruito di legno.

Sulla «Fondamenta dell'Abazia», nella così detta «Corte Nuova», la Scuola Grande di S. Maria della Misericordia aveva un ospizio, o, come dicevasi, ospedaletto, pei confratelli poveri. L'ingresso della Corte è ornato sopra l'arco da una scultura rappresentante la B. V. e Santi, e sotto vi è un'iscrizione donde s'impara che la fabbrica di quelle case venne incominciata e compiuta nel 1505, sotto il principato di Leonardo Loredan.

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Accademia (Calle della)
alla Giudecca. La Repubblica fondava in questo sito nel 1619 un'Accademia, o Collegio, di giovani patrizi. Nel 1627 decretavasi che vi si potessero ammettere soltanto figli di famiglie sprovvedute di mezzi di fortuna. Limitato a 46 il numero degli allievi, erano essi mantenuti a spese pubbliche fino all'età di 20 anni, ed istruiti nella Religione, Grammatica, Umanità e Nautica; un maestro estraneo all'Accademia si recava in alcuni determinati giorni ad insegnarvi pure Diritto Civile. L'ultimo di questi, come nota Fabio Mutinelli nel suo «Lessico Veneto», fu il sacerdote Giovanni Domenico dott. Brustolon, autore dell'«Uomo di Stato», ossia «Trattato di Politica», impresso in Venezia nel 1798 dallo Zatta. Da principio l'Accademia era affidata a sacerdoti secolari, ma nei primi anni del secolo scorso fu sottoposta alla direzione dei Religiosi Somaschi, venendovi eletto a primo rettore il padre provinciale Stanislao Santinelli. Restò disciolta col cadere della Repubblica.

Accademia (Ponte dell').
Vedi Carità.

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Acqua dolce (Rio dell')
ai Ss. Apostoli. E' così denominato, secondo il Dezan, nelle sue illustrazioni all'«Iconografia delle trenta parrocchie di Venezia» del Paganuzzi, perché solevano stanziarvi le barche cariche d'acqua dolce, che si porta di terraferma per alimentare i pozzi della città.

L'arte degli acquaiuoli si costituì in corpo nel secolo XIV, leggendosi che il 25 dicembre 1386 ottenne il permesso di fabbricare in «Campo di S. Basegio», presso il campanile, una piccola casa ad uso di scuola, ed un altare nella chiesa. Elesse poi a suo protettore S. Costanzo, poiché questo santo «si feva arder le lampade, cioè i cesendeli, pieni de acqua senza nessun liquor né oio, come nara messer S. Gregorio nel suo dialogo». Tanto si ricava dalla «mariegola» di quest'arte, la quale fu riformata nel 1741. Essa nel 1773 contava 18 capi maestri ed 8 figli di capo maestro, essendovi inoltre 100 individui non descritti nell'arte medesima, ma che col pagare 20 soldi all'anno potevano introdurre acqua a Venezia per venderla al minuto. Gli acquaiuoli dipendevano per disciplina ed economia dai Giustizieri Vecchi e dai Provveditori alla Giustizia Vecchia, pell'occorrenze dei pubblici pozzi dal Magistrato della Sanità, e per le gravezze pubbliche dal Collegio Milizia da Mar.

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Acquavita (Ponte, Calle dell')
ai Gesuiti. Secondo la Descrizione della Contrada dei Ss. Apostoli, fatta nell'anno 1713 dietro parte del Senato 29 agosto 1711, esisteva in «Calle dell'Acquavita», presso i Gesuiti, una «bottega d'acquavita» condotta da «Elia Giannazzi», il quale pagava pigione a «Monsignor Marco Gradenigo eletto patriarca d'Aquileia».

Sotto la denominazione d'acquavitai, o venditori d'acquavite, comprendevansi anche i caffettieri, i quali godevano privilegi per ottenere, entro certi limiti, l'appalto del ghiaccio e dell'acquavite. Quest'arte oltre che di consumo, veniva considerata di commercio mercanteggiando i rosoli fabbricati in Venezia. Erasi proibito alla medesima d'aprire nuove botteghe, le quali, per verità, non potevano dirsi poche, contandosene nel 1773 fino a 218, con 155 inviamenti, 6 banchetti, e 30 così detti posti chiusi, atti pur essi a divenire botteghe. Gli acquavitai, chiusi in corpo fino dal 1601, raccoglievansi nella chiesa di S. Stefano conf. «vulgo S. Stin», sotto il patrocinio di S. Giovanni Battista.

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Acque (Sottoportico, Calle delle)
a S. Salvatore. Da una di quelle botteghe, che ora diciamo da caffé, e che chiamavansi anticamente «botteghe da acque». Leggiamo nelle «Condizioni» del 1566 che i fratelli «Alvise e Girolamo Giusto» possedevano in «Calle delle Acque» a S. Salvatore una bottega allora tenuta da «donna Isabetta dalle Acque». Anche nel 1712 esisteva in questa calle una di siffatte botteghe, il conduttore della quale era «G. Maria Pizzotti», perciò detto «dall'Acque». Di essa forse intese parlare il Coronelli ove dice nella «Guida» (edizione del 1724): «Le migliori cioccolate, caffè, acque gelate e rinfrescative, ed altre simili bevande si compongono e si vendono in Calle delle Acque, presso il Ponte de' Baratteri». Il Caffè in «Calle delle Acque», che, secondo i «Notatori» del Gradenigo, manoscritti al Civico Museo, era attiguo alla riva, veniva assai frequentato da nobili e gentildonne mascherati. Il 10 novembre 1756 vi si proibirono i giuochi.

Si ha memoria che il 7 febbraio 1757 M. V. per l'ingresso del procuratore Francesco Lorenzo Morosini, si distinsero i bottegai della «Calle delle Acque», adornandola a foggia d'anfiteatro con archi, colonnami, e statue, e con sfarzosa illuminazione notturna.

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Agnello (Ramo al Ponte, Ponte, Ramo Fondamenta, Fondamenta, Calle dell')
a S. M. Mater Domini. Qui abitava la famiglia Dalla Agnella, la quale forse chiamavasi volgarmente anche Agnello, poiché, giusta il Gallicciolli («Memorie Venete»), appartenne ad essa quel «Marinus Agnellus» che fu parroco di S. Martino nel 1152. Un «Lunardo Dall'Agnella da s. Maria Mater Domini», in occasione della guerra di Chioggia, offrì la sua persona con famiglio a tutto suo carico, e la paga di 150 uomini da remo per un mese. In premio di tale offerta egli nel 1381 venne ballottato pel M. C., ma restò fra gli esclusi, del che, come è fama, accoratosi, morì pochi giorni dopo senza lasciar discendenza. Dei Dall'Agnella così parla il Codice 29 Classe VII della Marciana: «Questi vennero di Trevisana a Rivalta; furono di buona conditione e Cattolici, et fu un ser Lunardo dall'Agnella mercante da Biave della contrà di Santa Maria Mater Domini che offrì alla Signoria di Ven.a nel tempo della guerra di Chioza del 1381, e non rimase. Mancò q.la famiglia in lui med.o del 1393, e da questo deriva il nome del Ponte dell'Agnello a Santa Maria Materdomini». Il Conte Florio Miari nel suo «Dizionario Storico Artistico Letterario Bellunese», fa che questo Leonardo dall'Agnella appartenesse a famiglia di Belluno.

La «Fondamenta dell'Agnello» dicevasi un tempo anche «Fondamenta di ca' Bonvicini» dal palazzo posto di rincontro, il quale apparteneva a questa nobile famiglia.

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Albanesi (Calle degli)
a SS. Filippo e Giacomo. Vi sono varie strade di Venezia le quali, secondo il Dezan, ed altri, hanno preso il nome dagli individui della nazione albanese che vi fecero soggiorno.

La «Calle degli Albanesi» ai SS. Filippo e Giacomo fu chiusa nel 1851 a mezzo di muraglia dalla parte della «Riva dei Schiavoni», ed a mezzo di cancello dall'altra parte pel tratto delle prigioni. In seguito la muraglia venne sostituita da cancello anche dalla parte della «Riva dei Schiavoni».

Gli Albanesi avevano scuola di devozione in chiesa di S. Severo, eretta nel 1443, ma quattro anni dopo, ottenuta l'approvazione del Consiglio dei X, trasportaronsi nella contrada di S. Maurizio, ove presso la chiesa scorgesi tuttora il locale in cui radunavansi. Esso, come insegna la loro «Mariegola», che si conserva ms. nella Marciana, venne incominciato nel 1497; nel 1500 si lavorò il soffitto, e si fecero i rosoni ai quadri; nel 1501 furono terrazzati i locali, e nel 1502 soffittato il pian terreno. Finalmente nel 1532 si eseguì la facciata di marmo, sulla quale, oltre l'immagine dei Santi titolari, cioè della B. V., di S. Gallo, e di S. Maurizio, scorgesi scolpita la città di Scutari capitale dell'Albania, con la memoria dell'assedio che patì dai Turchi nel 1474. Fu in questa occasione che il comandante Antonio Loredan offrì le proprie carni ai difensori travagliati dalla fame purché tenessero fermo, e gli infedeli dovettero, per istracchi, levare l'assedio. Solo più tardi, cioè nel 1479, essi ebbero Scutari a patti, e vi piantarono la mezza luna ottomana.

La Scuola degli Albanesi a S. Maurizio si convertì negli ultimi tempi della Repubblica ad uso delle riduzioni dei «Pistori». Perciò in «Campo S. Maurizio» scorgevasi una lapide innestata al selciato coll'iscrizione: Loco Dello Stendardo della B. V. Dei Albanesi Ora Dei Pistori. Vedi anche Pistor (Calle del).

