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Toponomastica Veneziana - p
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Papafava o Tasca (Fondamenta)
a San Giuliano. Un ramo dei Carraresi, signori di Padova, assunse il cognome di Papafava, riconoscendo a proprio capostipite un Jacopo che combattè nella crociata contro Ezzelino da Romano l'anno 1256, e che, dilettandosi meravigliosamente di mangiar fava, era detto il «Papafava». Il Litta incomincia la famiglia Papafava in Venezia da un Alessandro, lettore di diritto, morto nel 1529. Un Bonifazio, nato nel 1588, e cavaliere dell'ordine del Redentore, venne assunto nel 1652 al Veneto patriziato col nipote Federico e posteri, in premio di rilevante somma sborsata alla Repubblica per la guerra di Candia. Un Giovanni sposò nel 1688 Angela Maria Tasca, discendente da famiglia bergamasca, che attese alla mercatura specialmente di cambellotti, avendo bottega aperta, in Merceria, all'insegna dell'«Albero d'Oro», e che anch'essa era stata ammessa al M. C. nel 1646 per la sua generosità dimostrata allo Stato. Nel 1749 i figli di Giovanni Papafava ereditarono dalla famiglia Tasca un palazzo a S. Giuliano, che quest'ultima aveva comperato fino dal 1644 dalla N. D. Cornelia Formenti-Molin, ma che in origine apparteneva alla famiglia Veggia. Il suddetto palazzo ha dal lato di terra un bell'arco d'ingresso il quale credesi fattura di Guglielmo Bergamasco, e faceva parte del palazzo Tasca a Portogruaro. Bella non meno è la porta del canale, sormontata dall'imagine della B. V. avente la luna sotto i piedi, col seguente verso scolpito inferiormente:

sic veneti portam lunamque hostemque prementi,

verso allusivo alle guerre dei Veneziani coi Turchi, e basato sul doppio senso in cui si possono prendere le parole «porta» e «luna». Ecco perché la prossima Fondamenta si chiama «Papafava» o «Tasca».

Un «Sottoportico Papafava» esiste anche a Santa Caterina, e prese il nome da un prossimo palazzo archiacuto, che era dei Pesaro, ma che poscia fu ereditato dai Papafava pel matrimonio successo nel 1615 di Pesarina Pesaro con Bonifazio Papafava. Di questo palazzo parla una sentenza dei Signori di Notte al Criminale colle parole: «in ca' de Pexaro apud pontem S. Catarinae», sotto la data 9 febbraio 1372 M. V.

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Partido dei vedeli (Sottoportico).
Vedi Vitelli.

Pasqualigo Nicolò (Ponte).
Vedi Nicolò Pasqualigo.

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Passion (Calle della)
ai Frari. Non si sa quando veramente abbia avuto origine la Scuola della Passione. Raccoglievasi da principio a S. Giuliano, e poscia si trasferì in questa località nell'antica scuola dei Mercanti, comperata con istrumento 18 marzo 1572, in atti di Giacomo Manoli. Il fabbricato, che patì un grave incendio il 24 gennaio 1587 M. V. e che rinnovossi nel 1593, non conserva attualmente d'antico che l'architettonica facciata. La Scuola di cui parliamo, quantunque non fosse delle Grandi, godeva nondimeno degli stessi privilegi, stava sotto la protezione del Consiglio dei X, e portavasi processionalmente la sera del Giovedì Santo a visitare la Basilica di S. Marco.

Leggesi nel Codice Cicogna 1714, e precisamente nella «Pallade Veneta dal Sabbato 2 sino al Sabbato 9 gennaro 1723», la seguente notizia: «La mattina del Venerdì scaduto sacrileghi ladri entrarono nella Scuola della Passione ai Frati, e mentre il nonzolo suonava la messa, e preparavasi il sacerdote nella sagrestia, levarono gli empii alcune reliquie di Santi conservate nei vasi d'argento, e partiti inosservati dal sacro luogo, lasciarono con detestabile sprezzo quell'ossa venerate sopra una bottega a S. Giovanni Evangelista».

Passion (Calle della)
in «Casselleria». In questa Calle vi è un altarino, ora chiuso, che rappresentava la Passione di Cristo. Da questa circostanza essa trasse il nome, oppure da stabili appartenenti alla confraternita della Passione, che, come abbiamo detto nell'articolo precedente, prima di trasportarsi ai Frari, fiorì per qualche tempo nella vicina chiesa di S. Giuliano.

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Piazza San Marco.
Vedi S. Marco.

Piere vive.
Vedi Pietre vive.

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Piero da Lièsina (Corte)
a San Giuseppe di Castello. Pietro da Liesina, «patron de nave», notificò nel 1566 ai X Savii tre case a Castello; l'una a San Giuseppe, ove da 25 anni abitava colla propria famiglia composta di dieci persone; l'altra pure a S. Giuseppe; e la terza a S. Antonio. Queste due ultime davansi a pigione.

Pietro da Liesina era veramente di cognome «Fasanich», e scandaloso è il processo derivato dalle dissensioni sorte fra Deodata di lui figlia, monaca a San Giuseppe di Castello, e la priora Cipriana Morosini.

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Pietà (Calle, Corte della)
a San Francesco della Vigna. Essendo nel secolo XIV cresciuto a dismisura in Venezia il mal costume, si vedevano non di rado i frutti degli illegittimi amplessi abbandonati per le pubbliche vie dalla crudeltà dei genitori. Commosso a tale spettacolo fra' Pieruzzo d'Assisi, reduce dalle missioni, prese a pigione l'anno 1346 diciassette case a S. Francesco della Vigna allo scopo di ricettare trovatelli, case le quali posteriormente, per testamento della N. D. Lucrezia Dolfin, passarono in proprietà dell'istituto. Da bel principio i trovatelli tutti, sì maschi che femmine, vennero affidati alle cure d'una confraternita di divoti della chiesa di San Francesco, ma poscia si assoggettarono le femmine alle Matrone dell'Umiltà, istituitesi appositamente nella vicina chiesa della Celestia. Coll'andar del tempo queste ultime rimasero le uniche direttrici dell'ospizio, che ancora per circa due secoli dopo la morte di fra Pieruzzo fiorì nella Corte da noi illustrata, e che fu detto «della Pietà» dal gridare «pietà! pietà!» fatto dal buon frate quando andava questuando di porta in porta per condurre ad effetto la sua santissima intrapresa.

Pietà (Ponte, Calle, Rio della, Ponte e Calle dietro la)
a San Giovanni in Bragora. Fino dal 1348 fra Pieruzzo d'Assisi avea fondato in questa situazione un ospizio figliale a quello di San Francesco della Vigna, da noi mentovato nell'articolo precedente. Dopo la di lui morte, successa nel 1353, ambidue gli ospizi vennero sottoposti al jus patronato Ducale. Questo di San Giovanni in Bragora ottenne un primo ampliamento nel 1388 coll'acquisto d'alcune case vicine; quindi un secondo nel 1493, e successivamente un terzo nel 1515. Qui venne trasportata allora tutta la famiglia degli esposti, crescendo la quale, nuovi ampliamenti successero verso la fine del secolo XVII, nonché sul principio del XVIII a merito della Congregazione del Luogo Pio, subentrata nella direzione dello stabilimento alle Matrone dell'Umiltà. Finalmente nel 1745 incominciossi a cangiare la piccola chiesa in quella che oggi s'ammira, disegnata da Giorgio Massari, e dedicata alla Visitazione della B. V. («vulgo S. Maria della Pietà»), che fu aperta nel 1760, e della quale oggidì, per iniziativa del dottor Pietro Pastori, medico dell'Istituto, si vorrebbe compire la facciata rimasta interrotta. L'ospizio della Pietà, il cui fabbricato fu nel 1791, ed anche in tempi a noi più vicini, ristaurato, esente da pagamento di decime, e sovvenuto di legne, di farine, e di largizioni infinite sì pubbliche che private, avevasi assicurato una rendita di quasi 300 mila ducati. Anche adesso si può dire in non dispregevole stato. Fra le altre discipline erudiva le femmine nella musica vocale ed istrumentale, in cui altre volte giungevano ad invidiata rinomanza.

Sembra che il «Ponte della Pietà» sia stato eretto per la prima volta nel 1333, trovandosi nel libro «Brutus» il seguente decreto: «1333, 28 Novembrio. Zachariae moniales fabricent pontem inter eas et S. Johannem Bragoram». Questo ponte era un tempo chiamato più frequentemente «della Madonna», mentre dicevasi «della Pietà», o di «ca' Navager», l'altro ora detto «del Sepolcro». Vedi Sepolcro (Ponte del).

Il «Ponte dietro la Pietà» s'appella anche volgarmente «Ponte dei Becchi» pei caproni, i quali solevano un tempo sbarcarsi a questa riva, oppure, secondo altri, solevano pascere l'erba in questa situazione quando nei tempi antichi varii «strati erbiferi» stendevansi in mezzo alla nostra città. Vedi Erbe (Campazzo delle).

In fondo alla «Calle della Pietà», nella casa che oggi porta il N. A. 3651, abitava e teneva studio Alessandro Vittoria. Troviamo ch'egli, con istrumento 28 febbraio 1569 M. V., in atti Pier Maria di Lorenzo N. V. comperò all'incanto «dai governatori dell'Intrade» un «magazen da malvasia con casa sovraposta, altra casetta, et orto» in parrocchia di S. Giovanni in Bragora, «in la Calle della Pietà». Questi stabili appartenevano anteriormente alla N. D. Elisabetta Memmo, ed erano stati messi all'incanto per debiti di pubbliche gravezze. Troviamo pure che il Vittoria rifabbricò la casa, incorporandovi la casetta «come mezzado».

Il piano terreno della medesima continuò a servire ad uso di «malvasia» fino a questi ultimi anni, e dietro verdeggia tuttora l'orto che il Vittoria compiacevasi di coltivare colle proprie mani, ed ove scorgevasi il di lui busto, che dall'artista medesimo venne scolpito, e che, dopo l'anno 1832, venne venduto al re di Prussia. Fu in questa casa che il sommo scultore testò il 4 maggio 1608 in atti di Fabrizio Beaziano, chiamandosi «Alessandro Vittoria Dalla Volpe fu di Vigilio Trentino». Voleva colla suddetta disposizione testamentaria essere sepolto nella chiesa di S. Zaccaria nell'arca comperata l'anno 1602 da quelle monache. Ordinava che fossero venduti i suoi mobili, e che il ricavato andasse diviso fra i suoi nipoti Doralice e Vigilio, ai quali lasciava pure l'usufrutto della sua casa, che dopo la loro morte doveva passare nella sua commissaria, da lui incaricata d'alcune opere di beneficenza. Legava all'imperatore Rodolfo «il ritratto nello specchio tondo di Francesco Parmeggiano», che aveva comperato «nel 1560 dall'architetto Palladio»; legava «alla Serenissima Signoria il ritratto del doge Sebastiano Venier in marmo»; finalmente alle monache di San Zaccaria «i ritratti di S. Giovanni Battista e di S. Zaccaria», anch'essi di marmo. Il testamento del Vittoria venne pubblicato il 27 maggio 1608, avendo egli in quella giornata pagato il comune tributo alla natura, il che si scorge dalla seguente annotazione mortuaria: «Adì 27 Maggio 1608. Il Mag.co m. Aless.o Vittoria scultor de anni 83 da vecchiezza, et debolezza di stomaco giorni 20 - S. G. in Bragora». Alessandro Vittoria fu sepolto, come aveva disposto, nella chiesa di S. Zaccaria, ove i suoi commissarii gli eressero presso la sacrestia un elegante deposito, ornato dal di lui busto, e da due figure rappresentanti la Scultura e l'Architettura, ch'egli medesimo aveva lavorato.

Pietà (Calle della)
in «Birri», a San Canciano. Da case possedute dall'Ospizio della Pietà (Descrizione della contrada di San Canciano pel 1661). Esse erano in numero di sedici, e l'ospizio le avea fatte passare in suo nome il 9 aprile 1598 «metà da Zaccaria Gabriel q. Nicolò, e metà da Nicolò Gabriel q. Marco, q. Nicolò, giusta l'oblation fatta all'off. del p.r dai nobili predetti come residuarii del residuo del q. Benedetto Gabriel, fatta sotto 12 Agosto 1523».

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Pietre vive (Calle delle)
o Bògnolo in «Frezzeria». Si può credere che la prima denominazione, molto antica, abbia avuto origine da qualche deposito di pietre vive. «Bognolo» è cognome di famiglia. Un Domenico Michiel notificò nel 1740 d'appigionare una casa in parrocchia di San Moisè, e precisamente in «Calle delle Pietre Vive», ad un Lorenzo Bognolo. Anche il 5 decembre 1775 fu citato all'«Avogaria», qual testimonio, «Alessandro Bognolo q. Bortolo fruttarol in Frezzeria; abita in detto luoco». I Bognolo, ancora alcuni anni fa, conducevano la bottega da fruttaiuolo, che trovavasi aperta all'ingresso della «Calle delle Piere Vive, o Bognolo».

Pietro da Liesina.
Vedi Piero.

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Pin (Ramo Calle del)
a S. Cassiano. La famiglia Pin, o dal Pino, venne da Caorle, ed era del Consiglio fino dal 1652. Produsse nel 1186 un Domenico, pievan di S. Cassiano, e nel 1235 un Pietro vescovo d'Olivolo o Castello. Leggesi poi che nel 1379 un Nicolò, ed un Pietro dal Pin da S. Cassiano sovvennero con prestiti lo Stato. Questa famiglia, che mancò al patriziato verso la fine del secolo XIV, continuò per la lunga serie d'anni ad abitare in parrocchia di S. Cassiano, poiché Giacomo, figlio di Tommaso Pin e di Regina Raspi, che nel 25 agosto 1633 venne approvato cittadino originario, era stato nel 1617 battezzato in S. Cassiano, e Tommaso, di lui padre, soltanto il 27 febbraio 1632 M. V. notificò d'aver appigionato altrui la casa che teneva per uso nella medesima parrocchia.

Pin (Sottoportico e Calle del)
o della Scrimia a San Cassiano. Per la prima denominazione vedi l'articolo precedente. Quanto alla seconda, giova ricordare che qui nel secolo passato esisteva una scuola di «scrimia», o scherma. La Descrizione della contrada di S. Cassiano pel 1713 pone in «Calle della Scrimia», presso la «Calle dei Botteri», una «scuola di Scrimia», e nota che lo stabile era del «N. U. Agostino Barbarigo».

Con tutta probabilità, al maestro di questa scuola di scherma si riferiscono i cenni seguenti, trovati in un codice dal Cicogna, e riportati nelle sue «Inscrizioni»: «17... Giacomo Borgoloco veneziano, maestro di Scherma. Egli uccise un fornaro nel campo di San Giaco. dall'Orio a propria difesa. Fu perciò bandito, ed andò a Vienna, dove Leopoldo imperatore lo fece maestro degli esercizii d'armi di Giuseppe e Carlo suoi figliuoli, e della di lui Corte. Ivi era un Giambattista suo maestro, che, a richiesta delli suddetti figli di Cesare, si battè seco col fioretto, ma vincendo Giacomo, il vecchio precettore sdegnato lo sfidò colla spada di punta. Riflettendo però con onorati sentimenti il Veneziano di non essere suo dovere di entrare in duello con chi gl'insegnò assai bene la professione, partì subito da Vienna, e ritornò in patria, stando ritirato nella casa dei nobili Ser Luigi e Ser Sebastiano Foscari, dove, ricorrendo agli amici, gli sortì di fare la somma di settecento ducati, cinquecento de quali impiegò in tanti uomini da servire l'armata, giacché allora erano richiamati i banditi col mezzo d'esborso. Reso che fu in libertà, andò ad abitare nella contrada di S. Simeon Grande, e nella Calle dei Botteri a S. Cassiano aperse gran scuola di spada dove intervenivano primari soggetti, ecc. ecc.».

Pio X (Salizzada)
a S. Bartolomeo.

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Piovan (Calle del)
o Gritti a S. Maria Zobenigo. Qui è domiciliato il pievano della chiesa di S. Maria del Giglio («vulgo Zobenigo»). In fondo a questa strada sorge un palazzo, che apparteneva un tempo alla patrizia famiglia Gritti, dalla quale, quantunque da un ramo diverso, discende l'attuale pievano Mons. Stefano Gritti.

Piovan (Campiello del)
o della Scoazzera a Santa Marina. Pel primo nome vedi Piovan (Calle ecc. del). Pel secondo Scoazzera (Campiello ecc. della).

Piovan (Ponte del)
detto del Volto a S. Maria Nuova. Vedi Piovan (Calle ecc. del) e Volto (Calle del).

Piovàn (Calle, Fondamenta del)
a S. Martino. Tale denominazione incontrasi spesse volte in Venezia, e sempre dipende dalle case ove risiedono, oppure risiedevano un tempo, i pievani delle contrade. Nelle età rimote i nostri parroci nominavansi vicarii, poscia furono detti rettori, e finalmente pievani. Da principio essi talvolta non erano sacerdoti, venendo ammessi al governo delle chiese i diaconi, ed anche altri inferiori ministri. In tal caso regolavano l'economia delle chiese, istruivano, ordinavano le funzioni, e quel che dipendeva dal carattere sacerdotale o non facevasi nelle loro pievi, o lo facevano i sacerdoti incardinati. I pievani anticamente venivano eletti dai fondatori delle chiese, e dai discendenti di questi, ma in seguito tale diritto fu lasciato ai parrocchiani. Troviamo che, fino dalla metà del secolo XII, i parrocchiani proponevano, il clero sceglieva, ed il vescovo confermava i pastori delle anime. Appare poi dai documenti raccolti dallo Scomparin, che dall'anno 1419 al 1432 l'elezione dei titolati e dei pievani fu fatta in varii casi dai soli capitoli delle collegiate. Talvolta la fece il solo pontefice, talvolta il clero la rimise spontaneamente al vescovo od al patriarca, e talvolta il vescovo od il patriarca elessero per diritto di devoluzione, avendo gli elettori trascurato di adempiere il loro ufficio nel tempo stabilito dai sacri canoni. Nelle chiese poi che non erano collegiate i pievani dovevano sempre essere eletti dal vescovo, il che in seguito cadde in disuso. Allorché poi, circa il 1432, i parrocchiani cominciarono a prendere parte attiva nelle elezioni, essi a tale effetto radunavansi in un luogo stabilito, e colà eleggevano o per voci, o per ballottazioni. Seguiva poscia l'esame dell'eletto, quindi la conferma del patriarca, o del nunzio del papa medesimo, e finalmente la partecipazione al principe. Notisi però che tale ultima formalità non s'introdusse subito, ma col volgere progressivo dei tempi.

Sulla «Fondamenta del Piovan» a S. Martino scorgevasi un bassorilievo lombardesco, rappresentante S. Martino a cavallo coll'anno 1468, e cogli stemmi del pontefice Paolo II Barbo, e del pievano Antonio De Lauro, o de Lauri. Questo bassorilievo ora è nel Civico Museo.

Altro bassorilievo consimile, rappresentante anch'esso S. Martino a cavallo, scorgesi sopra una porta in fondo alla «Calle del Piovan», con iscrizione donde s'impara essere stato il medesimo nel 1816 ristaurato a merito del pievano Giovanni Maurizj.

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Pisani (Campo)
a San Stefano. Ignorasi l'architetto del palazzo Pisani qui posto. Si crede incominciato dopo la metà del secolo XVI, e posteriormente finito. In esso il N. U. Alvise Pisani diede il 7 maggio 1784 una splendida festa di ballo a S. M. il re di Svezia, venuto a visitare Venezia. In esso alloggiò nel 1806 il vicerè d'Italia Eugenio, e nel 1807 il re di Baviera. In esso pure il 20 marzo 1835 si uccise per amorosa passione l'illustre pittore francese Leopoldo Robert.

Sotto la Repubblica, la libreria Pisani a S. Stefano era aperta il mercoledì e venerdì d'ogni settimana al pubblico.

I Pisani, il nome dei quali si legge sopra altre vie della città, discesero dai conti Bassi di Pisa, e per tempissimo venuti fra noi, ebbero a far parte del Consiglio. Primarie cariche della chiesa, e dignità civili decorarono questa famiglia, che produsse pure un doge per nome Alvise, eletto nel 1735. Ogni di lei fasto però impallidisce e vien meno innanzi la memoria che di sé lasciò nei posteri Vettore Pisani. Il Berlan, parlando della cappella in chiesa di S. Antonio, ove egli era sepolto, ne fece il seguente elogio: «Quest'uomo, che i suoi contemporanei soverchiò nell'amore della patria, nel valore e nell'arte della guerra, e fu superiore alla fortuna prospera ed avversa, molte luminose pruove di sé diede alla Repubblica, e molti trionfi le aggiunse. Ma la sua virtù brillò specialmente nell'occasione che i Genovesi occuparono Chioggia. Per non averli potuti superare a Pola, egli era stato posto in ferri, processato, e condannato a perdere la vita: ma, statagli tramutata la pena a sei mesi di prigionia, se ne giaceva in carcere da cinquantadue giorni. Né della sconfitta toccata a' Veneziani era sua la colpa, ma del suo consiglio di guerra che, accusando di viltà la sua prudenza, avealo costretto ad incontrar la battaglia. Il pericolo della città, Chioggia in mano del nemico, i nemici vicini, pochissima fiducia in Taddeo Giustinian, a cui male si obbediva, il desiderio del popolo, la conoscenza del suo preclaro merito ricondussero Vettore al comando. Acclamato ammiraglio e vicecapitano generale, così valorosamente combatté sotto Chioggia e Brondolo, che gli riuscì a snidare i nemici da Brondolo, e ricuperare per capitolazione Chioggia. E prese Capodistria ed altri luoghi. Ma nel mentre egli s'accingeva a dar la caccia al nemico fino alla riviera stessa di Genova, e tale riportarne vittoria da togliere ai Genovesi il modo di potersi rimettere all'offesa, fu colto da morte pressoché improvvisa in Manfredonia il giorno 14 d'agosto dell'anno 1380, d'anni 56. Il cadavere fu trasportato a Venezia, e tumulato in questa chiesa di S. Antonio, a mano manca del maggior altare, dove gli fu eretta una statua, e posta un'iscrizione. E nell'iscrizione la Repubblica permetteva si leggesse: Hunc Patria Claudit. At Ille Egreditur Clausam Reserans. Distrutta la chiesa di S. Antonio, le ceneri di Vettore furono raccolte dal veneto patrizio Pietro Pisani, che le depose in un suo oratorio a Montagnana».

Pisani (Calle)
a S. Simeon Grande. Vedi Pugliese.

Pisani e Barbarigo (Ramo)
a S. Tomà. E' prossimo ai due palazzi Pisani Moretta, e Barbarigo dalla Terrazza. Il primo appare costrutto nelle forme usate nei primordii del secolo XV, e nel 1742 ebbe un ampliamento. Chiamossi Pisani-Moretta perché la linea dei Pisani proprietaria, estintasi nel 1874, contava a suo capostipite nel 1420 un «Almorò», e, per corruzione, «Almoretto», o «Moretto».

Secondo il «Novellista Veneto» pel 1775, facendosi in quell'anno per tre giorni grandi festività in causa dell'elezione a procuratore di S. Marco di Pietro Vettor Pisani, e stando in «Canal Grande» sotto i balconi del surriferito palazzo una «peata», ove abbruciavansi i fuochi artificiali, cadde una sera un barile di catrame acceso sopra una gondola vicina, che rimase infranta, ed affondata con pericolo di chi v'era dentro. Il giorno poi successivo precipitò, pel soverchio concorso di popolo, una delle due bande del ponte prossimo al palazzo per via di terra, strascinandosi dietro molte persone, alcune delle quali rimasero offese. Due battelli eziandio che erano sotto vennero fracassati.

Il palazzo Barbarigo sorse, come attesta il Cicogna, che esaminò i registri, nel 1569 sul disegno di Bernardino Contin. L'aggiunto «dalla Terrazza» dipende da un magnifico terrazzo respiciente il «Canal Grande» con balaustrate e colonnelle all'intorno. Se il palazzo Pisani Moretta era celebre pel dipinto di Paolo Veronese, raffigurante la famiglia di Dario a' piedi d'Alessandro, il palazzo Barbarigo dalla Terrazza spiccava per la celebre pinacoteca, l'uno e l'altra passati in terra straniera. Il continuatore del Berlan, dopo aver parlato del secondo palazzo, così scrive: «Gloria d'illustri case magnatizie era la pinacoteca, preziosa, celebre, e ricca specialmente di classici pittori veneziani, fra i quali venti dipinti di Tiziano, e la bellissima Maddalena. Giunsero tempi nefasti! Il forestiere non approderà più a queste rive ad ammirare cotanti capolavori, se l'involarono a questi anni le nevose regioni del Norte. E noi ne lamenteremo sempre e sempre la perdita, serbandone almeno la memoria nel libro: Insigne Pinacoteca Barbarigo descritta ed illustrata da Gian Carlo Bevilacqua. Venezia, 1845».

Per la famiglia Pisani vedi Pisani (Campo), e per la famiglia Barbarigo vedi Duodo o Barbarigo (Fondamenta).

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Piscina o Pedrocchi (Calle)
a Castello. Per la prima appellazione vedi l'articolo antecedente. La seconda proviene dalla famiglia Pedrocchi, che mercanteggiava in ferramenta. Cominciamo a trovar ricordo di questa famiglia nella nostra città in un Cristoforo che, come si legge nelle «Risposte, ossia Scritture al Senato dei V Savii alla Mercanzia», nacque a Rovetta, territorio bergamasco, il 4 marzo 1661, ed era padrone del naviglio «SS. Rosario e S. Iseppo», costrutto nei cantieri di Castello. Troviamo poscia che la famiglia suddetta comperò il 19 decembre 1685 da «G. B. Battaglia, favro», una «casa e bottega da favro» in parrocchia di S. Pietro di Castello, e che il 1° ottobre 1725, con istrumento in atti di Giacomo Marcello N. V., comperò da «Perina Pisani» quattro case nella medesima parrocchia. Perciò la Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello pel 1740 pone «in bocca del Rio de S. Domenego» varie case, ed una «bottega da chiodi» di «Zuane e frat. Pedrocchi». Questa famiglia aveva tomba a S. Francesco di Paola.

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Pistor (Calle del)
o del Lotto a S. Barnaba. Per la prima denominazione vedi l'articolo antecedente. La seconda che, per non essere antica, non appare negli Estimi, e che nacque soltanto negli ultimi tempi della Repubblica, deriva da una ricevitoria del Lotto, che esisteva in una bottega posta in fianco alla via di cui parliamo, la qual bottega fu poscia volta ad altra destinazione, ma venne negli ultimi anni riaperta ad uso di ricevitoria del pubblico Lotto.

La prima estrazione del Lotto Pubblico in Venezia seguì il 5 aprile 1734. Da principio il giuoco davasi ad appalto, ed hassi memoria che dal 1734 a tutto 1758 si fecero nove estrazioni all'anno; dal 1759 al 1776 dieci, e negli anni seguenti dieci, undici, e talvolta dodici fino alla caduta del veneto governo.

Pistór (Calle e Ponte del)
a San Lio. Appiedi di questo ponte la bottega da prestinaio più non esiste. Esso anticamente era chiamato «di ca' Mocenigo» pel prossimo grandioso palazzo, che in origine apparteneva ai Cavazza, che da Tommaso Cavazza venne legato nel 1461 alla Confraternita della Carità, che da questa fu venduto nel 1487 a Michele Foscari (alla qual famiglia appartiene lo stemma sculto sul pozzo della corte interna), e che finalmente passò in un ramo dei Mocenigo, detto «dalle Perle», «dalle Zogie», oppur «dal Buso», in virtù del matrimonio successo nel 1491 fra Alvise Mocenigo q. Tommaso, e Pellegrina Foscari q. Michiel.