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Alberegno (Calle)
ai Servi. Appellavasi «Calle dell'Alberegno», ed in essa nel 1661 c'erano varie case di «Lorenzo Alberegno». Sul prospetto d'una di esse riguardante la «Fondamenta Ormesini» è tuttora scolpito l'albero, stemma della famiglia «Alberegno», od Alberengo. Le cronache ce la dipingono come composta da «homeni da valle, de bona coscientia, et amatori della giustizia, quali fecero edificar la giesia de S. Salvador de Muran». Questa famiglia mancò al patriziato nel 1301, ovvero 1310, in Giacomo che era avvocato all'«Ufficio del Proprio». Un tralcio della medesima conservossi però nel ceto cittadinesco, attendendo alla mercanzia di panni. Il Cicogna illustra le quattro epigrafi sepolcrali che gli Alberegno avevano nel demolito chiostro dei Servi, e fa menzione di quel Michele Alberegno che nel 1558 fu scrittore d'una cronaca Veneziana.

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Albero (Ramo al Ponte, Ponte, Fondamenta, Calle, Rami Corte, Corte dell')
a S. Angelo. Questa Corte, onde denominaronsi le prossime località, è chiamata negli Estimi «Corte di cha Marcello ovvero dell'Alboro», e trovasi che fino dagli antichi tempi qui possedeva varie case quel ramo dei patrizii Marcello, il quale come pensa l'abate Teodoro Damaden («Genealogie Marcello», ms. nel Museo Correr) dicevasi «dall'alboro» per qualche albero sorgente presso il suo domicilio. Si può credere adunque che il ramo suddetto comunicasse il proprio nome alla corte di S. Angelo ed anche che il luogo, ove sorgeva l'albero, di cui si tratta, fosse la corte medesima, tanto più che il Vasari, parlando del palazzo Corner, poscia Spinelli, in «Corte dell'Albero» esistente, dice che esso nel 1542 doveva essere nell'interno «rassettato per la casa Cornaro a S. Benedetto all'arbore, dal Sammichieli, che era di Messer Giovanni Corner amicissimo». Il Vasari poi, come forestiere, scambiò il circondario di S. Angelo, ove veramente è situato il palazzo, col finitimo di S. Benedetto.

Dicesi che il «Rio dell'Albero», il quale passa per mezzo l'attuale parrocchia di S. Maria Zobenigo, ricordi pur esso un albero antico. Ed in vero, sappiamo dagli scrittori che varii grossi alberi crescevano un tempo per la città, come una ficaja in «Campo di S. Salvatore», ove, per un decreto del 1287, doveva fermare il cavallo chi andava a S. Marco per le Mercerie. Il Caroldo inoltre, per indicare uno dei luoghi che nel 1310 furono teatro di scaramucce fra la gente del doge Pietro Gradenigo, e quella di Bajamonte Tiepolo, disse

che ciò avvenne «circa mezza Marzaria, dove soleva essere un sambugaro».

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Alberti (Fondamenta)
a S. Barnaba, presso il «Ponte dei Pugni». «Girolamo Alberti q. Z. Batt.» denunziò ai X Savi sopra le Decime in obbedienza alla parte del Senato 1711, la casa ove abitava in parrocchia di S. Barnaba, con altre vicine, una delle quali «da molto tempo vacua, per causa di non esservi più il divertimento dei pugni». Si vede che tal casa era una di quelle che sulla «Fondamenta Alberti», sono più vicine al così detto «Ponte dei Pugni», e che la medesima, quando il Ponte prestavasi alle lotte, facilmente ed a buoni patti doveva darsi a pigione. Girolamo Alberti era stato riconosciuto cittadino originario il 18 aprile 1658, e copriva la carica di notajo ducale. Egli aveva fatto passare in proprio nome le case in S. Barnaba da quello di «Elisabetta Priuli vedova di Alvise Loredan» con traslato 21 ottobre 1688. La di lui famiglia, venuta, secondo il Coronelli, da Firenze, ebbe Secretarii del Senato, e Residenti all'estere Corti. Dividevasi in più rami, uno dei quali fu celebre per Francesco ingegnere e Sopraintendente all'Armi, all'epoca dell'assedio di Parga (anno 1657), e per tre figli del medesimo, che, recatisi in Germania, presero servizio alla Corte dell'Elettore Palatino del Reno, ove furono ricolmi di titoli ed onori.

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Albrizzi (Ramo e Campiello, Calle, Campiello)
a S. Apollinare. La famiglia Albrizzi venne da Bergamo a Venezia nel secolo XVI. Da principio ebbe negozio di tele, poiché Maffeo Albrizzi, nato a Bergamo, e morto a Venezia nel 1643, era, secondo la fede mortuaria presentata dai discendenti all'Avogaria, «telariol alle 2 Ancore». Poscia questa famiglia si diede a mercanteggiare in olio colla Canea, avendo navigli proprii, che offerse a servigio della Repubblica nelle guerre contro i Turchi. Rammenta la storia un Antonio Albrizzi nipote di Maffeo, il quale morì sotto Candia Nuova per ferite nemiche, ed un altro Maffeo fratello di Antonio, che nel 1664 venne tumulato in chiesa di S. Apollinare, con epigrafe allusiva ai navigli messi a disposizione della patria. Egli nel 1648 aveva incominciato ad acquistare dalla cittadinesca famiglia Bonomo porzione di quel palazzo a S. Apollinare, che nel 1692 passò interamente in proprietà di G. Battista, Antonio, Giuseppe, ed Alessandro di lui figli, e che dà il nome alle strade da noi illustrate. I suddetti figli di Maffeo vennero nel 1661 approvati cittadini originari, e nel 1667, mediante il solito esborso di 100 mila ducati, ammessi al Maggior Consiglio. Il palazzo Albrizzi venne abbellito nel 1771, e, distrutte alcune casette che ne oscuravano la facciata dalla parte di terra, si formò innanzi ad esso l'attuale «campiello». Gli Albrizzi fioriscono tuttora.

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Algarotti.
Vedi Algherotto.

Algherotto (Calle)
alla Fava. Leggasi Algarotti, cognome di cittadinesca famiglia Veneziana, la quale però non deve confondersi con quella che fu celebre pel conte Francesco, ciambellano e confidente di Federico II re di Prussia, e che contrasse parentela coi Corniani. Un «Iseppo Maria Algaroti q.m Giacomo» comperò con istrumento 6 aprile 1748, in atti di Angelo Vallatelli, da «Lorenzo e Francesco fratelli Gerardi» una «casa posta a S. Lio alla Fava, tenuta per uso». Comperò pure da «Faustina Lazzari relita G. Gussoni», con istrumento 15 giugno 1748, in atti del notajo medesimo, un'altra parte della casa medesima. Giuseppe Maria Algarotti, che era pubblico sensale, fece il suo testamento il 23 febbraio 1785 a rogiti di Gio. Antonio Dall'Acqua, e morì il 19 marzo dell'anno susseguente. I di lui figli Antonio, Giovanni Maria, Vincenzo, Francesco, ed Elena vendettero il 24 aprile 1788 alla famiglia Guizzetti la casa dominicale paterna, che giace alla Fava, in «Calle Algherotto», al N. A. 5599, ed ora appartiene ai Reali.

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Alimante.
Vedi Limante.

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Almatea (Sottoportico e Corte, Corte)
ai Frari. Si deve leggere Amaltea dalla famiglia Amalteo d'Oderzo, celebre per letterati e poeti. Nei Necrologi Sanitarii troviamo che in parrocchia di S. Polo, a cui anticamente erano soggette queste località, morirono il 30 settembre 1604: «la mag.ca mad.na Emilia Amaltea de ani 48 de febre già un mese», ed il 29 agosto 1613 «il Sig. Anibal Amalteo de ani 50 da febre già giorni 14, visitato dal ecc.mo suo fratello». Probabilmente il fratello di Annibale qui nominato era Ottavio che, secondo il Mazzuchelli negli «Scrittori d'Italia», acquistossi in Venezia grande reputazione e non poche ricchezze esercitando la medicina. Anche la cronaca cittadinesca trascritta da Apostolo Zeno (Cod. 361, Classe VII della Marciana) così si esprime parlando della famiglia Amalteo d'Oderzo: «Di questa casa vive oggidì Ottavio medico famoso per tutto il mondo». Al pari di Ottavio, aveva vissuto anteriormente per molti anni a Venezia G. Battista di lui zio, educando i giovani patrizi Lippomano. Gli Amalteo, che fino dal 1551 erano stati ascritti al Consiglio di Oderzo, e che nel 1822 avevano ottenuto l'approvazione della loro nobiltà dal Governo Austriaco, più non esistono.

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Amadi.
Vedi Amai.