L'arte dei «Pistori», oltre gl'inviamenti sparsi per la città, aveva in Venezia due grandi «panaterie», o luoghi stabiliti per la vendita del pane. L'una giaceva a S. Marco, presso il «Campanile»; l'altra in Rialto, di fianco le «Beccarie». La prima constava di diciannove botteghe; di venticinque la seconda. I «Pistori» negli ultimi tempi della Repubblica erano ascritti alla Scuola degli Albanesi a San Maurizio, come ci fa conoscere un decreto del consiglio dei Dieci, inserito nel «Catastico delle Leggi in materia di Biave». Ne riportiamo il brano seguente: «1780, 5 Settembre. In Consiglio di X. Decreto che abolisce il Sovegno dei Lavoranti pistori in chiesa di San Matteo di Rialto. Tutti gli argenti ed effetti di esso debbano consegnarsi ai capi della scola di S. Maria e San Gallo degli Albanesi nella chiesa di San Mauritio, composta di tutti gli individui dell'Arte dei Pistori, colla loro responsabilità, nella quale non abbiano detti Lavoranti voce alcuna né attiva né passiva. Di tali argenti ed effetti debba formarsi colla loro vendita un capitale intangibile nella Pubblica Zecca, la cui rendita debba servire di qualche compenso all'aggravio che l'Arte suddetta si assume di corrispondere alli Lavoranti nel caso di loro malattia» ecc. ecc. Nel citato Catastico, alle rubriche «Pistori di Venezia», e «Lavoranti Pistori», trovansi varie notizie relative all'arte di cui stiamo parlando.

Altre botteghe da prestinaio denominarono altre vie di Venezia.

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Pompeo Molmenti. (Borgoloco).
Vedi Borgoloco.

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Ponte.
I Ponti, come scrive il Gallicciolli, furono fatti da principio di legno, ed il più dei cronisti ciò nota all'anno 813, appena cioè trasferita la sede ducale in Rialto. Erano costrutti, a un dipresso, come quelli che si vedono in campagna, cioè sopra pali, piani o poco arcuati e senza gradini, affine di poter liberamente cavalcare per tutto. Troviamo nel Zancaruolo che il primo ponte di pietra fu quel «della Paglia», eretto nel 1360. Ma ciò sembra falso poiché il libro «Philipicus» registra in data 1337 dieci giugno: «S. Barnabae pons lapideus struitur». Ed il Sanudo nella vita di Pietro Tradonico, che morì nell'864, dice che fu decretato di far un ponte di pietra vicino ai SS. Filippo e Giacomo. Per antica costumanza, i ponti delle contrade dovevano farsi e ristaurarsi dai circonvicini, avendone la cura i così detti Capi di Contrada.

Ponte (Corte del)
a S. Francesco della Vigna. E' detta nella «Iconografia» del Paganuzzi, Corte di «Ca' Ponte», e nell'Estimo del 1713 vengono registrate 10 casette qui poste, possedute in quel tempo dal N. U. «Zuane Da Ponte». Egli nel 1724 le lasciò ad uso di altrettanti poveri coll'elemosina di L. 15 e soldi 12 l'anno, e col mantenimento di medico e medicine.

Per la famiglia Da Ponte
vedi Da Ponte (Calle e Corte)

Ponte dell'Accademia
Vedi Carità.

Ponte delle Guglie.
Vedi Cannaregio.

Ponte di Rialto.
Vedi Rialto.

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Portico scuro (Calle del)
sulla «Fondamenta di Cannaregio». Un lungo ed oscuro sottoportico, tuttora sussistente, dà questa denominazione.

In tal sito Marco Morosini da Cannaregio eresse un teatrino sopra un fondo già posseduto dalla famiglia De Medici. Consta che prima del verno 1679 vi si recitavano commedie, e che in detto anno vi si cantò per prima opera l'«Ermelinda», di cui compose la poesia l'istesso padrone del teatro, vestita della musica di Carlo Sajon. Questo teatro finì col secolo XVII.

Anche ai SS. Apostoli abbiamo una calle che ha il medesimo nome, ad essa in origine attribuito da un oscuro sottoportico, che colà pur esisteva, e che, col volgere degli anni, venne distrutto. Leggiamo nella Redecima del 1661 che Elena Zeno possedeva due casette «in contrà di S. Apostolo sotto il portico scuro».

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Posta (Via alla)
a S. Salvatore. Recente denominazione è questa, collocata per guidare il viandante al palazzo Giustinian, poscia Faccanon, odierna sede degli Uffizi Postali.

I Veneziani fino dal secolo XII avevano regolato la materia delle poste affidandola ad una compagnia di corrieri, che per altro soltanto nel secolo XV determinossi di procedere a viaggi regolari. Gli uffizi postali dello stato veneto, meno quello di Portogruaro, risiedevano a San Cassiano. Vedi Poste Vecchie (Calle ecc. delle). Quelli poi di stato estero erano stabiliti sulla «Riva del Carbon», meno alcuni, per cui puossi vedere l'articolo susseguente. Senonché nel 1775 i diritti postali vennero avocati all'alto dominio del principato, ed emanaronsi nuove ordinanze, per ovviare ai disordini, cagionati da speculatori privati, i quali non avevano in mira che il proprio interesse. In questo tempo tutti gli uffizi postali vennero concentrati a S. Moisè in «Corte Barozzi». Continuò nondimeno a sussistere la compagnia dei veneti corrieri, la quale componevasi di 40 individui di carica ereditaria, ed uniti in iscuola di divozione, sotto il patrocinio di S. Caterina, nella chiesa di San Giovanni Elemosinario. Tale compagnia fu protetta anche sotto la prima dominazione austriaca, non restando abolita che nel 1806, nel qual anno gli uffizi postali tornarono a mutar residenza, e furono trasportati a S. Luca in palazzo Grimani, donde finalmente nel 1872 passarono nel suddetto palazzo Giustinian a S. Salvatore.

Posta (Calle della)
a S. Canciano, presso la «Calle Dolfin». In forza di particolari trattati coi principi, alcune poste di stato estero si esercitavano in Venezia da esteri corrieri, non avendovi alcuna ingerenza la compagnia dei corrieri veneziani, di cui dicemmo più sopra. Queste poste erano quelle di Fiandra, di Vienna, di Firenze ecc. che avevano altresì uffizio separato. Nella calle di cui parliamo, come si esprime la Descrizione della contrada dei SS. Apostoli pel 1661, risiedeva «l'albergo della posta di Fiorenza», in una casa posseduta dalla famiglia Dolfin, la quale diede il nome alla Calle vicina. E ciò concorda colla Guida del Coronelli, che dice situata la posta di Firenze «in Ca' Dolfin ai SS. Apostoli».

Posta (Calle, Corte della)
ai SS. Apostoli, presso il «Campiello Valmarana». Risulta dagli Estimi del 1713 e 1740 che in questa Corte, allora chiamata «Corte vicin ca' Baron Taxis», abitava la famiglia de Taxis, la quale fino dal secolo XVI era stata investita della posta dell'Impero, detta volgarmente «posta di Fiandra». Il Coronelli poi ci fa sapere che anche l'uffizio di questa posta era stanziato «in casa del signor Baron de Taxis».

Il Martinioni loda altamente il museo del barone Ottavio Taxis, generale delle poste imperiali in Venezia, per varii celebri dipinti, e specialmente per un getto del Sansovino, rappresentante la «Risurrezione di Cristo».

Poste Vecchie (Calle, Sottoportico e Ramo delle)
a San Cassiano. Rammenta il Coronelli che a' suoi tempi, meno l'uffizio della posta di Portogruaro, situato alle Prigioni di Rialto, tutti gli altri uffizii postali dello stato Veneto risiedevano a San Cassiano. I locali terreni dell'Uffizio delle Poste Vecchie a San Cassiano sono ridotti da molti anni a spaccio da vino.

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Pozzetto (Calle, Corte, Ramo del)
a S. Maurizio. Nella «Corte del Pozzetto» scorgesi tuttora un piccolo pozzo con «vera» antica, e tutta adorna di marmorei lavori.

Altre delle nostre vie hanno egual nome, benché i piccioli pozzi, che in esse esistevano, sieno stati otturati.

La «Calle del Pozzetto» a S. Maurizio è detta anche del «Tagliapietra». Vedi Tagliapietra (Campiello del).

Pozzetto (Sottoportico e Campiello del)
a San Geremia. Anziché «del Pozzetto», deve leggersi «del Pozzo», o «di Ca' Pozzo», come nella Descrizione della contrada di S. Geremia pel 1740, la quale dimostra che varii stabili erano qui posseduti dall'«Ill.mo Stefano» e dall'«Ill.mo Lodovico Pozzo». Questa famiglia, originaria di Milano, e celebre perché un Giovanni di essa, venuto a Venezia fino dal 1040, sposò una nipote del doge Flabanico, appartenne agli antichi Consigli. Passata nel 1297 fra i cittadini originarii, produsse uomini distinti tanto in pace quanto in guerra. Giova rammentare quel G. Francesco Pozzo, protonotario apostolico e vescovo di Cronesso, che dall'imperatore Rodolfo II ebbe il grado di conte palatino col privilegio di poter aggiungere alla propria arma la regia croce. Una cronaca cittadinesca (Classe VII, Cod. 351 della Marciana) dice che i Pozzo avevano casa a S. Geremia, «la qual fu di M. Francesco vescovo di Cronesso». Fabrizio Pietrasanta nel 1617 pubblicò a Milano una lettera diretta a questo prelato, ove annovera tutti gli illustri di lui consanguinei, non dimenticando la celebre letterata Modesta Da Pozzo, detta Moderata Fonte. I raccoglitori di epigrafi ne riportano una che Alessandro Pozzo, procuratore della chiesa di S. Geremia, fece incidere l'anno 1535 sopra un sepolcro da lui in quella chiesa costrutto per suo fratello Francesco, per sé e pei posteri.

Pozzetto d'oro (Corte del)
in Birri, a San Canciano. Questa denominazione e l'altra di «Corte del Pozzo d'Oro» ai SS. Apostoli, dipendono forse dall'eccellenza dell'acqua onde tali pozzi anticamente erano forniti.

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Pozzo d'oro (Corte del)
ai SS. Apostoli. Vedi Pozzetto d'oro (Corte del) in «Birri», a S. Canciano.

Pozzo Longo (Ponte, Sottoportico, Campiello del)
a S. Agostino. Un pozzo, cinto d'alta muraglia, che serve a solo uso di casa privata, dà il nome alle surriferite località.

Pozzo Roverso (Corte del)
presso «Ruga Giuffa» a S. M. Formosa. Potrebbe essere che il pozzo il quale qui esisteva avesse l'anello rovescio, o capovolto, come accade del magnifico tuttora esistente in «Corte Battagia» in «Birri» oppure che fosse stato eretto dalla cittadinesca famiglia Roversi, già proprietaria di molti stabili in parrocchia di S. Giovanni Nuovo, a cui la corte di cui parliamo era soggetta.

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Pre' Maurizio (Calle)
a S. Martino. Dice il Berlan che qui abitava anticamente un prete di nome Maurizio. E veramente apparisce che nel 1740 fra il «Campo dei Due Pozzi» e la «Calle degli Scudi», ove appunto s'apre la «Calle pre' Maurizio», un «pre' Maurizio Colombo» teneva a pigione una casa del «N. U. Zaccaria Vallaresso». Questo prete Maurizio Colombo era suddiacono titolare e curato della chiesa di S. Ternita, e godeva di comodo censo, poiché nel medesimo anno 1740 notificò ai X Savii sopra le Decime varie case nelle parrocchie di San Pietro di Castello e di San Silvestro.

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Prete Zoto (Corte del)
a S. Giuseppe. E' detta nelle condizioni del 1566 «Corte di pre' Francesco Soto», e nelle piante topografiche del Paganuzzi e del Quadri «Corte del Prete Zoto». Forse quel «soto», o «zoto», equivale a zoppo, ed allora convien dire che il prete qui domiciliato avesse tale difetto. Potrebbe anche darsi però ch'egli appartenesse ad una famiglia di questo cognome.

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Preti (Fondamenta, Ponte dei)
a S. Maria Formosa. Dalle case capitolari della chiesa di S. Maria Formosa.

Sopra una muraglia presso questo ponte scorgesi innestata un'urna sepolcrale romana, la quale da una parte reca una scultura, e dall'altra l'iscrizione:

L. Statio Sabi

Fausto

Et Nataline

L. Statius Prudens

Conliberto

V F

Dalle case capitolari si dissero «dei Preti» altre strade di Venezia.

E' noto che ogni chiesa parrocchiale aveva il suo capitolo o collegio presbiteriale, e che ciascun capitolo possedeva alcune case concesse ai titolati dalla pietà dei fedeli acciocché, soggiornando in quelle, potessero sempre essere pronti ai bisogni della chiesa e della parrocchia. Questa ragione è chiaramente spiegata nelle parole del sinodo del patriarca Egidio (1296) ove comandasi che i titolati àbitino nelle loro case, e vi dormano la notte, «ne propter locorum distantiam, ecclesiae debitis clericorum ministeriis defraudentur». Ogni titolato poi doveva tenere in buon ordine la casa che venivagli consegnata per residenza, la qual cosa solevasi dinotare colla frase di doverla mantenere «in culmine», frase usata ai dì nostri, dicendosi «in conzo ed in colmo». Coll'andar del tempo però i titolati si emanciparono talvolta dall'obbligo di abitare nelle case suddette, laonde noi troviamo nel 1510 ordinato dal patriarca Contarini che «le case fatte dei beni de la chiesa sieno solo abitate e ritenute da quelli ai quali appartengono, ed a quell'uso che son destinate. Che se quelli ai quali appartengono non le abitano, gli altri ministri idonei e canonice ordinati le abitino. Se saranno affittate, i pro vadano in restauro, a comodo della chiesa, e si distribuiscano tra i ministri quotidie inservientes». Talvolta avveniva eziandio che i titolati dessero le loro case a pigione a famiglie viziose, e perfino a prostitute, abuso che cercò di sradicare il patriarca Giovanni Trevisan nel suo primo sinodo tenuto l'anno 1564.

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Preti (Sottoportico, Calle dei)
a Castello, presso la «Strada Garibaldi». Abbiamo dalla Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello pel 1740 che qui abitava un «Alvise de Preti» in una casa appartenente all'ospitale dei Santi Pietro e Paolo. Tuttora sopra l'ingresso del Sottoportico vedesi scolpito lo stemma dell'ospitale suddetto.

Questo Alvise de Preti, qui nato nel 1680, addestrossi nei lavori dell'Arsenale in modo da divenire un eccellente meccanico e da dimostrare il proprio talento in varii paesi, sicché della di lui opera servironsi anche alcuni principi stranieri. Vedi Gradenigo: «Commemoriali», N. 3.

Preti (Calle dei)
o Catula a S. Giuliano. Deriva la prima denominazione da sei case che Marco Ziani, conte di Arbe, figlio del doge Pietro, lasciò nel 1253 alle Congregazioni del veneto clero, allora in numero di otto, e che, come indica una lapide posta all'imboccatura del prossimo sottoportico, minacciando di cadere per vetustà, furono riedificate nel 1699. Delle Congregazioni del Veneto clero abbiamo parlato altrove. Vedi Clero (Ramo del).