Amai (Calle dei)
a S. Giovanni Grisostomo. La famiglia Amadi, chiamata anche Amai, ebbe origine nella Baviera, da cui passò in varie città d'Italia. Un ramo di essa venne a Venezia da Cremona nell'820, e mancò nel 1286. Un altro ramo venne da Lucca nel 1210, e fece parte del Consiglio, dal quale però si vide escluso nel 1297. Alcuni Amadi vennero da Lucca anche nel secolo XIV coi mercanti e tessitori di seta. Questa famiglia, sebbene rimasta fra i cittadini originari, si mantenne sempre in gran fiore, producendo uomini distinti sì nella carriera ecclesiastica che nella civile. Possedeva molte ricchezze e molti stabili, uno dei quali con prospetto archiacuto sul «Rio del Fontego», a S. Giovanni Grisostomo, nel sito che stiamo illustrando. Troviamo parecchi Amadi da S. Giovanni Grisostomo ascritti nei tempi antichi alle Scuole Grandi. Inoltre, la cronaca cittadinesca del Ziliolo (Codice 90, Classe VII della Marciana) asserisce che Francesco Amadi ebbe il grado di conte palatino coi fratelli e discendenti dopoché albergò nella sua casa di S. Gio. Grisostomo Federico III imperatore e Leonora di lui moglie, venuti nel 1452 a visitare Venezia. Qui noteremo alla sfuggita, che Francesco avrà per avventura ospitato la corte di questo monarca, per accogliere la quale furono disposte 15 case, poiché la maggior parte delle cronache riporta che Federico ebbe stanza a S. Giacomo dall'Orio nella casa del marchese di Ferrara, e l'imperatrice in casa Vitturi a S. Eustachio.

Un'altra casa degli Amadi era sulla «Fondamenta dei Tolentini», e tuttora nell'interno esiste la «Corte degli Amai» coll'arma loro sculta sul muro. Il Cod. 27, Classe VII della Marciana, ha queste parole in proposito: «L'antica casa degli Amadi vedesi sopra il canale della Croce di Venetia, et fu riformata da Francesco» (membro distinto di questa famiglia che viveva nel secolo XVI) «fattala ornare di belle et ingegnose pitture da... pittore celebratissimo, e condotto dalla corte Imperiale in Venetia a tale effetto con grosso stipendio; ed inoltre viene appresso il vago e ricco giardino et orto di semplici rarissimi».

Anche il «Sottoportico e Corte degli Amai» a S. Paterniano presero il nome da stabili della suddetta famiglia. Ciò si pare manifesto dalla Redecima del 1661, in occasione della quale Elisabetta Amai, vedova di Francesco Capodilista, notificò di possedere quattro casette a S. Paterniano in «Corte di Amai».

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Amaltea.
Vedi Almatea.

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Ambasciatore (Ramo dell')
a S. Barnaba. Conduce ad un palazzo, il quale ha la facciata sul «Canal Grande», di stile archiacuto, con marmi e statue di qualche merito. Esso nel secolo trascorso apparteneva ai Loredan, e servì di residenza al generale terrestre Gio. Matteo di Schulemburg, ma nel 1754 cominciò ad essere abitato dal conte Filippo Rosenberg-Orsini, ambasciatore Cesareo presso la nostra Repubblica. Havvi memoria che nell'anno medesimo il doge Francesco Loredan propose alla corte di Vienna di cederle questo palazzo ad uso degli ambasciatori imperiali per uno spazio di tempo non minore di ventinove anni, col patto che la pigione si dovesse sborsare in una sola volta, e le spese di ristauro andassero a carico degli ambasciatori medesimi. Non è noto se la corte di Vienna accettasse la proposta, ma sappiamo che qui ebbe residenza anche il conte Giacomo Durazzo, patrizio genovese, il quale il 27 settembre 1764 fu il successore del Rosenberg, e per venti anni sostenne in Venezia la propria carica. Egli volle dimorare in Venezia anche uscito di impiego, e venuto a morte fra noi il 15 ottobre 1794, ottenne un anno dopo, per cura del nipote Girolamo Durazzo, un onorevole epitaffio in chiesa di S. Moisè.

Da quanto abbiamo detto risulta andarsene errati di molto il Lecomte («Venise ou Coup d'oeil» ecc.) ed il Zanotto («Guida Massima» ecc.), il primo dei quali suppose che il suddetto palazzo servisse d'abitazione all'ambasciatore di Spagna, ed il secondo, che il medesimo fosse posseduto da qualche individuo della famiglia Durazzo, ambasciatore genovese della sua alla nostra Repubblica.

Ambassador.
Vedi Ambasciatore.

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Amigoni (Calle)
a S. Girolamo. «Z. Batta Amigoni q. Valente» notificò col figlio Agostino il 20 novembre 1609 di possedere alcuni stabili «tutti contigui uno all'altro», e posti «in contrada di S. Marcuola, appresso S. Hieronimo sulla Fondamenta», che prima erano stati di diversi proprietari, cioè della «q. D. Ortensia Foresto», degli «heredi del q. Zuane Semitecolo», di «Zuane Ferro», del «q. Zuane Grimani», e di «Franc. Zentili». Notificò pure d'aver incominciato fino dal 1605 a rifabbricare gli stabili suddetti, e formato con parte d'essi una «casa grande in doi soleri», il «soler di sotto» della quale, «insieme con un magazzen da olio», teneva per uso. Da una lite insorta nel 1606 fra esso e Tommaso Pin, che possedeva uno stabile propinquo, si rileva che «G. B. Amigoni q. Valente» professava l'arte dell'«orese».

La «Calle Amigoni» o, come trovasi chiamata negli Estimi, «dell'Amigon», attualmente è chiusa.

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Amor degli amici (Calle dell')
a S. Tomà. Ad onta delle fatte ricerche, non potemmo ritrovare l'origine di questo nome. Anche il Fontana nell'«Omnibus» vi scivola sopra dicendo «Nome che, se non rimane indizio di qualche rimoto socievol convegno, può richiamarci, forse, non senza nostro rossore, all'età dell'oro dell'amicizia».

Innanzi l'interramento del «Rio dei Nomboli», la «Calle dell'Amor degli Amici», per mezzo di un ponte del nome medesimo, comunicava con la «Calle dei Saoneri». Notisi però che, probabilmente per brevità, le Descrizioni della contrada di S. Tomà nominano in questa situazione soltanto la «Calle», ed il «Ponte dell'Amor».

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Anatomia (Ponte, Corte, Sottoportico della) o Ferenzuola (o Fiorenzuola - NRE)
a S. Giacomo dall'Orio. Una legge del 1368 prescrisse, che ogni anno, per un dato tempo, si dovesse fare in Venezia l'anatomia dei cadaveri. Troviamo che tale operazione eseguivasi dapprima in luoghi diversi, cioè nella chiesa di S. Paterniano, nell'ospitale dei SS. Pietro e Paolo, nel convento dei padri Carmelitani, in quello di S. Stefano, in quello dei Frari, nella Scuola di S. Teodoro, od in qualche altro luogo privato.

Intorno al 1480 il medico Alessandro Benedetti propose l'erezione d'un teatro anatomico, ma il suo progetto poté essere effettuato soltanto due secoli appresso, pel lascito di tre mila ducati del patrizio Lorenzo Loredan. Il teatro anatomico pertanto, con annessa scuola, s'aperse il dì 11 febbraio 1671 in quel locale che è posto in «Campo di S. Giacomo dall'Orio» al N. A. 1507, e dopo la metà del secolo trascorso venne ristaurato e riaperto. Arso poi la notte dell'8 gennaio 1800, si ridusse nuovamente, ma in più semplice foggia, e servì per qualche anno ancora alle cadaveriche sezioni. Attualmente esse si fanno al Civico Ospitale, e la Scuola d'Anatomia è concentrata nell'Università di Padova.

Le strade indicate, oltreché «dell'Anatomia», sono chiamate «Ferenzuola», corruzione di Firenzuola, o Fiorenzuola, cognome di famiglia cittadinesca. In una delle «Mariegole» appartenenti alla Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista troviamo ascritto qual confratello nel 1473 un «Cristofolo Fiorenzuola Uffiziale ai Consoli» da S. Giacomo dall'Orio. Ed anche nel principio del secolo XVI questa famiglia continuava a possedere stabili in detta parrocchia.

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Ancillotto (Sottoportico e Corte)
a S. Giuliano. Un «Marco Ancillotto» aveva nel 1713 una bottega da caffè, o, come allora dicevasi, da «acque», in questa situazione. La famiglia Ancillotto che qui pure abitava, era ben provveduta di mezzi di fortuna, poiché, come consta dalle notifiche presentate ai X Savii sopra le Decime, possedeva parecchie case in parrocchia di S. Basilio ed a Murano, nonché beni in quel di Trevigi e di Padova.

Nel Caffè Ancillotto praticava con altri amici il torinese Giuseppe Baretti. Esso dicevasi anche «Caffè di Spadaria», avendo ingresso in questa strada. Narrasi che negli ultimi tempi della Serenissima, volendosi qui aprire dai Giacobini un gabinetto di lettura con libri e giornali venuti di Francia, fu mandato sopra luogo Cristoforo dei Cristofoli famoso «fante dei Cai», il quale, rivoltosi al bottegaio, gli disse essere volontà degli inquisitori che il primo ad entrare nel nuovo gabinetto dovesse presentarsi al loro tribunale. Il gabinetto, come si può bene immaginare, non fu più aperto.

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Anconetta (Campiello, Calle, Ponte dell')
ai Ss. Ermagora e Fortunato. Alcuni giovani devoti, uniti in confraternita, esposero alla pubblica venerazione nella chiesa dei Ss. Ermagora e Fortunato un'immagine della B. V. Sorti in seguito alcuni litigi col capitolo della chiesa, i giovani suddetti trasportarono l'immagine in un piccolo oratorio da essi fabbricato, che chiamossi dell'«Anconetta», diminutivo d'«ancona», derivante dal greco «eikòn» (immagine). Questo oratorio ampliossi per la generosità di Pasquino Carlotti, che, col suo testamento 24 agosto 1623 diede la seguente disposizione: «Lasso la mia casa di Ven.a posta a S. Marcuola» (Ss. Ermagora e Fortunato) «all'Anconeta, alli doi Ponti, alla Gloriosa Vergine M.a anzi che gli la restituisco, pregando essa Gloriosa Madre di Dio che ispiri nel core a quelli che maneggiano quella confraternita che vogliano allargare la Chiesa e quadrarla, e perchè possino farlo senza scusa, voglio che, pagate le gravezze a S. Marco di detta casa, di volta in volta che si scoderà li affitti, adunisi tanti denari che si possino buttar zozo la detta casa, et allargar la chiesa fino all'Altar Grando, et fino al livello del soffittado di detta chiesa, e fino sora la Calle che va alli doi Ponti, dove se gli faccia un'altra porta, con obbligo di farmi dire ogni giorno una messa da morto per l'anima mia in perpetuo», ecc. ecc.