Non «Catula» poi, ma «Catulla», deve dirsi veramente questa calle, derivando tale seconda denominazione dalla veneziana famiglia Catullo.

Anche la «Corte dei Preti», presso la «Piscina di S. Martino», trasse il nome, come da iscrizione sovrapposta, da case appartenenti alle Congregazioni del veneto clero.

Preti (Calle dei)
detta Del Dose a San Bartolomeo. Da case che appartenevano al vicariato di San Bartolomeo. Questa calle ha l'altro nome «del Dose» per una prossima bottega da «bombaser al Dose», condotta tanto nel 1713, quanto nel 1740, da un «Antonio Guidotti», il quale pagava pigione ad «Annibale Tasca». L'arma dei Tasca è tuttora scolpita all'ingresso della calle.

Preti (Calle dei)
detta Del Pistor a San Pantaleone. Pel primo nome vedi Preti (Fondamenta ecc. dei) a S. Maria Formosa. Pel secondo Pistor (Calle e Ponte del).

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Prigioni (Fondamenta delle)
a Rialto. La carta topografica di Venezia, unita ai «Viaggi» del Coronelli, segna in questa situazione le «Prigioni dei debiti, e luogo dei Magistrati differenti». Tali prigioni erano a pian terreno di quel palazzo eretto nel 1525 da Guglielmo Bergamasco, ove aveano sede i «Consoli», «Sopraconsoli», e «Camerlenghi» con altri magistrati. Si componevano di tre stanze respicienti questa fondamenta, le basse finestre delle quali, munite d'inferriate, si scorgono tuttora. Dice un codice della Marciana, ricco di varie memorie intorno gli ultimi tempi della Repubblica, che nelle medesime, oltre i debitori, scontavano la pena i rei di picciole trasgressioni, e vi si sostenevano provvisoriamente anche i delinquenti maggiori fino all'epoca in cui venivano altrove trasportati.

Sopra la facciata del palazzo dei Camerlenghi, che sorge di fianco al «Ponte di Rialto», havvi scolpito sopra il capitello d'uno dei pilastri un uomo seduto, dal cui basso ventre discende un pene con unghia, e sopra un altro una donna, pure seduta, la cui natura viene arsa dalle fiamme. Secondo una volgar tradizione, queste sculture alluderebbero al fatto che, vociferandosi d'erigere il «Ponte di Rialto» in pietra, stato fin allora sempre in legno, tale misura incontrò sulle prime molti increduli, laonde uscì a dire un uomo: «Voglio che, se ciò si farà, mi nasca un'unghia fra le coscie!» ed una donna: «Voglio che le fiamme m'abbrucino la natura!»

Vi ha memoria che nel 1560, e precisamente nel giorno di San Giacomo, G. Battista dalla Terra di Lavoro entrò con chiavi false nel palazzo dei Camerlenghi, e vi rubò uno scrigno contenente 8 mille ducati, fra cui 4 mille di «gazzette». Convinto ma non confesso di tale delitto, gli fu tagliata la mano destra in faccia al suddetto palazzo, e poscia in Rialto venne impiccato. Sopra questo avvenimento Celio Malespini compose una delle sue Novelle.

Prigioni (Rio delle).
Vedi Palazzo (Rio del).

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Priuli (Calle larga, Ponte)
a S. Felice. A' piedi di questo ponte sorgeva il palazzo Priuli Scarpon, che bruciò nel 1739. Circa l'incendio che lo distrusse leggesi nelle «Memorie» ms. del Benigna: «A 8 marzo 1739, quarta Dom.ca di Quaresima, fu il fuoco nel palazzo di ca' Priuli Scarpon a S. Felice, havendo principiato nella cucina di sopra, et ha circondato tutto il grande palazzo con averlo consunto et incenerito». E più sotto: «11 settembre 1741. E' caduto e morto un huomo nel disfare il palazzo rovinoso di ca' Priuli Scarpon a S. Felice». Oggidì se ne scorgono soltanto i residui nelle basi marmoree, e nelle porte, che mettono ai magazzini ed al casamento sopra le sue rovine fabbricato. Questo palazzo, lodato dal Martinioni, aveva due facciate sopra il «Rio di S. Felice», al pari d'altre prossime case, pervenute ai Priuli pel matrimonio, avvenuto fino dal 1360, fra Giacomo Priuli e Maria Foscari, e quindi rifabbricate nel secolo XVI, sopra una delle quali, ancora pochi anni sono, scorgevasi lo stemma della famiglia proprietaria.

Vuolsi che un individuo della famiglia Priuli, di nobil sangue ungherese, venuto a Venezia per importanti negoziazioni colla Repubblica, s'invaghisse del nostro cielo, e vi fissasse soggiorno co' suoi. Dicono le cronache che i Priuli vennero ammessi al M. C. verso il 1100, ma che, essendo rimasti esclusi nel 1297, vi furono riassunti nel 1310 per meriti acquistati nella congiura di Bajamonte Tiepolo. Essi impartirono il nome a varie strade della città, e diedero tre dogi, quattro cardinali, molti prelati, e lunga schiera di illustri, fra i quali giova ricordare Daniele che pacificò i Triestini coi Giustinopolitani, assalse Rodi, e di non poco danaro sussidiò lo stato nella guerra di Negroponte del 1469; Francesco che, in difesa di Cipro, sbandò una grossa armata ottomana nel 1487, ed al tempo della cessione ricevette quel regno dalle mani di Caterina Cornaro; per ultimo Antonio che, governatore di galeazza nel 1656, sotto il generale Lorenzo Marcello, trovossi al famoso conflitto navale contro i Turchi, assistette alla disfatta delle galere barbaresche a Scio, poi alla gran battaglia in cui spirò il generale Mocenigo, e, Provveditore generale, contribuì alla difesa di Candia.

Una linea dei Priuli era investita della contea di Sanguinetto nel Veronese, ereditata dai Venier.

Priuli (Calle)
detta dei Cavaleti agli Scalzi. La nobil donna «Paolina Priuli» qui possedeva nel 1661 cinquantanove casette. Per questa famiglia vedi l'articolo precedente. Quanto alla seconda denominazione, ci accostiamo all'opinione di coloro che la fanno provenire dai cavalletti sopra i quali i tessitori ed i tintori sogliono stendere i drappi, poiché negli Estimi troviamo che molti tessitori e tintori abitavano in questa calle, e che essa non «Calle Priuli» o «dei Cavalletti», ma «Calle Priuli ai Cavalletti» veniva anticamente appellata.

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Procuratie (Rio delle)
a S. Marco. E' così chiamato perché scorre dietro le «Procuratie Vecchie». Dell'uso a cui servivano tanto le «Procuratie Vecchie», quanto le «Nuove», e dei loro architetti abbiamo parlato colà ove si descrive la «Piazza di S. Marco». I portici delle «Procuratie Nuove» furono per la prima volta lastricati di pietra viva nel 1740 sul disegno di Stefano Codroipo, e quelli delle «Procuratie Vecchie» nel 1772 sul disegno di Bernardino Maccaruzzi. Nel 1797, epoca democratica, usciva il seguente decreto: «Libertà, Eguaglianza! In nome della Sovranità del popolo, il Comitato di Salute pubblica... decreta... Sono aboliti i nomi di Procuratie Vecchie e Nuove; le Procuratie Vecchie si chiameranno Galleria della Libertà; le Procuratie Nuove Galleria dell'Eguaglianza... 22 pratile» (1797) «Anno primo della libertà italiana, Falier presidente». Dopo pochi mesi però l'accennato decreto mettevasi in non cale, e le «Gallerie della Libertà e dell'Eguaglianza» ripigliavano il titolo primiero.

Le «Procuratie Vecchie» furono selciate nuovamente nel 1876 a spese del cav. Giovanni Busetto detto Fisola.

Procuratie (Calle, Fondamenta delle)
a S. Maria Maggiore. Queste strade, nonché le due corti «delle Procuratie», l'una situata a S. Geremia, e l'altra a S. Maria Zobenigo, presero il nome dalle case che i Procuratori di S. Marco, secondo le pie intenzioni dei testatori, davano da abitarsi «amore dei» ad alcune famiglie indigenti. Le case di S. Maria Maggiore si dispensavano dai Procuratori «de Ultra», e provenivano dal testamento di Filippo Tron, 8 novembre 1502. Erano 60, cioè 26 in «solèr», e 34 a «pepiàn», e nella raccolta del Gherro ne esiste la pianta con disegno a colori. Le case di S. Geremia si dispensavano invece dai Procuratori «de Citra», ed appartenevano alla commissaria d'un «Zuane Ravagnan». La distribuzione finalmente delle case di S. Maria Zobenigo spettava parte ai Procuratori «de Supra», secondo il testamento di un Luca Moro 19 aprile 1410, e parte ai Procuratori «de Citra» come commissari d'un Giacomo Corner.

Nel principio del IX secolo incominciossi in Venezia ad eleggere un procuratore perché sopravvegliasse all'erezione della basilica di S. Marco. Gli furono successivamente aggiunti alcuni colleghi coll'ordine seguente, cioè uno l'anno 1231, un altro nel 1239, un terzo nel 1261, e due altri nel 1319. Ridotti a sei, furono divisi in tre classi. Due si chiamavano «de Supra», due «de Ultra», e due «de Citra». Quelli «de Supra» dovevano aver cura della chiesa ducale e della Piazza; quelli «de Ultra» amministrare le tutele e le commissarie al di là del «Canal Grande»; quelli «de Citra» al di qua dello stesso canale. Nel 1353 ai due Procuratori «de Supra» se ne aggiunse un terzo. Finalmente nel 1442 il Maggior Consiglio fissò il loro numero a nove, tre per procuratia. La dignità dei Procuratori, che era a vita, si considerava seconda dopo quella del doge, come si esprime una legge del Maggior Consiglio: «Sicut dignitas Procuratoris est immediate secunda a principatu ducatus nostris» ecc. Essi venivano mai sempre ammessi in «Pregadi» senza bisogno dell'annuale ballottazione, e godevano d'altri diritti e privilegi. Le rendite delle procuratie, dipendenti da lasciti e largizioni private, erano molto rilevanti. Una gran parte se ne impiegava in opere di carità d'ogni maniera, fra cui ci piace ricordare i molti «biglietti di grazia», che venivano distribuiti annualmente da Natale e da Pasqua alle ragazze povere sì della città come dello Stato, e che ad esse fruttavano una buona somma di danaro onde collocarsi in matrimonio o monacarsi. Oltre i nove Procuratori ordinarii ve ne furono talvolta alcuni di straordinarii o perché tale dignità venne venduta nel

le strettezze dell'erario, o perché si volle con essa premiare rilevanti servigi resi allo Stato.

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Pace (Sottoportico, Calle, Campiello della)
a Castello. Dalla famiglia Pace, o Pase. Una «Pasqua consorte Apostolo Pace» traslatò in suo nome da quello di «Bortolo Querengo» una casa con bottega in parrocchia di S. Pietro di Castello, e precisamente non lungi da S. Domenico, «pervenuta nella detta in virtù del testamento della q.m Gratiosa figliuola del q.m Bastian di Cresci fu madre del suddetto Bortolo, nelli atti del Rev. Luran N. V. del 15 aprile 1628». Nei Necrologi Sanitarii troviamo poi decesso anteriormente, cioè il 10 luglio 1612, «EM. fio de Alessandro de Pase - S. Piero de Castello».

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Padiglion (Calle del)
ai SS. Apostoli. Leggasi, come negli Estimi, «Paralion» dalla famiglia cittadinesca Pierleoni, Perleoni, o Paraleoni. Fino dal 22 luglio 1438 Piero Paraleoni da Rimini ottenne la cittadinanza «de intus», ed il 9 giugno 1459 fu concessa la grazia medesima a Giacomo di lui fratello, dottore in legge, per aver preso moglie veneziana. Di Pietro Paraleoni parla il Foscarini («Della Letteratura Veneziana») narrando come nel 1458 fosse condotto dai nostri per insegnare umanità alla gioventù patrizia, e come concorresse all'uffizio di istoriografo col Trapezunzio, il Filelfo, ed il Biondo. Egli ebbe tomba nel 1473 ai SS. Giovanni e Paolo, ove pure furono sepolte Giovanna Certalta, e Briseide Vinaccesi, mogli di Giacomo. Anche un Girolamo, figliuolo di Giacomo, riuscì giureconsulto di fama, e fu padre di quell'altro Giacomo che nel 1556 notificò uno stabile ove abitava in contrada dei SS. Apostoli, per cui doveva pagare ai padri Crociferi dieci annui ducati, ed una libra di cera a titolo di livello. Notisi che, appena imboccata la «Calle del Padiglion», scorgesi sopra la porta d'una casa le tre croci insegna dei padri Crociferi. L'antica casa da «statio» della famiglia Paraleoni era però al «Ponte dei Miracoli», ove tuttora ne esiste lo stemma.

Puossi sospettare che in una delle case dei Crociferi, situate ai SS. Apostoli in «Calle del Paralion», avesse la propria officina nel maggio e nel settembre del 1536 il celebre tipografo Francesco Marcolini, di cui più estesamente parleremo altrove. In effetto nel libro delle «Rime di M. Antonio Mezzaroba» leggonsi le seguenti parole: «In Vinegia per Francesco Marcolini da Forlì ne le case de i Frati Crosechieri, in la contrada di Santo Apostolo negli anni del Signore MDXXXVI, del mese di maggio». Colà pure trovasi stampato nel settembre 1536 il «Cantus liber quinque Missarum Adriani Willaert». Ad ogni modo nel novembre dell'anno medesimo il Marcolini aveva trasportata la propria stamperia a S. Ternita. Vedi S. Ternita (Campo, Calle).

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Padovani (Ramo dei)
ai Santi Filippo e Giacomo, in «Calle delle Rasse». Il ritrovare che nel secolo XVI esisteva in «Calle delle Rasse» la «casa dei Padovani» ci fa credere che questa via abbia preso il nome dalla locanda solita ad albergare i Padovani venuti a Venezia. Per queste particolari albergherie vedi Bressana (Calle), Feltrina (Ponte ecc. della) ed altri articoli.