L'Oratorio dell'Anconetta, che venne a' dì 22 febbraio 1652 M. V. per autorità del Senato, «ricevuto in protezione della Signoria, acciocché, continuandosi il governo della Chiesa e Scuola da persone laiche, proseguissero nella loro divotione con accrescimento di merito e decoro della città, et esaltazione del culto divino», ebbe un ristauro nel 1740 per lascito «de donna Laura relita del quond. Isepo Sandrin linariol», ma fu chiuso nei primi anni del secolo presente, e nel 1855 del tutto atterrato per allargare la prossima via. Una lapide posta sul pavimento indica il sito ove esso sorgeva.

Il fuoco che appiccossi non lungi dal «Campiello del Tagliapietra» in parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato, il 28 novembre 1789, distrusse anche il «Ponte dell'Anconetta» coi circostanti edifici lunghesso il canale. Vedi Tagliapietra (Campiello del).

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Ancore (Calle, Sottoportico, Corte delle)
a S. Marco, presso la «Calle dei Fabbri». Da un fabbro ferrajo, che aveva qui presso la sua officina, ed occupavasi principalmente nel costruire ancore pei navigli. A proposito del ferro, che dovevasi usare per le ancore, abbiamo la legge seguente del 28 giugno 1332: «Quod nullus laborator vel famulus alicujus magistri facientis ancoras, pironos, agutos, et coetera ferramenta navigiis pertinentia, audeat vel praesumat laborare in dictis laboreriis, modo aliquo vel ingenio aliquo, aliud ferrum quam de Cadubrio, vel de Macho, bonum et legale», ecc. ecc.

La «Corte dell'Ancore» a S. Marco era detta anche di «ca' Bragadin» perché vicina a case già possedute da questa patrizia famiglia, le quali nel 1661 appartenevano alla «commissaria del q. Girolamo Bragadin».

Altre strade ebbero pello stesso motivo la denominazione medesima.

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Angaran detto Zen (Campiello)
a S. Pantaleone. Il «N. U. G. Antonio Zen» notificò nel 1661 di possedere una casa in «due soleri» a S. Pantaleone. Si vede nelle Condizioni pell'anno 1711 che la casa suddetta era passata in proprietà dei «NN. UU. Antonio e Carlo fratelli Ruzzini», nipoti, per parte materna, dello Zen, e ch'essi in quell'anno l'affittavano ai «NN. UU. Oratio et fratelli Angaran». L'Orazio di cui qui si parla nacque da Giovanni Angaran e da Virginia Garzadori nel 1665, e nel 1688 sposò Romilda Corner. Dopo importanti cariche, onorevolmente sostenute, morí nel 1751, ed ebbe tomba con epigrafe in chiesa di S. Pantaleone. Secondo la cronaca del Pagliarini, trovasi memoria degli Angaran in Vicenza, loro patria, fino dal 1250. Avendo un Fabio di questa famiglia offerto alla nostra Repubblica, travagliata dalla guerra di Candia, 140 mila ducati, venne ammesso al M. C. coi nipoti e discendenti nel 1655. Egli disse nella supplica per ottenere la patrizia nobiltà, che un Girolamo fratello di suo avo, essendo luogotenente di Bartolammeo Alviano, perí nel fatto d'armi della Motta, e che Galliano suo avo, cinto di laurea dottorale, fu commissario dei Veneziani a Vormazia. Disse inoltre, che Francesco suo padre, e Girolamo suo fratello, ambidue decorati di grado cavalleresco, vennero piú volte, come ambasciatori di Vicenza, spediti a Venezia. Rammemorò finalmente fra i suoi antichi anche un Pietro Angaran «consultore in jure» della Repubblica.

Della famiglia Zen diremo più innanzi. V. Zen (Fondamenta).

In «Campiello Angaran, detto Zen», scorgesi innestato nella muraglia un medaglione di marmo greco, nel quale è scolpito un imperatore d'Oriente in costume, lavoro del secolo IX. Erroneamente il Zanotto vorrebbe che questo fosse il marmo del forte Mongioja portato a Venezia da Lorenzo Tiepolo. Vedi S. Pantaleone (Parrocchia ecc.).

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Angelo (Calle del Ponte, Ramo Calle del Ponte, Calle e Ponte, Ponte, Fondamenta, Calle al Ponte dell').
Sul prospetto d'una prossima casa, che, malgrado le riduzioni, palesa l'originario stile archiacuto, scorgesi una specie d'altarino di marmo, il quale nella parte superiore ha un dipinto rappresentante la Vergine col Bambino fra due angeli, e nell'inferiore altro angelo sculto in basso rilievo, ritto, coll'ali aperte, in atto di benedire colla destra un globo, decorato dalla croce, da lui tenuto colla sinistra. La figura di quest'angelo, dalla cintura in giù, rimane coperta da due scudi gentilizi attraversati da una sbarra, stemma ripetuto sul pozzo della corte interna, che noi, nella seconda edizione delle «Curiosità Veneziane», abbiamo detto appartenere alla patrizia famiglia Nani. Il Cicogna al contrario nel suo codice 3255, ora depositato nel Civico Museo, vi trova lo stemma dei Soranzo. La cosa potrebbe lasciare qualche dubbiezza poiché, espressi sul marmo, gli stemmi dei Nani e dei Soranzo appaiono consimili, e soltanto, espressi a colori, differenziano fra loro in questo, che lo scudo dei Nani è trinciato d'oro e vermiglio, mentre quello dei Soranzo è trinciato d'oro ed azzurro. La seguente scoperta però, fatta dal Cicogna, dimostra a chiare note ch'egli ebbe pienissima ragione nel suo asserto. Presso la riva del palazzo detto «dell'Angelo» lesse innestata nel muro un avanzo di sepolcrale iscrizione romana che è riportata nella «Raccolta d'Iscrizioni Antiche» del celebre frate Giocondo da Verona colla nota: «Venet. in Rivulo S. Marci, in Ripa D. Lucae Sorantio». Dei Soranzo era adunque lo stabile, e siccome fra' Giocondo dedicò la sua «Raccolta» a Lorenzo de' Medici, morto nel 1492, si vede aversi ciò verificato nel secolo XV, il quale fatto si conferma dai genealogisti colla notizia che Luca Soranzo, figlio di Cristoforo q. Gabriele, fu approvato pel Maggior Consiglio nel 1419, e che nel 1432 ammogliossi con Elisabetta Dandolo da S. Benedetto. Inoltre sotto l'immagine del pozzo dello stabile medesimo, disegnata dal Grevembroch (ms. al Civico Museo) si legge: «Pozzo angelicamente simboleggiato al Ponte dell'Angelo, era dei Soranzo e poi dei Barbarighi».

Tornando poi all'iscrizione romana sovraccennata, la quale è quasi tutta corrotta dal tempo, essa suona così:

D. M.
T. Mestrius
T. L. Logismus
V. F. Sibi Et
Mestriae
Spiratae
Coniu.

Il prof. Pietro Pasini giudicolla, dal cognome greco «Logismus», appartenente all'epoca dell'imperatore Domiziano, e riputò che questo «Mestrius Logismus» fosse uno schiavo emancipato per le sue buone qualità da qualche personaggio della famiglia Mestria, celebre nella Venezia terrestre, donde forse acquistò il nome la terra di Mestre.

Curiosa è poi la storiella che dicesi aver dato origine alla scultura dell'angelo posta sulla facciata del palazzo. Noi la trarremo dagli «Annali dei Cappuccini» del padre Boverio, servendoci in parte delle medesime di lui parole. Racconta adunque il buon frate che nella casa predetta abitava l'anno 1552 un avvocato della Curia Ducale, il quale, con tutto che fosse devoto della B. V., aveva accresciuto l'entrata con disonesti guadagni. Invitò questi un giorno a desinare il padre Matteo da Bascio, primo generale dei Cappuccini, ed uomo di santissima vita, e gli raccontò, prima di sedersi a mensa, d'avere in casa una scimia brava ed esperta in modo che lo serviva in tutte le sue domestiche faccende. Conobbe subito il padre, per grazia divina, che sotto quelle spoglie celavasi un demonio, e, fattasi venire innanzi la scimia, la quale stava appiattata sotto un letto, le disse — Io ti comando da parte di Dio di spiegarci chi tu sia, e per qual cagione entrasti in questa casa. — Io sono il demonio né per altro fine qui mi sono condotto che per trar meco l'anima di questo avvocato, la quale per molti titoli mi si deve. — E perché dunque, essendone tu tanto famelico, non l'hai ancora ucciso, e portato teco all'inferno? — Soltanto perché, prima d'andare a letto, si è sempre raccomandato a Dio ed alla Vergine; che se una sola volta tralasciava l'orazione consueta, io, senza indugio, lo trasportava fra gli eterni tormenti. — Il padre Matteo, ciò udito, s'affrettò a comandare al nemico di Dio di uscir tosto da quella casa. Ed opponendogli questi che gli era stato dato dall'alto il permesso di non partir di colà senza far qualche danno. — Ebbene, gli disse il padre, farai qualche danno sì, ma quel solo che ti prescriverò io, e non più! Forerai partendo questo muro, e il buco servirà a testimonio dell'accaduto. — Il diavolo obbedì, ed il padre, messosi a desinare coll'avvocato, lo riprese della sua vita passata, e nel fine dell'ammonizione, prendendo in mano un capo della tovaglia, e torcendolo, ne fece uscire miracolosamente sangue in gran copia, dicendogli, essere quello il sangue dei poveri da lui succhiato con tante ingiuste estorsioni. Pianse il dottore i proprii trascorsi, e ringraziò caldamente il cappuccino della grazia ottenuta, manifestandogli però il proprio timore per quel buco lasciato dal diavolo, e chiamandosi poco sicuro finchè restasse libero il varco a sì fiero avversario. Ma fra' Matteo lo rassicurò, e gli ingiunse di far porre in quel buco l'immagine d'un angelo, imperciocché alla vista degli angeli santi fuggirebbero gli angeli cattivi. Fu questo successo così pubblico, conchiude il Boverio, che un ponte, vicino alla casa ove scorgesi la scultura dell'Angelo, chiamasi oggidì «Ponte dell'Angelo».

Checchè ne sia di tale storiella, ripetuta nel Segneri («Cristiano Istruito») e nel Cod. 481, Classe VII, della Marciana col titolo: «Casi Memorabili Veneziani raccolti dal gentiluomo Pietro Gradenigo da S. Giustina», con poco criterio essa viene attribuita all'anno di grazia 1552, mentre, oltrechè il dipinto e la scultura dell'altarino sembrano più antichi, appare da una legge del 1502 che fino d'allora il «Ponte dell'Angelo», quantunque non ancora eretto in pietra, portava questa denominazione.

La casa dell'Angelo è celebre altresì pegli affreschi del Tintoretto, dei quali però non rimane che qualche languida traccia. Narrasi che avendo gli emuli del sommo pittore vociferato, ch'egli avrebbe dovuto mettere mani e piedi per condurre a termine l'impresa, quel bizzarrissimo ingegno dipinse bensì nelle facce esteriori degli appartamenti molti gruppi e figure di battaglie, ma nel cornicione volle figurare una quantità di mani e piedi che sostengono, afferrano, premono, e spingono, burlandosi in tal guisa piacevolmente dell'astio degli invidiosi.

Angelo (Corte, Sottoportico e Corte dell')
a S. Martino. Da un angelo di marmo posto sopra l'ingresso del sottoportico in mezzo a due scudi gentilizii, recanti il riccio, o porco spino, stemma della cittadinesca famiglia Rizzo, o Bonrizzo, che qui possedeva alcune case.

Angelo (Calle, Campiello dell')
a Castello. Un «m. Nicolò dall'Anzolo» da S. Pietro di Castello morì il giorno 11 marzo 1563.

Altre strade di Venezia derivano il nome da famiglie così cognominate.

Angelo (Calle dell')
a Rialto. Leggesi che uno stabile qui situato serviva fino ab antico ad uso d'osteria all'insegna dell'Angelo. Poscia albergò i Turchi, ma quando costoro, per decreto 11 marzo 1621, vennero concentrati nel palazzo del duca di Ferrara, tornò ad essere osteria colla pristina insegna. Il decreto del 1621, dopo aver ordinata tale concentrazione, aggiunge queste parole...

«. . . . . potendo li rappresentanti la ragion. q.m. N. U. Bortolomio Vendramin, sive della N. D. Cattarina Foscolo fu sua moglie, de ragion della quale era la casa proposta et accettata dalla Signoria nostra, a ritornare l'hosteria coll'insegna dell'Anzolo nella detta casa posta in S. Mattio di Rialto, et quella far esercitar come per innanzi fosse data per habitation dei turchi, conforme in tutto alla sua scrittura presentata alli 7 Savii, a cui si habbia relazione, né sia impedito da Magistrati, Collegi, Consigli ecc. né sospeso il far hosteria in deta casa con la insegna dell'Anzolo, siccome è giusto e conveniente».

Angelo (Calle dell') detta della Torre
a Rialto. Questa strada trasse il primo nome dell'osteria mentovata nell'articolo precedente, ed il secondo da un'altra osteria all'insegna della Torre. Nel 1582 un Giacomo Morosini notificò di possedere in «Calle della Torre» a Rialto una casa appigionata a «Vielmo Grigis hosto alla Torre».

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Angelo Emo (Campo).
Vedi S. Biagio.

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Angelo Raffaele (Parrocchia, Campo, Rio, Ponte dell').
Secondo una volgare tradizione, la chiesa dell'Arcangelo Raffaele, «vulgo l'Anzolo», sarebbe stata innalzata nel 416 da Adriana moglie di Genusio Ruteno, signore di Padova, allo scopo di adempiere il voto innalzato al cielo pell'arrivo del marito dal continente devastato dalle barbariche rovine. Consunta dalle fiamme nell'899, nel 1105, ed anche, come vogliono alcuni, nel 1149, ebbe nuove rifabbriche, e consecrazione nel 1193. Da quest'epoca durò incolume per oltre quattro secoli, finché, minacciando rovina, incominciossi a rinnovare dai fondamenti nel 1618 sul modello di Francesco Contin, e venne compiuta circa al 1640. Nel 1735 però si dovette decorarla di nuovo prospetto, per cui nel 1740 ebbe novella consecrazione. Chiusa finalmente ai nostri tempi per grandioso ristauro venne riaperta nel 1862. Vedi: Scoffo, «Cenni storici sulla Chiesa e Parrocchia di San Raffaele Arcangelo di Venezia. Venezia, Clementi, MDCCCLXII».

In «Campo dell'Angelo Raffaele» havvi una «vera» di pozzo coll'anno 1349, e col nome di «Marco Arian». Crede il Selvatico che questi ne fosse l'architetto, ma noi crediamo invece che Marco Arian l'abbia soltanto ordinata, e ciò quando era «Capo Contrada» dell'Angelo Raffaele, la quale di lui carica verrebbe indicata dalle parole: «major S. Raphaelis» leggibili sopra la tomba ch'egli si preparò nel 1345 in chiesa dei Carmini.

In parrocchia dell'Angelo Raffaele testò il 10 gennaio 1555 m. v. in atti Vittore Maffei, Livio Podocataro, arcivescovo di Nicosia, ed il giorno 19 seguente morì nella parrocchia medesima.

Raccontano i «Commemoriali» del Gradenigo (ms. al Civico Museo) che nel secolo XVII vivevano in contrada dell'Angelo Raffaele due maestre di merletti per nome Lucrezia... e Vittoria Torre, le quali fecero un collare di capelli canuti, che fu pagato 250 ungheri, e servì al re di Francia Luigi XIV nel solenne giorno della sua incoronazione.

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Anguria (Ponte e Corte della)
a S. Cassiano. La Descrizione della Contrada di S. Cassiano del 1661 chiama queste località «delle Squazze», e ciò per uno de' soliti depositi di spazzature, che era posto presso il Ponte, alla riva del Campo. V. Scoazzera (Campiello della). La Descrizione però del 1713 le chiama in quella vece «dell'Anguria», né il Gallicciolli sa spiegarcene il motivo. Noi crediamo che ciò avvenisse per una locanda all'insegna dell'Anguria, la quale appunto fra l'anno 1661 e l'anno 1713 troviamo aperta in parrocchia di S. Cassiano. E valga il vero, fra i testimoni citati nel 1685 all'Ufficio dell'«Avogaria», nel processo instituitosi per l'approvazione del matrimonio avvenuto fra il N. U. Nicolò Zane e Cecilia Greghetto, figura «Aless. Anselmi Padovano q. Dionisio, habita alla camera locante dell'Anguria a S. Cassan».

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Annunziata (Calle della)
a S. Francesco della Vigna. Vorrebbe il Berlan, nelle Illustrazioni alla «Planimetria» di Venezia dei fratelli Combatti, che si denominasse da qualche altarino rappresentante la B. V. nell'atto di ricevere dall'Angelo l'annunzio del concepimento divino. Siccome però questa località nelle meno recenti topografie è detta «Calle della Nunziatura», e giace infatti dietro il palazzo ove abitavano i Nunzii Apostolici, si vede chiaro che «Calle dell'Annunziata» non è che una corruzione del nome primitivo. Il suddetto palazzo, di stile lombardesco, venne eretto nel 1525, millesimo scolpito sopra i pilastri della facciata, dal celebre doge Andrea Gritti, che fu sepolto nella chiesa di S. Francesco della Vigna. Perciò al millesimo scorgesi unita l'arma dei Gritti, coperta da un ombrello ducale. La fabbrica nel 1585 venne comperata dalla Repubblica, e quindi donata al pontefice Sisto V, che la destinò a residenza dei proprii ambasciatori. Di essa parla lo Stringa nelle «Addizioni» al Sansovino, ove si tocca dei palazzi posseduti dai Gritti: «Dei quali», egli dice, «a S. Francesco ve n'è un altro che fu del principe Gritti, il quale, comprato dalla Signoria sotto il doge Nicolò da Ponte, ne fece libero dono ai legati del sommo pontefice; il che chiaramente è dimostrato dalle infrascritte parole fatte nuovamente intagliare sopra la porta maestra di questo palazzo da Offredo Offredi vescovo di Molfetta, al presente legato di molto valore presso questi signori per nome della Santità di Nostro S. Papa Clemente Ottavo, la cui arma, ovvero insegna, fatta por sopra del medesimo in viva pietra, e nel mezzo di due altre simili, che sono dei due suoi nepoti cardinali, cioè Aldobrandini, e S. Giorgio, viverà in eterno. Le predette parole adunque sono di questo tenore: Has Aedes Sixto V. Pont. Max. Dono Respub. Serenis. Dedit Grata Renovatur Memoria Clemente VIII Pont. Optimo Regnante». Il palazzo Apostolico ebbe varii ristauri ed adornamenti dai varii legati, fra i quali dal suddetto Offredo Offredi, da Giacomo Altoviti, e finalmente da Francesco Caraffa. E' da ricordarsi che, avendo in questo palazzo cercato un rifugio nel 1607 gli assassini di fra' Paolo Sarpi, vi bollì intorno grave sollevazione popolare, per cui si dovettero spedire guardie a salvezza del legato Berlingerio Gessi. E' da ricordarsi ancora che, quando qui risiedeva l'Altoviti, un fiero turbine, il 9 agosto 1659, strappò dal portone lo scudo dei Chigi coll'insegna di papa Alessandro VII, trasportandola, a forza di vento, in Arsenale. In tempi più vicini papa Gregorio XVII concesse il palazzo medesimo ad uso dei Minori Osservanti, che l'unirono, mediante un cavalcavia, al locale un tempo occupato dalle Terziarie Francescane. Ma nel 1866 venne ceduto allo Stato, ed ora è sede del Tribunale Militare.