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Pagan (Fondamenta)
a S. Maria Maggiore. «Beneto Pagan q. Paulo» possedeva nel 1740 casa da stazio, ed altre casette in parrocchia della Croce, sulla «Fondamenta dei Pensieri». Questa circostanza fece sì che si dicesse «del Pagan» un Ponte, il quale venne distrutto quando interrossi il «Rio dei Pensieri», e che tuttora porti la medesima appellazione una prossima Fondamenta. «Benedeto Pagan q. Paolo» venne da Chioggia, ove i suoi maggiori erano ascritti alla cittadinanza. Egli in Venezia esercitò la mercatura, e da principio si diede a prendere in appalto l'erezione di fabbriche, ma poscia poté avere la ferma generale dei sali, che gli fu molto utile e lucrosa. Morì nel 1753 lasciando al figlio Domenico non poche ricchezze. I di lui posteri che, secondo le fedi presentate all'«Avogaria», nacquero tutti in parrocchia della Croce, ebbero cariche nel veneto ministero, ed il 17 ottobre 1788 furono approvati cittadini originarii, restando pure, con terminazione 3 giugno 1789, fregiati di titolo comitale.

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Paglia (Ponte della)
sopra la Riva degli Schiavoni. Acquistò il nome non dalla paglia, che si avrebbe adoperato per le «mussete», antica cavalcatura dei nobili, le quali, durante le sedute del M. C., qui stessero a riposare, ma dalle barche cariche di paglia che qui facevano il loro stazio. Esiste una legge del 1285 in cui si legge: «Palea non vendatur ad Pontem Paleae», ed un'altra del 1308 con cui si rifiuta ai venditori di paglia di ritornare a vendere la loro merce in questo sito. Inoltre il Sabellico, parlando di questo Ponte, dice: «qui a venali palea, quae nunc ad Georgii phanum venditur, nomen habet». Finalmente la cronaca del Savina, parlando del dogado di Giovanni Delfino, eletto nel 1356, dice: «In questo tempo fu fatto el ponte de piera a S. Marco che prima giera de legno, e se chiama el ponte della pagia perché in quel luogo se ridussero le barche de pagia». Ciò avvenne precisamente, secondo il libro «Novella», nel 1360, ed un altro cronista, citato dal Gallicciolli, ci avvisa che esso ponte venne eretto fino dalla sua origine «a colonnette», come scorgesi tuttora. D'un ristauro del «Ponte della Paglia», e Riva seguente, fanno cenno gli annali del Malipiero colle parole: «A 20 de Marzo» (1462) «fo principià l'opera del ponte de la Paglia, e se continuete fino ai forni, e se restò perché se comenzò la guerra contro i Turchi».

Anticamente presso il «Ponte della Paglia» esistevano alcune osterie, l'una all'insegna della «Serpe», l'altra all'insegna della «Corona», e la terza all'insegna della «Stella». Un Sanuto «hospes ad Serpem» venne l'ultimo aprile del 1372 carcerato, multato, e privato dell'esercizio perché, coll'intendimento di appropriarsele, aveva nascosto le robe d'un certo Antonio, morto alla sua osteria. Qui nel 1483 venne ospitata un'ambasceria del Turco. Notisi che, avendosi prescritto l'allontanamento da tali osterie delle meretrici che vi stanziavano, i Foscari ed altri nobili proprietarii se ne lagnarono altamente per lo sviamento degli avventori, laonde l'antico costume venne rimesso.

Presso il «Ponte della Paglia» solevansi esporre i cadaveri degli annegati, perché ne potesse succedere il riconoscimento. Esso venne ampliato nel 1854 a spese civiche.

Secondo la leggenda, stava rifugiato sotto il medesimo, nella propria barca, un vecchio e povero pescatore, mentre il 15 febbraio 1340 imperversava una terribile bufera. Quand'ecco scorse un uomo che gli impose di tragittarlo alla vicina isola di San Giorgio Maggiore, ove associossi ad un altro, volendo essere condotto a San Nicolò del Lido. Accolto qui un terzo, tutti e tre costrinsero l'atterrito pescatore ad uscire fuori del porto, ed allorquando furono in alto mare, apparve in mezzo all'onde un naviglio ripieno di spiriti infernali. A quella vista gli audaci passeggeri si discoprirono per S. Marco, S. Giorgio, e S. Nicolò, ed intimarono ai demoni di desistere dallo scatenare sì fiera burrasca che minacciava di sommergere tutta Venezia. Beffandosi eglino di tale comando, vennero colpiti da una folgore, ed in un attimo col vascello si dileguarono. Abbonacciatosi il mare, i santi fecero ritorno col barcajuolo, a cui S. Marco nel congedarsi diede un anello perché la mattina seguente lo consegnasse al doge in pieno Consiglio. S'immagini lo stupore universale alla scoperta che l'anello era quello solito a tenersi rinchiuso nel Tesoro di S. Marco, il quale una mano invisibile aveva levato dal suo posto.

Questa favoletta, raccontata da tutti i cronisti, inspirò il genio di Paris Bordone, che divisolla in un celebre quadro per la Scuola di San Marco, oggidì conservato nella nostra Accademia di Belle Arti.

Anche ai SS. Ermagora e Fortunato esistono una Calle ed un Ramo, i quali traggono il nome dalla paglia, che colà si avrà depositato, o venduto.

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Palada (Fondamenta, Rio, Ponte della)
alla Giudecca. Chiamavasi «Palada di S. Anzolo» perché vicina alla chiesa di tal Santo, e «Palada di Ca' Lombardo» perché la patrizia famiglia Lombardo possedeva qui presso ventiquattro case, passate poscia in commissaria, amministrata dai Procuratori di San Marco. Per «palada» si deve qui intendere la palafitta eretta prima dell'attuale fondamenta.

Riporta il Dezan che sulla «Fondamenta della Palada» alla Giudecca eravi la Scuola della B. V. del Rosario, la quale celebrava ogni anno la propria festa con una pomposa solennità. Havvi memoria che nella processione solita a farsi in tale circostanza morì ucciso nel 1758 un fanciullo da un colpo di moschetto.

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Palazzo (Rio del)
a San Marco. Il «Rio di Canonica» è detto sul suo finire «Rio del Palazzo», perché costeggia il palazzo ducale. Viene conosciuto sotto il nome di «Rio delle Prigioni» dalle prigioni erette dopo il 1589 da Antonio Da Ponte, le quali si univano al Palazzo Ducale, che loro sorge di fronte, e propriamente alle stanze del Consiglio dei X, per mezzo del famoso cavalcavia chiamato «Ponte dei Sospiri», perché chi lo passava aveva tutto il motivo di gemere e sospirare.

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Pali (Calle dei)
detta Testori, a San Felice. Alcuni, combinando insieme le due denominazioni portate da questa Calle, e leggendo «Palii», anziché «Pali», vorrebbero che qui anticamente stanziassero i tessitori di palii di seta, il cui traffico rimonta fra noi al principio del Mille, giacché si sa che il doge Ottone Orseolo ordinò che in verun luogo si potessero vendere fuorché sul mercato di «S. Martino in Strata» (ossia di Campalto), a Pavia, ed al settimanale mercato d'Olivolo. Noi crediamo però che la Calle medesima ricordi invece le due famiglie «Pali» e «Testori». Una «mariegola» della Scuola Grande di S. Maria della Misericordia (an. 1308-1490) registra qual confratello un «Zuane Palo». E si noti che la Calle in discorso è chiamata nelle antiche memorie così «dei Pali», come «del Palo». Un «Ignazio Testori» da S. Felice diede poi in moglie la propria figlia Maria Teresa ad Alessandro Bernardi (Registri dell'«Avogaria»). Egli fu l'ultimo rampollo di ricca famiglia milanese, che concorse alla rifabbrica della chiesa dei Gesuiti, ove ebbe tomba. Ignazio Testori fu molto accetto al padre di Clemente XIII (Rezzonico), ed a Clemente stesso, che aveva sortito i natali nel palazzo Fontana, prossimo alla casa dal Testori abitata. Questi ricevette in dono dal pontefice il corpo della martire Matronilla, allora in Roma scoperto, per riporre il quale fabbricò una ricca cappella nel suo palazzo di Mogliano, che aveva comperato dall'inglese Smith, e che poscia venne distrutto, trasportandosi il corpo della martire nella chiesa parrocchiale.

Nicandro Jasseo, dopo aver parlato del palazzo Fontana a San Felice, ove nacque Clemente XIII, così continua:

Sed veterem retinet jam longo a tempore sedem

Testori, cui re semper bene fidit in omni

Clementis pater, ut mentis decora ampla capacis

Agnovit, sincerum animum, rectique tenacem;

Agnovit priscos mores, agnovit amicum.

Plus tamen admiror quod dum sua tempora poscit

Religio, oppressus curarum mole, relinquit

Omnia, quod Numen sibi sit cura unica monstrat.

Ed in nota: «Illustr. D. Ignatius Testori domui Rezzonicae addictissimus».

Affissa, rasente terra, all'angolo d'una casa situata in «Corte dei Pali detta Testori», havvi tuttora la seguente lapide sepolcrale romana, provenuta forse da Aquileia, e dell'epoca forse dell'imperatore Domiziano, intorno alla quale esiste un'illustrazione ancor inedita del prof. Pietro Pasini:

DMS

SEX . VALERIUS

ALCIDES . VI VIR

V . F . SIB . ET . AVCEIAE

PSYCHE . CONIUGI

VALERIO . HERMETI

CALIDIO . HERMETI

PONTIO . APOLLONA

AMICIS

SOTERCHO . ET . CAMIC

TALIAE . DELIC . LIB

EM. I. F. P. XVII. A. XL

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Paludo (Corte, Ramo, Corte del)
ai SS. Giovanni e Paolo. Questa denominazione è altrove ripetuta, e proviene dal terreno anticamente paludoso. «Paludo» in dialetto veneziano corrisponde all'italiano «palude».

Del «Paludo» prossimo alla «Calle della Testa», il quale era sottoposto in antico alla parrocchia di S. Marina, parlano probabilmente le cronache, enumerando le offerte fatte per la guerra di Chioggia: «Nicolò de Buora» (esse dicono) «offerse al Comune di Venetia una sua casa nella contrà di S. Marina, sopra el paludo, et che il comun la venda come cosa sua, et non à denari, né altro da poter dare, et è vecchissimo, non puol andar su l'Armada come voria, ma, come buon cittadin, dà ciò che può».

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Panada (Rio, Ponte, Sottoportico, Calle della)
a S. Maria Nova. Vuole il Negri («Soggiorno in Venezia di Edmondo Lundy») che «panada» sia corruzione d'«impannata», specie di panno assai grosso, solito, come egli suppone, a lavorarsi in questi contorni, ed usitato dagli antichi onde coprire per di fuori le finestre. A noi sembra piuttosto che provenga la denominazione da una famiglia Panada, trovandosi un «Angelo Panada Trentino q. Giovanni da S. M. Nova», che, al proprio testamento fatto nel 1631 in Valle di Leder aggiunse in Venezia due codicilli nel 1632, in atti Pietro Bracchi.

Il rivo suddetto viene attraversato sulle «Fondamente Nuove» da un altro ponte, il quale perciò intitolossi pur esso «della Panada».

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Panateria a Rialto.
Vedi Beccarie.

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Papa (Sottoportico, Corte del)
alla Bragola. Nacque in questa corte nel 1417 Pietro Barbo, veneto patrizio, eletto nel 1464 sommo pontefice sotto il nome di Paolo II. Egli pacificò i principi d'Italia, ed in quella occasione si battè moneta col motto: «Paulo II. pacis italicae fundatori». A Roma fece sottoscrivere una lega di principi italiani contro il Turco, contribuendo del suo per le spese della guerra 300.000 ducati, ma in sul più bello dell'opera morì d'apoplessia nel 1471. Questo papa, volendo onorare Venezia sua patria, le concesse, benché non richiesto, la fondazione d'una Università sulla foggia di quelle di Bologna, Padova e Parigi, ed in memoria, come egli si espresse nella bolla relativa, di essere nato e battezzato in parrocchia di San Giovanni in Bragora dichiarò cancelliere perpetuo di questa Università il pievano della suddetta contrada. Giunta al Senato la bolla pontificia, fu tosto letta nel consiglio di Pregadi, e, tenuta consulta, venne bensì deliberato di ringraziare il pontefice, ma di non valersi del privilegio, sì per non danneggiare l'Università di Padova, sì perché la politica dello Stato non permetteva di raccogliere nella dominante numerosa gioventù. Quanto poi al pievano della Bragora, si decretò che, per onorare il pontefice, lo si stabilisse cancelliere perpetuo non già dell'Università, ma del Collegio dei Medici, il quale doveva formar parte della medesima, ed anche per lo addietro esisteva in Venezia. Tale è l'origine del titolo di Cancelliere del Collegio dei Medici, attribuito al pievano di quella chiesa, e dei distintivi onorifici concedutigli, secondo le parole della bolla, «ad instar aliorum studiorum universalium». Vedi circa questo argomento il Cappelletti: «Storia della Chiesa di Venezia», Tom. I, Cap. 4.

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Papadopoli (Calle del)
a S. Aponal. Vedi Tiepolo.

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Paradiso (Ponte, Calle del)
a S. Maria Formosa. Vorrebbero alcuni derivare questi nomi dalla patrizia famiglia Paradiso, ma non si trova in alcuna cronaca che essa qui possedesse stabili, o fosse domiciliata. Né si ha memoria che essi derivino da qualche altra famiglia non patrizia del cognome medesimo, poiché anche quel pittore Nicolò, il quale in un suo quadro colla data del 1404 si chiama «Nicolaus Paradixi», ed in un accordo del 1419 fra i Padri dei SS. Giovanni e Paolo, e la confraternita dei «Ligadori» del Fondaco dei Tedeschi, «Nicolò Paradiso depentor», era, secondo la sentenza dei più riputati scrittori, Nicoletto Semitecolo, e si sottoscriveva «Paradiso» soltanto perché abitava, come è espresso in un altro suo quadro, «in capite Pontis Paradixi», cioè in questa località. Inoltre la denominazione data da un tempo più antico, ed in alcuni documenti del secolo XIV queste strade non si appellano «di ca' Paradiso», o «del Paradiso», ma semplicemente «el Paradiso». Per tali ragioni noi sottoscriviamo più presto all'opinione del Dezan e d'altri, i quali sostengono che le strade medesime si dicano «del Paradiso» per la magnificenza onde solevano adornarsi ed illuminarsi nelle principali solennità della chiesa, e specialmente nel Venerdì Santo, tanto più che qui non havvi deficienza di sacre memorie, essendo le due ali di case, che formano la «Calle del Paradiso», congiunte sopra il ponte da un arco, ove scorgesi scolpita l'immagine della B. V. con alcuni divoti a' suoi piedi.

Venendo a parlare di quest'arco, che forma tuttora l'ammirazione dei cultori dell'Arti Belle, esso è decorato da una parte dall'arma Foscari, che ancora poco fa scorgevasi sopra la porta d'una casa ora rifabbricata sul rivo, e dall'altra parte dall'armi Foscari e Mocenigo. Infatti sappiamo che, avendo Pellegrina Foscari q. Michiel contratto matrimonio nel 1491 con Alvise Mocenigo «dalle Zogie» q. Tommaso, i beni di lei passarono in proprietà dei Mocenigo. Perciò esso Alvise Mocenigo notificò nel 1537 ai X Savii sopra le Decime, per conto d'Antonio, Francesco, e Michiele suoi figli, i «beni di cha Foscari», fra i quali, oltre il palazzo a S. Marina, al «Ponte del Pistor», eranvi «case n. 26 in la contrà di S. Maria Formoxa nel luogo detto el Paradiso», ed un'altra casa «in contrà de S. Lio». Da ciò si ricava che non al secolo XIV, ma bensì alla fine del secolo XV, deve attribuirsi il lavoro dell'arco indicato, essendo esso forse una riproduzione d'altro arco anteriore, oppure avendosi voluto nell'architettarlo seguire uno stile più antico, e relativo alla «casa da statio» a cui esso s'attacca. Che se, a qualunque modo, si voglia giudicarlo nel secolo XIV, convien dire in tal caso, che almeno gli stemmi sieno stati rimessi, il che non pare.

Non è improbabile poi che tutte le case suddette, od almeno alcune di esse, appartenessero più anticamente alla abbazia di S. Maria della Pomposa, vicina a Comacchio, poiché presso l'altro arco, che sta a cavaliere della «Calle del Paradiso», verso la «Salizzada di S. Lio», leggesi la seguente iscrizione, ora corrosa dal tempo: mccccvii die ult. de zugno, fo comenzado queste caxe soto misier don andrea abado de pomposa gastoldo pier zane de conteris.

Ora racconteremo un aneddoto qui successo nel 1368. Una sera di quell'anno certo «Lorenzo di Bonfazio della seda» picchiò all'uscio d'un certo Leonardo da Conegliano, suonatore, «qui morabatur in Paradixo in contracta S. Leonis», avvisandolo che verso giorno egli ed altri amici sarebbero venuti a prenderlo per fare una mattinata in contrada di S. Gregorio. Arrivata l'ora opportuna, tutti infatti vanno dal suonatore, e mentre questi scende le scale, e s'avvia colla comitiva, Lorenzo nascondesi in casa, e tenta la di lui moglie Armellina. Essa, aperta la finestra, grida ai vicini, fa fuggire il seduttore e, ritornato il marito, gli racconta l'avventura. Leonardo monta sulle furie, e vuol querelarsi alla giustizia, ma gli amici cercano di calmarlo, facendogli osservare che alla fin fine le cose non erano procedute oltre i limiti d'un semplice attentato. Il buon uomo però non crede, e solo s'accheta quando Lorenzo va in chiesa di S. Giovanni Grisostomo, accende un doppiere, e giura sulla sacra pisside di non aver avuto commercio coll'Armellina, e d'essere pentito della tentata intrapresa. Leonardo perciò gli permette di nuovamente frequentare la propria casa, ma ohimé! che reduce un bel dì da Treviso, sente dai vicini aver il mariuolo commesso adulterio colla moglie, e questa fra le lagrime gli confessa di non aver potuto resistere alle seduzioni di Lorenzo, e d'aver giaciuto seco lui quattro volte, tre in casa, ed una da un calzolajo ai SS. Apostoli. Le «Raspe» dell'«Avogaria» non dicono come rimanesse il povero marito; registrano soltanto che Lorenzo, mediante sentenza 28 febbraio 1368, M. V., venne condannato a due anni di carcere con cinquecento lire di multa; l'Armellina a due mesi di carcere colla perdita della dote; ed i compagni di Lorenzo a sei mesi di carcere con cento lire di multa.

Quanto alle altre strade di Venezia, che portano il nome «del Paradiso», nemmeno esse ricordano alcuna famiglia «Paradiso», mentre il «Sottoportico e Corte del Paradiso» presso la «Ruga Giuffa» di S. Maria Formosa erano detti anticamente «dell'Inferno», e ben si vede che in tempi posteriori si vollero con miglior augurio ribattezzati. La «Calle» poi «del Paradiso», confluente alla «Riva del Vin», si appellò, senza dubbio, da una farmacia all'insegna del «Paradiso», che sopra quella riva esisteva. Un Teodoro Balbi notificò nel 1661 di possedere la «metà d'una bottega da spicier da medicine nella contrà di S. Silvestro, sora la Riva del Vin, tenuta in affitto da Francesco Raffali spicier al Paradiso». Leggesi inoltre nel «Giornale Solario» di Gioachino Burani, stampato in Venezia nel 1794: «Verso le ore due della notte susseguente la giornata dei 25 novembre, l'anno 1753, un improvviso ed impetuoso incendio distrusse quattro abitazioni presso la Riva del Vino, a Rialto, unitamente a due botteghe, una di venditore di ferramenta, e l'altra dello speziale di medicine all'insegna del Paradiso, da cui acquistò il nome la contigua calle, soggetta alla contrada di San Silvestro».

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Paralion (Calle del).
Vedi Padiglion.

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Parangon (Ramo secondo, Ramo terzo, Ramo quinto)
a Rialto. Da alcuni drappi di seta che erano chiamati, per la loro perfezione, «del paragone», e corrottamente «del parangon». Il Boerio, nel suo «Dizionario del Dialetto Veneziano», scrive in tal forma: «Panni e stoffe di Paragone si chiamavano nei secoli XVI e XVII quei pannilani e drappi di seta, così detti dalla loro finezza e perfezione, che si fabbricavano in questa capitale nel lungo edifizio che esiste sulla Piazza di Rialto, sopra i portici, ora detti Ruga dei Oresi, dalla parte di S. Giovanni: edifizio che quindi appellavasi del Paragone, il quale più anticamente serviva all'uso delle Magistrature, quando il Governo era in Rialto. La calle di mezzo tra il detto edifizio, e l'altro che riferisce sopra la Piazza di Rialto Nuovo, chiamavasi Calle del Paragone, e v'era ancora ai giorni nostri qualche fabbrica di pannilani, ma ordinarii, sussistente nel medesimo luogo». Domenico Loredan notificò nel 1582 di possedere due volte a Rialto «al parangon de seda».

Leggesi negli «Annali» del Malipiero: «A dì 5 de Marzo» (1492) «è zonto qua do Ambassadori del re di Polonia con 60 boche per andar a Roma e Napoli, et ha alozà in Corte del Parangon a spese della Signoria».

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Parrocchia.
Nei primi tempi i Veneziani più ricchi raccoglievano intorno a sé sulle «tumbe» e sulle velme, ove abitavano, degli altri cittadini meno agiati, sopra i quali spandevano la loro protezione. I primi chiamavasi «convicini»; i secondi «clienti». Ne nacquero degli assembramenti di domicilii che sempre più s'ingrandirono, e nel cui mezzo si fabbricarono delle chiese. Ecco la origine delle così dette «plebi», «parrocchie», o «contrade». Le parrocchie di Venezia nel 1741 erano 73, nel 1807 furono ridotte a 40, e nel 1810 a 30, come sono oggidì.

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Parrucchetta (Ponte, Fondamenta, Rio Terrà, Ramo del)
a S. Giacomo dall'Orio. Dal ridicolo che prese a spargere la plebe sopra la strana parrucca onde coprivasi il capo un venditore di biade, che aveva qui presso bottega. Ciò vienci raccontato dal Dezan nelle sue illustrazioni all'«Iconografia» del Paganuzzi.

Sull'angolo d'una casa di stile archiacuto, ma poscia rimodernata, all'imboccatura del «Rio Terrà del Parrucchetta», scorgesi affisso alla muraglia un bassorilievo del secolo XV, che rappresenta la Giustizia e la Pace, fiancheggianti uno scudo gentilizio cogli stemmi delle famiglie Soranzo e Pisani insieme congiunti. Questo bassorilievo, che trovasi disegnato dal Grevembroch, è inciso pur anche nella «Storia della Scultura» del co. Cicognara, il quale dice che «pel tocco dello scarpello, la grazia e la semplicità dell'esecuzione, ci sembra appartenere ad artista di momento». Quanto alla casa sopra cui esiste, essa nel secolo XVI non era più dei Soranzo e Pisani, ma dei Contarini, ed al tempo del Cicognara, cioè al principio del secolo presente, apparteneva ad un Girolamo Morolin.

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Parrucchier (Calle e Corte, Corte, Calle del)
ai SS. Giovanni e Paolo. Da una bottega da parrucchiere che qui altre volte esisteva. L'arte dei Parrucchieri fino dal 1435 era unita a quella dei «Barbieri», avendo comune scuola di devozione, sotto il patrocinio dei SS. Cosma e Damiano, presso la chiesa dei Servi. Piccolo da principio era probabilmente il loro numero, giacché poco bisogno ne avevano i nostri uomini antichi, e le nostre donne, come si ha memoria, acconciavansi da sé medesime i capelli. E qui non possiamo omettere di far menzione d'una singolare tintura, da esse messa in opera per renderli biondi. Allorquando il sole era più cocente, andavano in altana, e si bagnavano la testa con una spugna imbevuta d'un'acqua intitolata «bionda», od «acqua di gioventù». Asciugati i capelli, tornavano a bagnarli per asciugarli di nuovo, e rinnovavano più volte sì fatto armeggio. Ciò facendo si coprivano le spalle con un accappatojo di seta bianca, detto «schiavonetto», e si coprivano la testa con un cappello di paglia senza fondo, detto «solana», per la cui apertura passavano i capelli che stendevano sulle tese dello stesso, esponendoli così ai raggi solari. Vedi il Vecellio: «Degli Habiti Antichi» ecc. ed il libro pubblicato nel 1865 a Parigi col titolo: «Les femmes blondes selon les Peintres de l'école de Venise» ecc., lavoro d'Armand Baschet e Feuillet de Conches.

Ma ritornando ai parrucchieri, l'epoca in cui senza dubbio fiorì maggiormente l'arte loro fu quella delle artificiali parrucche pegli uomini, e dei toupet per le donne. La moda delle artificiali parrucche pegli uomini ebbe principio circa all'anno 1665, ovvero 1668, per opera, a quanto dicesi, d'un Vinciguerra Collalto. A bella prima venne malissimo accolta, ed il Consiglio dei X tentò di sradicarla con decreto 29 maggio 1668. I vecchi sopra tutto le si mostravano avversi, anzi leggesi in tale proposito l'aneddoto seguente: Nicolò Erizzo era vaghissimo delle nuove costumanze, laonde portava calzette rosse, e scarpe bianche, ma soprattutto coprivasi il capo di lunghissima parrucca, e ciò tanto più volentieri in quanto che, essendo stato libertino in sua gioventù, aveva ricevuto un colpo di sciabola sulla fronte. Adirato perciò il di lui padre, diseredollo ove non volesse rinunziare ai nuovi arnesi, e sostituì come erede l'ospitale della Pietà. Né volendosi rimuovere Nicolò dal proprio assunto, giunse a segno di sborsare piuttosto, in via di transazione, sei mila ducati all'ospitale suddetto. Leggesi che, col decreto 7 maggio 1701, si pose un aggravio sopra chi portava la parrucca, e che il primo doge a portarla fu Giovanni Corner nel 1709. L'ultimo poi fra i nobili a non adottarne il costume fu Antonio Correr da S. Marcuola, morto il 7 gennaio 1757 M. V.

Moltissimi erano i parrucchieri al cadere della Repubblica, tantoché il Mutinelli nelle sue «Memorie storiche degli ultimi cinquanta anni della Repubblica Veneta», parlando della corruttela di quei tempi, ebbe a scrivere: «Millecinquecento parrucchieri finalmente (e già, a preferenza di qualsivoglia altro mercenario, li vedemmo servigiali, e schiuma brodo delle Loggie Massoniche) millecinquecento parrucchieri, cui per esercizio dell'arte loro confidentemente veniva schiusa la porta di ciascheduna stanza, e quella dei più custoditi recessi delle femmine, e delle damigelle, erano altrettanti sfacciatissimi ambasciatori di Cupido, e d'ingiusti favori mezzani infamissimi».

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Parucheta.
Vedi Parrucchetta.

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Paruta (Corte)
a S. Pantaleone. Questa corte, posta oltre il «Campiello Angaran detto Zen», manca del suo nome scritto sul muro, quantunque esso ci venga conservato dalle piante topografiche, nonché dall'Anagrafi del 1841, e ricordi il celebre Paolo Paruta domiciliato nel prossimo palazzo, di cui però non rimane che un avanzo. Il Coronelli dà inciso il palazzo suddetto colla annotazione: «Palazzo Paruta sopra il Rio di S. Pantaleone del già celebre storico Paruta».

I «Notatorî» del Gradenigo raccontano che una folgore, piombata nel 1726 in ca' Paruta a S. Pantaleone, arse la capigliatura d'un terrazzaio che colà stava lavorando.

La famiglia Paruta venne fra noi da Lucca nel secolo XIV colle altre che perfezionarono in Venezia l'arte della seta, e fu ascritta al patriziato nel 1381 per meriti acquistati nella guerra di Chioggia. Paolo Paruta, nato nel 1540, fu istoriografo della Repubblica, governatore di Brescia, ambasciatore, cavaliere, e Procuratore di S. Marco. Tra i varii suoi scritti, meritano alto posto d'onore i «Discorsi Politici», di cui Montesquieu fece uso nel libro: «Della Decadenza dell'Impero Romano». Venuto a morte nel 1598, ebbe sepoltura con epigrafe in chiesa di S. Pantaleone, ed il suo busto in marmo scorgesi nel monumento dei Paruta in chiesa dello Spirito Santo. Questa famiglia fu chiara altresì per dignità ecclesiastiche, e per belle prove di valore dimostrate nelle guerre contro i Turchi.