Annunziata (Sottoportico, Corte della)
a S. Maria Formosa. Qui forse esisteva un antico altarino, o «capitello», dove veneravasi Maria sotto il titolo dell'Annunziazione. E' noto che i Veneziani nutrirono sempre speciale riverenza verso Maria Annunziata, per la qual causa avevano statuito di celebrare ai 25 di marzo, giorno a lei sacro, la festa della fondazione della città, ed incominciare l'anno dal giorno medesimo, sebbene i posteri, per maggior comodo, lo incominciassero in seguito dalle calende di marzo, e questo sia veramente l'inizio dell'anno «more Veneto». Ai 25 di marzo, adunque, il doge con gran pompa scendeva alla chiesa di S. Marco per assistere alla messa solenne. Anche in altre chiese si solennizzava tale festività, e principalmente in chiesa di S. Maria Formosa, alla qual parrocchia erano un tempo soggetti il Sottoportico e la Corte di cui parliamo. Anzi si sa che ciò avveniva per cura d'una confraternita di sacerdoti, che in quella chiesa sorse nel 1562 sotto il titolo dell'Annunziata. Vedi l'opuscolo intitolato: «Matricula sive Constitutiones R. Confraternitatis Sacerdotum in ecclesia S. Mariae Formosae Venetiarum sub titulo Annunciationis B. V. Mariae. Venetiis, apud Jo. Franciscum Valvasensem, MDCLXXXI».

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Antonio Foscarini (Rio Terrà).
Vedi S. Agnese.

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Aquila nera (Calle della)
a S. Bartolammeo. Secondo la Descrizione della Contrada di S. Bartolammeo pel 1661, in «Corte dell'Aquila Nera» stanziava «Bernardo Gerin alemano hosto all'Aquila Negra». La Descrizione della contrada medesima fatta nel 1713 lo chiama invece «Gheringh», e fa vedere che allora i di lui figli conducevano l'osteria. Essa però era molto più antica, poiché i necrologi del Magistrato alla Sanità registrano che il dodici luglio 1550, morì in parrocchia di S. Bartolammeo «el camerier dell'Aquila Negra».

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Arco (Calle, Ponte, Calle al Ponte dell')
a S. Antonino. Il «Ponte dell'Arco» avrà preso questa denominazione, dice il Dezan, perché in questi contorni sarà stato il primo edificato di pietra e ad arco, a differenza dei ponti che s'usavano nei tempi antichi fatti di legno, e quasi interamenti distesi per comodo del cavalcare.

Arco (Calle dell') detta Bon
in «Ruga Giuffa». Da un arco che l'attraversa. Questa circostanza impose il nome anche alla «Calle» ed al «Ramo dell'Arco» a S. Matteo di Rialto. Notisi che tali archi bene spesso si costruivano per indicare che le case, sì da un lato che dall'altro, erano di un medesimo proprietario.

La «Calle dell'Arco», in «Ruga Giuffa», è detta «Bon», perché qui nel 1713, e nel 1740 abitava il «N. U. G. Bon», pagando pigione al «N. U. Marin Zorzi». Crediamo che la famiglia Bon tenesse domicilio precisamente nel palazzo posto in fondo alla stessa calle, ricco di sculture e di marmi orientali. Erra però il Zanotto, nell'opera «Venezia e le sue Lagune», credendo che questo stabile abbia appartenuto anticamente ai Priuli, mentre fino ab antico fu dei Zorzi, come indica il loro stemma scolpito due volte sulla facciata respiciente il rivo di S. Severo, ed una volta sopra l'arco all'ingresso della via. Inoltre, il padre Coronelli («Singolarità di Venezia») dopo averci offerto inciso il palazzo Zorzi, di stile lombardesco, situato al «Ponte di S. Severo», ci offre l'attiguo di cui parliamo di stile archiacuto, sotto il nome di «altro palazzo Zorzi a S. Severo».

Della famiglia Bon toccheremo più innanzi. Vedi Bon (Ramo Secondo).

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Arco celeste (Sottoportico dell')
presso le «Procuratie Vecchie», a S. Marco. Qui, come molti ricordano, esisteva un Caffè all'insegna dell'«Arco Celeste», laonde nell'«Iconografia» di Venezia del Paganuzzi la località è chiamata «Sottoportico del Caffè dell'Arco Celeste».

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Ariani (Calle).
Vedi Briani all'Angelo Raffaele.

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Armeni (Calle, Ramo degli)
a S. Giuliano. La nazione Armena, stabilitasi in Venezia per ragioni commerciali, ebbe fino dal 1253 una casa in parrocchia di S. Giuliano, donatale da Marco Ziani, figlio del doge Pietro, ed affidata, per ogni occorrente ristauro, ai Procuratori di S. Marco. Crebbero i favori della Repubblica verso questa nazione specialmente nel secolo XV, dopo l'ambasciata di Caterino Zen ad Ussun Cassan re di Persia e signore di Armenia. Mentre lo Zeno era alla sua ambasciata, gli Armeni edificarono nel 1496 presso il loro ospizio di S. Giuliano anche una chiesetta, dedicata alla Croce, che nel 1682 presero a rifabbricare in più ampia forma a spese di Gregorio di Girach di Mirman, e andò compiuta e consecrata nel giorno 29 dicembre 1688. Altra rifabbrica ebbe nel 1703. Essa nell'anno medesimo fu posta sotto la sorveglianza dei Procuratori di «Citra», che ogni anno la visitavano nel giorno dell'Invenzione della Croce, ed è tuttora officiata dai Mechitaristi di S. Lazzaro con rito orientale. Gli Armeni avevano i loro sepolcri nell'isola di S. Giorgio Maggiore fra la chiesa ed il campanile.

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Arnaldi (Ramo)
a S. Pantaleone. Gli Arnaldi sono originarii di Vicenza, ove fino dal 1240 ebbero un Guidolino, fatto morire per ordine del tiranno Ezzelino, ed ove, fino dal 1541, appartenevano al consiglio nobile della città. Un Fabio Arnaldi venne creato dal pontefice Gregorio XV, mediante breve 15 giugno 1625, Conte Palatino e del Sacro Palazzo Lateranense. Un Vincenzo Arnaldi, avendo offerto alla Repubblica 100 mila ducati per la guerra contro il Turco, poté coi nipoti e discendenti farsi eleggere del M. C. nel 1686. Egli, nella supplica per ottenere tal grazia, espose che alcuni de' suoi progenitori erano stati impiegati dai Veneziani come condottieri d'arme, e fece risaltare i meriti del proprio zio Vincenzo, cavaliere di Malta, e del proprio nipote Alessandro, decorato della medesima croce, che aveva combattuto contro gl'infedeli in Ungheria. Gli Arnaldi fino al cadere della Repubblica abitarono nel loro palazzo di S. Pantaleone («Libri d'Oro»), in fianco del quale è il «Ramo Arnaldi».

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Arrigoni (Calle)
a S. Alvise, sopra la «Fondamenta Rio della Sensa». Dalla cittadinesca famiglia Arrigoni. «Onorio Abate e G. B. fratelli Arrigoni» notificarono, in occasione della Redecima ordinata nel 1711, d'abitare «in casa propria in Rio della Sensa». Questa casa, «in due soleri», era passata nei suddetti fratelli da «Z. Battista Milan q. Antonio q. Milan», mediante scrittura privata 5 maggio 1695. L'abate Onorio Arrigoni, morto in questo suo palazzo il 20 Marzo 1758, fu celebre raccoglitore d'antichità e di medaglie, una collezione delle quali abbiamo pubblicata per le stampe. Questa famiglia possedeva altre case in Venezia, e beni in villa di Mansuè sotto Oderzo.

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Arsenale (Ponte, Fondamenta, Rio, Ponte, Fondamenta, Ramo, Campo, Calle al Campo dell', Fondamenta di fronte all')
a S. Martino. Alcuni derivano il vocabolo «Arsenale» (in Dante «arzanà») da «arginato», ossia luogo chiuso da argini. Il Sansovino da «arx Senatus» (rocca o fortezza del Senato). Il Ducange da «ars», che in bassa latinità vuol dire «macchina». Il Gallicciolli da «harras», che presso gli Orientali significa «facitura d'istrumenti fabbrili». Il Muratori, con più verità di tutti, da «darsena», parola d'origine araba, che indica il luogo ove si fabbricano e si custodiscono le navi.

Il nostro Arsenale venne fondato intorno al 1104, sotto il doge Ordelafo Falier, ma acquistò miglior forma, ed ebbe la prima aggiunta nel 1303, ovvero 1304, quando, sul modello, come pare, d'Andrea Pisano, vi si costrussero nuovi cantieri, nonchè la «Tana» o «Casa del Cànevo», rifatta poscia nel 1579 da Antonio Da Ponte. Ottenne una seconda aggiunta nel 1325 («Arsenale Nuovo»), una terza nel 1473 («Arsenale Nuovissimo»), una quarta poco prima del 1539 («Riparto delle Galeazze»), ed una quinta nel 1564 («Canale delle Galeazze e Vasca»). Altre aggiunte seguirono nel 1810 coll'aggregamento della chiesa e del monastero della Celestia, allora soppressi, ed altre ancora nel 1820 e 1828, benché queste di pochissimo rilievo. Il complesso dei suddetti riparti è protetto da turrite mura, costituenti un recinto di circa due miglia geografiche.

L'ingresso dell'Arsenale è chiuso da una barriera avanzata, costrutta nel 1682, con otto statue sormontanti i pilastrini, le quali figurano deità pagane, opere di F. Cabianca e di G. Comino, e con quattro leoni all'intorno di marmo pentelico, portati a Venezia dall'Attica nel 1687, a merito di Francesco Morosini detto il Peloponnesiaco. La porta, eretta nel 1460 sul disegno, per quanto pare, di frate Giocondo, coll'insegna di S. Marco nell'attico, fu decorata nel 1571 dalle figure in alto rilievo ai fianchi, e nel 1578 dalla statua di S. Giustina sulla sommità, scolpita dal Campagna in memoria del trionfo alle Curzolari. Venne poi convertita nel 1688 quasi ad arco trionfale, con emblemi e trofei guerreschi, in onore del Peloponnesiaco.

Il nostro Arsenale patì varii incendii, il più terribile dei quali fu quello che avvenne poco prima la guerra di Cambrai, quasi presagio dei mali sovrastanti allora alla Repubblica. Ad altro grave incendio soggiacque nel 1569. Non pertanto, osserva il Berlan, in quel tempo era tanta la floridezza della Veneta potenza, che un anno dopo da quel medesimo Arsenale usciva la flotta che distruggeva le forze navali dei Turchi nel golfo di Lepanto.

Il governo dell'Arsenale era affidato, fino dai primordi, a tre patrizi chiamati «Provveditori» o «Patroni all'Arsenal», ai quali nel 1490 s'aggiunsero dal Senato due individui del proprio corpo, e nel 1498 un terzo, col titolo di «Sopra Provveditori all'Arsenal». Per le mansioni affidate a queste due magistrature, e per le leggi all'Arsenale riguardanti, vedi principalmente il Tentori («Saggio sulla Storia Civile ecc. della Repubblica di Venezia»).

In «Campo dell'Arsenale» scorgesi un pilo di bronzo che sostiene lo stendardo, e che venne gettato nel 1693 da Gianfrancesco Alberghetti. Questo campo ampliossi nel 1797.

Uno dei due ponti esterni di legno dell'Arsenale, cioè quello che è più prossimo al campo suddetto, chiamasi eziandio «del Paradiso», da un palazzo che era così intitolato, e che, insieme agli altri due «il Purgatorio» e «l'Inferno», prospettanti la «Fondamenta di faccia l'Arsenal», serviva un tempo di residenza ai «Provveditori» o «Patroni all'Arsenal».

Anche la «Fondamenta dell'Arsenal», che sta alla destra di chi s'accinge a venire dalla «Riva degli Schiavoni», ha, col prossimo rivo, l'altro nome «della Madonna», da una chiesetta dedicata alla Vergine, e demolita nel 1809.

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Arzere (Ponte, Rio dell')
alle Terese. Per queste, ed altre consimili denominazioni, vedi S. Marta (Arzere).

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Ascension (Calle, Ramo Primo, Calle Seconda, Ramo Secondo dell')
a S. Marco. La chiesa dell'Ascensione, eretta a spese del comune, si diceva anticamente «S. Maria in capo del Broglio», perché era posta in capo della «Piazza di S. Marco», chiamata, pel terreno erboso, «Brolo» o «Broglio». Da principio venne concessa ai Templari, dai quali nel 1312 passò coll'annesso monastero nelle mani dei Cavalieri Gerosolimitani. Questi nel 1324 vendettero ambidue gli edifici ai Procuratori di S. Marco, che nel 1336 li diedero in affitto ad un frate Molano ed a' suoi compagni. Al mancare di essi, destinossi un rettore alla chiesa, ed il monastero si fece servire più tardi ad uso di albergo coll'insegna della Luna, che esiste tuttavia. Nel 1516 la chiesa venne in potere della Confraternita dello Spirito Santo, detta dell'Ascensione, e nel 1597 fu rifabbricata. Si chiuse nel 1810, e servì a magazzino privato infino al 1824, epoca in cui interamente si distrusse.

Avendo Pietro Orseolo I salpato contro i Narentani nel giorno dell'Ascensione (anno 997), ed acquistato l'Istria e la Dalmazia, fu stabilito che ogni anno, ricorrendo tale festività, si dovesse fare una solenne visita al mare. Quando poi il pontefice Alessandro III, grato pel cortese ospizio e pell'appoggio ottenuto dai Veneziani nelle sue contese col Barbarossa, donò al doge Sebastiano Ziani un anello, come segno del dominio che gli concedeva sopra l'Adriatico, si aggiunse la cerimonia dello sposalizio del mare. Nacque il costume cioè, che, arrivato il doge col bucintoro alla bocca del porto, gettasse in mare un anello, benedetto dal vescovo, con queste parole: «Desponsamus te mare in signum veri perpetuique nostri dominii».

Nel giorno dell'Ascensione incominciava pure la celebre fiera di Venezia. Istituita era la medesima nel 1180 per approfittare dello straordinario concorso di forestieri, che un'indulgenza, concessa dal pontefice Alessandro III a chi di quel tempo avesse visitato la basilica di S. Marco, procurava alla nostra città. Da principio durava otto giorni soltanto, ma, in progresso di tempo, prolungavasi fino a quindici. In questa circostanza solevasi rizzare in «Piazza S. Marco» un apposito recinto di botteghe per disporre in bel modo le merci, avendo ogni arte il proprio posto, come tuttora si scorge da qualche iscrizione del selciato. Il primo degli accennati recinti fu costrutto nel 1307; l'ultimo nel 1776, sopra elegante disegno del Maccaruzzi. Gran numero di compratori e di curiosi accorreva a questa fiera, e vaga mostra vi facevano la mattina le gentili Veneziane col loro nazionale «zendaleto», e di sera uomini e donne in «bauta».

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Aséo (Calle e Ponte dell')
ai SS. Ermagora e Fortunato. Da un'antica fabbrica d'aceto che qui esisteva nei secoli XV e XVI. N'era forse uno dei padroni quel «M.r Anzolo da l'aseo» che, giusta i Necrologi Sanitari, morì per ferite in parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato «adì 13 Zener 1587».

Del «Ponte dell'Aseo» fa cenno Marin Sanudo ne' suoi «Diarii», sotto la data 28 luglio 1499, con le seguenti parole: «E' da saper eri fo ritenuto per il Consejo dei X uno citadin vechio e richo nominato Pasqualin Milani, qual teneva una botega de ojo, et una di tele, et fo per sodomia con un Vincenzo Sabatin, et fo trovato in casa di una meretrice al ponte dil Axeo...»

Nota il Gallicciolli un gran incendio sviluppatosi íl 3 agosto 1725 al ponte medesimo.

Anche a S. Giovanni Grisostomo vi sono delle località pel medesimo motivo così appellate.

Quanto alla «Calle» ed alla «Corte dell'Aseo» a S. Margarita, sembra ch'esse invece abbiano preso il nome da una famiglia Aseo. Infatti la Descrizione della Contrada di S. Margherita pel 1740 dimostra che colà domiciliava «Antonio Aseo» in una casa, presa a pigione nel 1715, delle monache della Celestia. E l'Anagrafi dei Provveditori alla Sanità per l'anno 1761 annovera tra i parrocchiani di S. Margarita un «Isepo Aseo bollador». Nella stessa parrocchia morì il 17 luglio 1775 «Caterina q. Zuane Aseo» d'anni 70.

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Assassini (Rio Terrà, Calle degli)
a S. Benedetto. Il rivo di cui facciamo parola, prima del suo interramento, era attraversato da un ponte detto «degli Assassini», pei frequenti assassinii che vi si commettevano la notte, in tempi assai remoti. Continuando tale disordine, il governo proibì nel 1128 l'uso delle barbe posticce alla greca, solite a portarsi dai malfattori per non essere conosciuti, ed ordinò che nelle strade mal sicure fossero posti ad ardere notte tempo alcuni «cesendeli», o lanterne. Ecco come racconta il fatto un antico cronista: «Ancora sotto questo doxe» (Domenico Michiel) «se usava pur assae barbe postice alla greca, de sorte che veniva fatto de gran male la notte, e massime nelli passi cantonieri, come Calle della Bissa e Ponte dei Sassini, che si trovava molti ammazzati, e non si sapeva da chi fossero stati, perché non si conoscevano i malfattori, et per il dominio furono bandite dette barbe sotto pena della forca che no se le portasse nè di dì, nè di notte, e così si dismesse. Et fu ordinato che per le contrade mal secure fossero posti cesendeli impizadi che ardessero tutta la notte, dove furono poste le belle ancone» (immagini devote). «Et questo tal cargo fu dato alli piovani, e la Signoria pagava le spese».