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Pasina (Campiello, Fondamenta, Traghetto della)
a S. Silvestro. Il Gallicciolli dice che questo sito appellavasi anticamente «pantano», e cita un documento del 1182 ove trovansi le seguenti parole: «Damus ecclesiae S. Silvestri totas illas stationes vel cameras positas in supradicto confinio S. Silvestri, permanentes sub palatio et ecclesia in Panthano»... Aggiunge poi che «pantano» equivaleva presso i Veneziani a «piscina», donde poi formossi «pasina». E' lecito però sospettare in quella vece che il nome derivi da qualche famiglia Pasini, una delle quali si trova aver abitato in parrocchia di S. Silvestro. Giovanni Pasini q. Giuliano «della seda», domiciliato a S. Silvestro, fece il suo testamento in atti Giacomo Zambelli l'8 aprile 1528.

Nel 1744 «G. B. Tiepolo pittor» abitava in «Pasina» a S. Silvestro in una casa del «N. U. Nuzio ab. Querini».

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Pasqualigo (Ponte)
a S. Maria Formosa. Questa famiglia che, secondo i Libri d'Oro, abitava a S. Maria Formosa, e che diede il nome ad altre strade di Venezia, riconosce per suo capostipite Pasqualigo, giovane dell'isola di Creta, che, imbarcatosi col doge Vitale Michiele per la spedizione d'Oriente nel 1120, vi fece tali pruove di valore da essere, alla sua venuta a Venezia, ammesso co' suoi discendenti al patriziato. Nel 1207 parte della famiglia Pasqualigo rimase del Consiglio, ed un'altra ne fu esclusa, ma vi rientrò nel 1381. Fra i Pasqualigo degni di storica menzione sceglieremo i quattro seguenti. G. Francesco, uomo dottissimo, fu nel 1483 ambasciatore a Genova, e nel 1484 capitano a Feltre. Egli compose due dialoghi latini, e meritò che il suo ritratto fosse posto nel salone del Maggior Consiglio fra gli altri cospicui senatori. Pietro si rese celebre per varie ambascerie al re di Portogallo, al re d'Ungheria, all'imperatore Massimiliano, ed a Francesco I re di Francia. Questo ultimo volle onorare in Milano le di lui esequie, e mandarne il cadavere a Venezia (anno 1515). Filippo, chiaro militare, trovossi nel 1571 alla battaglia delle Curzolari; poscia nel 1612, fatto generale di mare e di terra nell'Albania, flagellò gli Uscocchi, ed assediò Segna; da ultimo nel 1615 videsi ballottato doge. Marcantonio pugnò pur egli valorosamente nella battaglia di Nixia e Paros (an. 1651), in quella ove morì il generale Marcello (1656), e finalmente l'anno dopo nel conflitto ove cadde il generale Mocenigo.

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Passamonte (Calle del)
ai Tolentini, presso i «Tre Ponti». Non ebbe il nome questa Calle, come pretende il Berlan, dalla famiglia patrizia Passamonte, estintasi nel 1313, ma bensì da un'altra popolare del medesimo cognome, trovandosi che nel 1713 in «Calle del Passamonte» ai «Tre Ponti», le monache di S. Andrea possedevano due case, ed una bottega, appigionate a «Giacomo Passamonte fruttarol». Questo «Giacomo Passamonte, fruttarol alli Tre Ponti», fu citato il 6 luglio 1702 all'uffizio dell'«Avogaria» qual testimonio circa una famiglia Fontana, che voleva essere approvata cittadina originaria.

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Pazienze (Calle, Ponte, Calle Sporca delle)
ai Carmini. Dice il Quadri nella sua «Descrizione Topografica di Venezia», che queste strade sono così appellate perché erano vicine all'ospizio delle Pinzochere del Carmine, le quali lavoravano le «pazienze», cioè quelle piccole clamidi, che alcuni sogliono portare per divozione sotto le vesti. A noi però sembra più naturale che le strade suddette prendessero il nome dalla vendita che qui presso si facesse di «pazienze», come si pratica tuttora nella festività della Madonna del Carmine, tanto più che l'ospizio delle Pinzochere era situato veramente in «Calle Lunga» di S. Barnaba, non immediatamente vicino alla «Calle» ed al «Ponte delle Pazienze», ma soltanto di fronte alla «Calle Sporca delle Pazienze», perciò chiamata dagli Estimi «Calle sporca in fazza le Pinzochere».

Alcune femmine erano state ammesse fino dal 1300 a partecipare alle pie opere dei religiosi stanziati nel convento di S. M. del Carmine. Esse dapprima vissero separatamente, ma nel 1498 si raccolsero in una casa loro donata da un Luigi Vielmo, chiamandola di S. Maria della Speranza, e prendendo il nome di Terziarie, o Pinzochere del Carmine.

Perché alcune strade di Venezia si chiamino «Sporche», vedi Sporca (Calle).

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Pedrocchi (Calle)
a S. Moisè. Della famiglia Pedrocchi, domiciliata a San Moisè, troviamo parecchie memorie nel secolo passato. Un «Gerardo Pedrocchi», che nei Necrologi è detto «dalle biave», morto il 14 giugno 1715 in contrada di San Moisè, fu sepolto nella sua chiesa parrocchiale nel medesimo avello ove era stata deposta l'anno 1680 Maria Tabarrini di lui moglie. Un «Iseppo» ed un «G. Domenico Pedrocchi», intervenienti, da San Moisè, hanno luogo nello «Specchio d'ordine per tutto il mese d'Aprile 1761». Finalmente un «Giuseppe Pedrocchi», sensale, pur esso da S. Moisè, è compreso nella «Minerva Veneta» pell'anno 1785.

Anche a San Barnaba scorgi una «Calle Pedrocchi», che però negli Estimi viene chiamata «del Pedrocco». E così deve leggersi, sapendosi che in parrocchia di San Barnaba abitava nel secolo XVI una famiglia Pedrocco. Ecco come comincia una notifica dell'anno 1582: «Io Mauritio del q. M. Piero Pedrocco ceroicho a San Barnaba nelle case del Cl.mo M. Iseppo Trevisan» ecc.

Per la «Calle Pedrocchi» a Castello vedi Piscina o Pedrocchi (Calle).

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Pegoloto (Sottoportico, Campiello del)
ai Santi Ermagora e Fortunato. Vedi Pegola (Calle della).

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Pelle (Sottoportico, Corte della)
a San Samuele. Trassero probabilmente il nome dai depositi di pelle dei Calzolai Tedeschi, che presso questa corte avevano il loro ospizio. I Calzolai tedeschi si raccolsero in divota confraternita, per decreto del Consiglio dei X, 15 luglio 1383, nella chiesa di S. Stefano all'altare della B. V. Annunziata, da essi fabbricato. Il loro ospizio venne fondato nel secolo XIV, ed ampliato nel 1482 col dono di una casa fatto da un «Enrico del q. Corado calegher d'Alemagna». Nel 1659 ebbe una rifabbrica, come si rileva dall'iscrizione sottoposta al bassorilievo della facciata sopra la così detta «Calle delle Botteghe», il quale rappresenta l'Annunziazione con sotto la forma d'una scarpa, mentre altre forme di scarpe scorgonsi scolpite sui pilastri laterali. In quest'ospizio si accoglievano e si curavano i poveri calzolai venuti dall'Alemagna, e si mantenevano pure per tre giorni i calzolai dello stesso paese che per Venezia passavano. I Calzolai tedeschi avevano nella stessa chiesa di Santo Stefano le loro tombe colla epigrafe: mccccxxxvi a dì 13 lujo sepolture de tedeschi lavoranti calegheri.

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Pellegrin (Calle del)
a San Marco. L'osteria del Pellegrino era da principio di fronte al Palazzo Ducale. Ma quando colà si vollero erigere i nuovi edifici di seguito alla Zecca, trasportossi in questo sito, ove, alquanti anni fa, ancora si vedeva. Così trovasi scritto nei registri della Procuratia «de Supra»: «1554, 1 agosto. Zuane de Pedrezin da Bergamo tolse una casa et una bottega in Corazzaria, che soleva stare sier Bortolomio de Zampiero dai Cordovani, e fece l'hostaria del Pellegrino per ducati 38 all'anno, et per il primo anno spese duc. 30 per accomodarsi, et in questo tempo si trasportò la detta hostaria che stava per mezzo il palazzo».

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Penini (Fondamenta dei)
a San Martino. Ancora poco fa sopra questa Fondamenta, la quale è soggetta alla parrocchia di S. Giovanni in Bragora, eravi uno spaccio di «penini» (peducci allessi di agnello e castrato).

Poco discosto, in parrocchia di S. Martino, abbiamo un Ponte ed un'altra «Fondamenta dei Penini», che pell'istesso motivo saranno stati in origine così appellati.

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Penitenti (Fondamenta delle)
in Cannaregio. Avendosi proposto nel principio del secolo passato il sacerdote dell'Oratorio Rinaldo Bellini di formare un ospizio per donne traviate e pentite dei loro errori, associossi all'opera una civile zitella per nome Maria Elisabetta Rossi, ed istituì nel 1703 un sovvegno di caritatevoli persone in chiesa di S. Luca. Con tali mezzi si raccolsero tosto alcune penitenti in una casa situata in «Corte Borella», presso ai SS. Giovanni e Paolo, nell'antico circondario di S. Marina, ma col progresso del tempo, essendo giunte le medesime a ventiquattro, e mancando lo spazio, il giorno 20 novembre 1705 vennero trasferite in una casa più ampia, presa a pigione in Cannaregio, di faccia S. Giobbe. La generosa intrapresa eccitò Marina Da Lezze, gentildonna veneziana, a legare il 4 aprile 1725 il valsente pell'acquisto della casa suddetta e pell'istituzione d'una mansioneria quotidiana. S'accrebbero dopo tale esempio le limosine ed i legati a segno che si potè far sorgere il sussistente fabbricato, e l'annessa chiesa architettata dal Massari, e consecrata da Lorenzo Da Ponte vescovo di Ceneda nel 1763, sotto il titolo del Patrocinio di Maria Vergine. Nel 1807 si concentrarono in questo istituto pur anche le donne della Casa del Soccorso, allora soppressa. In questi ultimi anni però le Penitenti vennero trasportate per qualche tempo nel locale dei Catecumeni, ma quindi ritornarono nel loro pristino asilo.

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Pensieri (Fondamenta, ora Rio terrà dei)
a S. Maria Maggiore. Vuolsi che questa fondamenta abbia tratto il nome dal sito solitario acconcio alle meditazioni, oppure dal passeggiare che per essa facevano coloro i quali dovevano pensare alle loro disgraziate vicende. Aggiunge il Dezan che la fondamenta medesima era per lo passato molto tetra perché fiancheggiata da un rivo la cui acqua appariva nera, a cagione dell'alto muro, nell'estate coperto d'erba, che in essa riflettevasi.

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Perdon (Calle, Corte del)
a S. Apollinare. Nacque questo nome dalla tradizione che nel prossimo Sottoportico, detto «della Madonna» per un altarino sacro alla Vergine, abbia riposato Alessandro III, fuggente dalle persecuzioni del Barbarossa, la prima notte del suo arrivo a Venezia, ed abbia concesso indulgenza perpetua a chi in questo recitasse un «pater», ed un'«ave». Di tal tradizione conservasi memoria intagliata in legno all'ingresso del Sottoportico. In tale proposito noteremo col Cicogna che è indubitata la venuta d'Alessandro III a Venezia nel 1177, e che molti scrittori riportano essere questo papa arrivato occulto fra noi, ma che niuno dice aver egli riposato la prima notte del suo arrivo a S. Apollinare, sostenendo anzi i più successo tal fatto sotto il vestibolo della chiesa di S. Salvatore. Sembra quindi che l'indicata tradizione debba riporsi nel numero delle favole.

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Perina (Sottoportico e Corte)
a S. Lio. Abitava in questa corte nel 1661 «Giacomo Perini», maestro di scuola, in una casa posseduta in parte dal N. U. Daniel Gradenigo, ed in parte dalla eredità di Nicolò Pisani. V'abitava pure «Paolo Perini barbier» in una casa dei N. U. Camillo e fratelli Malipieri. Ambidue forse erano d'una stessa famiglia.

La «Corte Perina», otturato il vecchio e basso Sottoportico, che la metteva in comunicazione colla «Calle della Malvasia», e colla «Calle dell'Oratorio», ora dà accesso alle sunnominate località mediante un novello passaggio.

Presso questa Corte, al N. A. 5484, abitava e morì il celebre pittore Antonio Canal, detto il Canaletto.

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Perleri (Calle dei)
a S. Leonardo.

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Pesaro (Calle, Fondamenta, Ponte, Rio)
a S. Eustachio. Dal palazzo Pesaro, che venne incominciato, sopra disegno del Longhena, nel 1679, come leggesi in numeri romani sopra un cartello tenuto in mano da una statua del prospetto, e che ebbe compimento nel 1710. Sembrerebbe però che sopra quell'area esistesse un casamento più antico appartenente ai Pesaro, poiché trovasi scritto che il doge Giovanni Pesaro, nato nel 1590, cadde nella sua fanciullezza dal palazzo di sua famiglia in parrocchia di S. Eustachio. Qui cercò un rifugio l'ultimo doge Lodovico Manin dopo la sua abdicazione al principato.

I Pesaro, giusta il genealogista Barbaro, vennero a Venezia nel 1225 dalla città di questo nome in Romagna, ove dicevansi Palmieri, ed erano in nobile stato. Moltissimi uomini di merito sì nella toga che nell'armi resero chiara questa famiglia. A chi non è noto quel Benedetto Pesaro, generalissimo di mare, che fece decapitare sulla prora istessa della sua galera l'infedele Carlo Contarini, conquistò Cefalonia, S. Maura, ed Alessio, liberò dall'assedio Napoli di Romania, e morì a Corfù nel 1503 dopo avervi onorevolmente segnato la pace? Sono pure memorabili le azioni di Girolamo figlio di Benedetto; di Giacomo vescovo di Pafo, eletto nel 1501 dal pontefice legato apostolico, e generale dell'armata papale collegata a quella dei Veneziani; nonché di Francesco arcivescovo di Zara, quindi patriarca titolare di Costantinopoli, e finalmente nominato dal Senato vescovo di Brescia, morto nel 1544. Né va dimenticato Giovanni Pesaro, fatto doge nel 1658, uomo celebre per maturità di consiglio, per varie ambascerie anteriormente sostenute, e per avere focosamente arringato innanzi ai padri acciocché si continuasse la guerra contro il Turco. Nel codice del Gradenigo, altre volte citato, col titolo «Casi Memorabili Veneziani», si legge che, all'elezione di questo doge, si vide attaccato alle muraglie della città il seguente cartello:

Viva il Pesaro dal Caro

Che l'è sta in preson per laro,

E per ultima pazia

L'à sposà dona Maria.