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Astori (Ramo)
a S. Agostino. «Isabetta Valentini Astori» e «Federigo Valentini q. Zuane», commissarii «del q. Alberto Astori q. Zamaria», domandarono nel 1740 ai X Savii sopra le Decime «che sia dato debito alla ditta di Gio. Maria, Federico, Antonio e Carlo fratelli Astori, q. Alberto, q. Zamaria, di tutte le rendite et intrade di lor ragione». Tra queste, oltre la casa da stazio a S. Apollinare in «Campiello dei Sansoni», ed altre case di Venezia con beni in terra ferma, eravi uno stabile «in due soleri» a S. Agostino, che allora affittavasi. Appare poi dai Registri dell'«Avogaria» che Carlo, uno dei suddetti fratelli, si divise dagli altri dopo aver sposata nel 1751 Cecilia Buffetti, ed abbandonò la casa paterna di S. Apollinare, andando ad abitare lo stabile di S. Agostino, che traslatò in propria ditta il 2 maggio 1754. Colà gli nacquero Alberto, Gio. Maria e Francesco, approvati cittadini originarii il 22 decembre 1755. Uno di essi, cioè Gio. Maria, tradusse in italiano col fratello Alberto gli «Elementi Cronologici di Guglielmo Bevereggio», impressi in Venezia nel 1795. Pubblicò inoltre nell'anno medesimo la «Pratica ed uso di alcune macchine rurali ecc.», nella qual operetta si qualifica nobile di Treviso, e socio di varie accademie. Anche nei traslati di beni del 1800 lo vediamo nominato «nob. Z. Maria Astori q. Carlo». La famiglia Astori aveva tomba in chiesa di S. Apollinare, e teneva aperte per suo conto una bottega di zuccheri e droghe in «Corderia» a Rialto, ed una raffineria di zucchero in «Carampane».

In fondo al «Ramo Astori» fu posta nel 1871 la seguente iscrizione: nel maggio 1804 — qui nacque daniele manin — r.s. ferruzzi pose.

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Astrologo (Corte dell')
a SS. Ermagora e Fortunato. E' detta negli estimi «Corte del Strologo», del quale cognome ebbe esistenza una, e forse più famiglie, in Venezia. Ma qui potrebbe aver abitato anche qualche «strologo», od astrologo, vale a dire qualche mago, od indovino. In questo proposito giova avvertire che, avendo i nostri continua pratica coi popoli d'Oriente per ragioni di commercio, s'imbevvero delle fole astrologiche, elevate al grado di scienza da Francesco Giuntini di Firenze e da Luca Gaurico quando soggiornarono in Venezia. E' celebre quel patrizio Francesco Barozzi, il quale, unendo all'astrologia la magia, aveva l'immaginario potere di far comparire ne' suoi circoli, descritti con un coltello tinto del sangue d'uomo ucciso, qualunque spirito dell'altro mondo, accompagnato dal grazioso corteggio di dragoni, furie e demoni. In Candia egli s'era abbattuto in una erba detta «felice», atta a cangiare ogni più grosso asino nel maggior sapiente del mondo, e sapeva il secreto per cui i zecchini spesi nella sua saccoccia tornassero. Conosceva finalmente l'arte di rendersi invisibile, arte però che nulla gli valse contro gli occhi dei birri, dai quali fu scoperto e catturato, per essere poi condannato a perpetuo carcere dal S. Ufficio, con sentenza 16 ottobre 1587. Al pari di lui acquistossi rinomanza un Francesco Priuli, il quale, immaginandosi d'aver acquistato la virtù di volare, volle farne esperimento spiccando un volo fuori della finestra, e fracassandosi le cosce nella caduta. Né altri astrologhi o maghi mancarono, anche di minor lega e portata, soliti a spacciare le loro ciurmerie specialmente alle credule donnette.

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Avogadro (Ponte)
a S. Maria Formosa. Mette al palazzo Avogadro, ed era un tempo di legno, poiché nella Pianta di Venezia unita ai «Viaggi» del padre Vincenzo Coronelli, pubblicati nel 1697, è qui segnato il «ponte di legno va in Ca' Avogadro». Questa famiglia, che si crede un ramo degli Scaligeri, acquistò il cognome dall'essere stata per molto tempo ne' suoi individui avvocata del Vescovo e della chiesa di Brescia. Avendo un Pietro Avogadro potentemente cooperato alla preservazione di Brescia, assediata dall'armi del Duca di Milano, fu ammesso al Maggior Consiglio coi discendenti nel 1437. Luigi Antonio, di lui figlio, trovossi nel 1495, come condottiere dei Veneziani, alla famosa giornata del Taro contro i Francesi, e poscia, col titolo di Mastro di Campo, all'assedio di Novara. In occasione della lega di Cambrai, egli offerse alla Repubblica 600 fanti pagati a sue spese per anni, ma essendo stato causa che Brescia, occupata dai Francesi, ritornasse sotto il Veneto dominio, ed avendo in seguito i Francesi, alla lor volta, ricuperato la città, venne dai medesimi, nel 1512, fatto decapitare coi figli Pietro e Francesco. Altri della famiglia Avogadro si resero celebri nell'armi, fra i quali ci piace rammentare quel Rizzardo, che fin da giovinetto militò nelle guerre di Germania e di Fiandra, duellò vittoriosamente col colonnello Forgatz, stimato allora il più franco spadaccino tedesco, nel 1632 fu tenente colonnello del generale Piccolomini, e ritrovossi alla famosa battaglia di Lützen, in cui morì il re di Svezia, ed in cui pur egli riportò una grave ferita. Appena guarito ritornò in Italia, ove, come generale, comandò la cavalleria del duca di Parma nella mossa che questi intraprese in favore dei Francesi contro gli Spagnuoli, ma nel 1635, essendo a campo sotto Valenza, colpito di moschetto terminò la gloriosa carriera. Vedi il Capellari Vivaro («Campidoglio Veneto», Classe VII, Codici 15-18 della Marciana).

Leggesi nei «Diarii» del Benigna (Ms. alla Marciana): «4 aprile 1726, alle hore una e 1/2 di notte, il sig. Anzolo Sonzogno si è annegato, et con colpo nella testa, a S. M. Formosa dal Ponte di ca' Avogadro».

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Avogarìa (Ponte, Rio, Ramo, Calle della)
a S. Barnaba. Dalla cittadinesca famiglia Zamberti, soprannominata «dall'Avogaria», perché gli individui della medesima sostennero le principali cariche nell'ufficio dell'«Avogaria di Comun». La cronaca cittadinesca attribuita ad Alessandro Ziliolo, nell'esemplare già posseduto dal Cicogna, ed ora depositato nel Civico Museo, ha queste parole, trattando dei Zamberti: «Le loro case da statio spatiose e comode si vedono in Calle Lunga, a S. Barnaba, appresso il Ponte cognominato dell'Avogaria dalle habitationi contigue di detti Zamberti». Queste case, dopo l'estinzione dei Zamberti, avvenuta nel principio del secolo XVII, passarono per eredità nella famiglia Superchi.

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Avvocati (Calle dei)
a S. Angelo. Per lo passato qui abitavano varii avvocati. Ne può far testimonianza l'elenco dei medesimi che leggesi nello «Specchio d'ordine per tutto il mese di Aprile 1761». Anche Nicandro Jasseo, nel suo poema: «Venetae Urbis Descriptio», così canta, parlando dei campi di S. M. Zobenigo, S. Maurizio, S. Angelo, e strade vicine:

«Hos campos persaepe tenent, callesque propinquos,
Sole petente undas, qui jurgia dira frequentant;
Inveniunt hic quos sparsim elegere patronos,
Et statuunt quid mane novo det jungere casus».

Sotto poi vi è la nota seguente:
«Hic, vel in propriis, vel aliorum domibus, omnes causarum patronos invenies post meridiem».

Il numero degli avvocati sotto la Repubblica era indeterminato. Dovevano però essere nati nello stato, od aver domiciliato dieci anni almeno colle loro famiglie in Venezia, non aver avuto alcuna condanna per delitti infamanti, essere addottorati nella Università di Padova, e poter provare quattro anni di pratica. Il Maggior Consiglio eleggeva e stipendiava 32 avvocati patrizii perché esercitassero la loro professione in favore dei poveri. Ve n'erano destinati 6 pei «Consigli di Quaranta», 18 pei tribunali di Ia istanza, che si chiamavano «avvocati per le Corti», 6 pegli Uffici di Rialto, e 2 pei prigioni. I nostri avvocati nelle loro arringhe usavano del dialetto nativo, ed aiutati dalla dolcezza ed armonia del medesimo, ci lasciarono splendidi esempi di viva e maschia eloquenza. Tra i più distinti s'ammirarono un Carlo Contarini per la facilità d'esprimersi, e valore nell'epilogare; un Costantini per la maestria nel muovere gli affetti; un Cordellina pel colorito pittoresco; un Cromer pel suo dire spiritoso, persuadente, e culto; uno Stefani pel suo impeto greco; un Gallino, un Alcaini, un Fossati per altri molteplici pregi.

In Calle degli Avvocati si radunava l'Accademia dei Sibillonisti, istituita dal notajo Ruggero Mondini. La raccolta dei «Sibilloni» (ebbe tal nome un certo genere di sonetti), composti da questi accademici nell'occasione del primo blocco di Venezia, leggesi con piacere divulgata per le stampe.

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