Non sapendosi però che il doge Pesaro abbia sposato alcuna donna di nome Maria, si può ritenere che la satira anzidetta sia uscita in quella vece al momento dell'ingresso a Procuratore di S. Marco di Leonardo Pesaro, nipote del doge (an. 1649) il quale nel 1648 aveva sposato Marietta di Giovanni Priuli. Qui poi, per ispiegazione di quell'aggiunta «dal Carro», deve sapersi che la famiglia Pesaro era così soprannominata perché ad essa apparteneva quella macchina, fatta in forma di carro, la quale trasportava le barche dal canale di Lizza-Fusina alla laguna, e da questa a quello, dopoché nel 1324 si comandò d'erigere un argine in capo del canale medesimo perché le acque del Brenta non isgorgassero nella laguna. Nel 1561 fu tolto l'argine, e levato il «carro», costruendosi in quella vece le «Porte del Moranzan», che anch'esse furono di giurisdizione dei Pesaro, per la qual cosa, quando le medesime nel 1613 si dichiararono di pubblico diritto, i Pesaro ricevettero un risarcimento.

La famiglia Pesaro riedificò la chiesa di S. Giovanni Decollato, costrusse, oltre varii palazzi, un magnifico altare, e suntuosi mausolei in chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari, ed impartì il nome a più strade di Venezia. Essa, che in tempi a noi più vicini produsse quel Francesco procuratore di S. Marco, e gran fautore della neutralità armata al cadere della Repubblica, andò estinta nel minore fratello di Francesco, il quale aveva sostenuto la carica d'ambasciatore a Roma.

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Pescaria (Ponte, Traghetto di)
a Rialto. Questa pescheria fu stabilita nel 1332, e ne parla il Savina all'anno 1398 colle parole: «Fu compida la Fondamenta della Pescaria di Rialto di pietra e della Fruttaria, la qual gera in prima de legname, comenziando ai Camerlenghi di Comune fino al traghetto di S. Sofia, zoè alle barche che se va a Padova». Qui, come appare da un decreto del 1381, riportato dal Gallicciolli, si vendevano, oltre il pesce, gli uccelli, la qual usanza continuò anche nei secoli susseguenti. Riporta il Sanudo che il 23 ottobre 1531 si decretò di «salizzare la Pescaria disfatta per il fuoco fo nel ostaria di la Torre».

Nel 1884 la Pescheria fu rifatta con barocchissimo coperto di ferro.

I Pescatori erano a migliaia verso il cadere della Repubblica, ma i così detti «Compravendi pesce» centocinquantotto soltanto. Tale mestiere si riservava ai soli pescatori di S. Nicolò e di Poveglia dopo che avessero pescato per anni 20, e giunti fossero agli anni cinquanta d'età. In questo modo si voleva dare una ricompensa a quegli uomini benemeriti che avevano travagliato nella pesca, e più non potevano, come la gioventù, sopportare fatiche, veglie, e pericoli. I «Compravendi pesce» si radunavano in chiesa della B. V. del Carmine sotto la protezione di S. Nicolò, mentre i Pescatori possedevano un'apposita scuola di divozione, situata fuori della chiesa medesima, e dedicata a S. Alberto, nonché altre in altre chiese.

Oltre che a Rialto, in qualche altro luogo, ove si vende pesce, troviamo il nome di «Pescaria».

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Peschiera (Corte, Ramo Corte)
a S. Martino. E' cosa molto probabile che qui resti memoria di quell'antica piscina, o peschiera, che nel secolo XIV fu argomento d'una contesa fra il gentiluomo Marco Celsi, e fra i patroni dell'Arsenale, ed altri vicini, volendo il primo che fosse di sua privata proprietà, ed i secondi di ragione comune. Esiste nel Codice del Piovego la relativa sentenza, uscita l'anno 1329 a danno del Celsi. In un punto di essa si dice che la suddetta «piscina, quae dicitur piscaria», aprivasi «post bersalium S. Martini inter arsenatum comunis, et possessiones D. Marci Celsi de confinio S. Trinitatis». In un altro punto che il «logo dito peschera giaceva nella contrà di S. Trinità appresso l'Arsenà del Comune». In un terzo finalmente che tale peschiera era posta «inter convicinantes S. Martini et S. Trinitatis et arsenatum comunis». Ora si getti uno sguardo alla «Corte» ed al «Ramo Corte Peschiera» attualmente esistenti, e vedrassi che si stendono fra la Calle tuttora chiamata «Celsi», e l'Arsenale. Vedrassi in secondo luogo dagli Estimi che queste località, quantunque comprese nello antico circondario di S. Ternita, erano, per così dire, a cavaliere delle due antiche parrocchie di S. Ternita e di S. Martino. Sembra poi che la peschiera di cui trattiamo abbracciasse, prima del suo interramento, uno spazio molto più esteso di quello abbracciato oggidì dalla Corte, e dal Ramo Corte, che ne portano il nome.

Presso «Corte Peschiera» a S. Martino, esisteva il piccolo ospizio di S. Orsola, così detto perché un tempo era sotto la direzione delle due scuole di S. Orsola e dei «Mercanti». Esso, con un prossimo oratorio, era stato eretto sotto il titolo di S. Giovanni Battista, nel 1318 per testamento di «Zuane Polini» a beneficio di tre poveri marinai. E qualche povero ha qui tuttora gratuita abitazione. Nel suddetto ospizio fu accolto Andrea Chiribiri, ultimo piloto, od ammiraglio del bucintoro, dal cui cenno dipendevano il Doge e la Signoria per muovere al Lido in occasione del celebre sposalizio del mare. Il Chiribiri era entrato l'anno 1826 nella Casa di Ricovero, ma trattenutosi un giorno solo nell'istituto inquietissimo, e ripugnante a vestir l'abito, la mattina seguente rifiutò il benefizio, dichiarando ch'egli «galantuomo non sapea star fra i birbanti». Due anni appresso, costretto dalla miseria, dovette riparare nell'Ospizio di S. Orsola, ove poco dopo venne a morte. Vedi il conte Pier Luigi Bembo: «Degli Istituti di Beneficenza nella Città e Provincia di Venezia. Venezia, Naratovich, 1859». Questo Chiribiri, caduta la Repubblica, avevasi sbracciato grandemente per la Democrazia, ed aveva ricevuto in dono dai demagoghi, a nome di Venezia riconoscente, un cammeo di calcedonio orientale, rappresentante la testa di Giove Oleario, sottratto dalla biblioteca di San Marco.

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Pestrìn (Calle, Ponte, Rio del)
a S. Stefano. Da un «pestrino» (luogo ove si vende latte) con annesso stallo di armente, il quale esisteva in questo sito fino dal secolo XV, poiché il Sabellico, dopo aver parlato della chiesa e convento di S. Stefano, così continua: «In fronte coemeterium; mox est vicus cum bubulis stabulis et lacte omnifariam venali».

Della «Calle del Pestrin» a S. Stefano parla la Cronaca del Barbo all'anno 1540: «Nel d. mill.o adì... lujo, de notte, entrò fuogo in cha Bembo in S. Stephano in Calle del Pestrin, la qual casa passa su la salizzada del Traghetto de S. Tomà, et brusò tutta quella casa con gran danno de alcuni vesini, et alcuni magazini da oio, li quali se dise esser de m.r Z.M.a Zonta, li quali li fo robbadi».

Nel 1855 fu riaperto il vecchio passaggio presso il «Ponte del Pestrin», il quale, per mezzo della «Fondamenta Narisi», metteva alla «Corte dell'Albero».

Altre strade di Venezia presero il nome dai prossimi pestrini, fra i quali ci piace rammentare quello di S. Maria Formosa, non lontano da un palazzo tuttora posseduto da un ramo della patrizia famiglia Morosini, perciò detto «dal Pestrin». Pietro Paraleoni racconta in una sua epistola che, avendo una fiata divampato un grande incendio in questo palazzo, ebbe a rifugiarsi una fantesca, con un bambino fra le braccia, sopra la sommità d'una torre, che serviva di specola a comodo della famiglia. Già le fiamme stavano per invadere anche quell'ultimo luogo di salvezza, quando un marinajo di Candia, molto esperto nel saettare, afferrò un arco, e scoccò verso la torre una freccia, appesovi un lungo filo, che dalla fantesca fu rimandato abbasso per tirar su una cordicella, e quindi colla cordicella una grossa fune, alla quale attaccato il marinajo ascese prestamente, e quindi calò a terra, portando in salvo fantesca e bambino.

Il Grevembroch ci offre disegnata una vera di pozzo di stile arabo-bizantino, che esisteva in «Corte del Pestrin» a S. Maria Formosa.

L'arte dei «Pestrineri» fu eretta in corpo il 30 marzo 1656, e raccoglievasi nella chiesa di S. Matteo di Rialto all'altare di S. Giuseppe.

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Petriana (Corte)
a S. Apollinare. Sopra l'ingresso di questa Corte, e sul pozzo nel mezzo della medesima, scorgesi scolpito un albero con una mezza luna al piede, stemma della cittadinesca famiglia Petriani. Il capostipite di tale famiglia in Venezia fu un Antonio, maestro di grammatica, figlio di Jacopo, dottore in medicina, il quale fu eletto cittadino veneziano con privilegio 7 maggio 1396, da cui si apprende che era venuto da Cassia, terra dell'Umbia, e che allora abitava in parrocchia di San Apollinare. Egli fece testamento il 17 settembre 1413 chiamandosi «Antonius de Petriani rector scolarum, nunc civis et habitator Venetiarum in confinio S. Apollinaris», ed altrove «Anthuonio de Petriani rector della scuola della contrada di S. Aponal». In questo testamento voleva che le sue «do case in la contrada de S. Aponal» passassero in proprietà de' suoi «fioli mastoli, zoè Zanino e Nicolò», e loro eredi, mancando i quali, si vendessero, e si facesse un bell'altare «in chiesa dei frari minori, over dei frari predicatori». Disponeva che in una delle due case suddette potesse abitare la moglie Margarita. Divideva i suoi beni di Cassia fra Catterina sua sorella, e Giovanni figlio di suo fratello Matteo. Ordinava finalmente d'essere sepolto nell'arca che aveva comperato in chiesa di S. Apollinare «a man dreta al intrar de la porta granda de la dita chiesia».

I discendenti d'Antonio Petriani (uno dei quali, per nome Benedetto, fu condannato per latrocinio nel 1495) continuavano nel 1566 a possedere stabili «in contrà de S. Aponal in corte de cha Petriani, al traghetto di S. Benedetto». Nel secolo XVII questi erano però d'altri proprietarii.

In «Corte Petriana» eravi la tipografia di Nicolò Brenta, come appare da un'edizione, fatta nel secolo XV, di un trattato del frate Ugo Panziera, ove si legge: «Impresso in Venetia per Nicolò Brenta da Verona al Traghetto de San Polo, in Corte Petriana». (senza anno).

In «Corte Petriana», a S. Apollinare, Luigi Duodo e Marcantonio Correr eressero nel 1651 un piccolo teatro chiamato «Nuovissimo». Esso inaugurossi coll'«Oristeo», poesia di Giovanni Faustini, musica di Francesco Cavalli, e chiuse colle «Fortune di Rodope e Damira», poesia di Aurelio Aurelii, musica di D. Pietro Andrea Ziani. Tutte le opere colà rappresentate non furono che nove soltanto.

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Pezzana (Calle)
a San Polo. «Lorenzo Pezzana q. Z. B.» comperò con istrumento 26 febbraio 1724 M. V. in atti di Bartolammeo e Lorenzo fratelli Mandelli, una «casa in due soleri in contrà de S. Polo da Antonio Ventura q. Iseppo». Esaminando la Descrizione della contrada di San Polo pel 1740, si vede che questa casa era situata presso il Campo, e precisamente nella Calle che perciò venne detta «Pezzana» e più anticamente «Turlona». Lorenzo Pezzana possedeva altre case in Venezia nelle parrocchie di San Basso, S. Moisè, S. Silvestro e S. Felice con alcuni campi in Mestrina. Egli era nato nel 1679, e dalla moglie Catterina, figlia di G. Giorgio Chechel, cavaliere del Sacro Romano Impero, aveva avuto nel 1723 un figlio per nome Francesco, il quale, maritatosi con Elisabetta, figlia di Giovanni Leblond, console di Francia, fu padre di quell'altro Lorenzo che nel 1758 venne approvato cittadino originario. In quell'occasione, chiamati i testimoni a deporre presso l'«Avogaria» sul conto della famiglia Pezzana, dissero che essa da vario tempo aveva comperato un decentissimo stabile a S. Polo in «Calle Turlona», che negoziava in libri e stampe, e che, per via di matrimonii, era parente dei N. U. Baglioni, e della famiglia secretariesca Businello. E nei «Viaggi» del p. Coronelli è scritto: «I mercanti più cospicui dai quali si potrà» (il forestiero) «provvedere di libri sono i Baglioni, Combi e Lannou, Pezzana, e l'Hertz» ecc.

La «Calle Pezzana» è pur detta «Calle va alla Tipografia Tasso», perché metteva al tipografico stabilimento del fu Girolamo Tasso.

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Pégola (Calle della)
a San Martino. Molti «calafai», o «pegoloti», stanziavano in questa strada, non molto discosta dall'Arsenale. I «Calafai» erano sotto il patrocinio di S. Foca e della B. V. e raccoglievansi da bel principio in chiesa dei Carmini, dalla quale nel 1454 passarono in quella di S. Stefano per finalmente trasferirsi due secoli dopo nell'altra di S. Martino. Essi piantavano ogni festa in «Piazzetta di S. Marco» presso la «Porta della Carta» un banco, ove sedevano i Sindaci incaricati di pronunziar giudizio sopra coloro che violavano i diritti dell'arte. I calafai dell'Arsenale godevano d'alcuni privilegi, cioè di non venire arruolati nella milizia, e d'essere chiamati fuori dell'Arsenale quando si fossero costrutti navigli ad uso del commercio. Ascendevano al numero di 900.

Un'altra strada, probabilmente per lo stesso motivo detta «della Pegola», esiste a S. Sofia.

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Pétole (Calle delle)
a S. Nicolò. La troviamo denominata nelle Descrizioni della contrada di S. Nicolò «Calle de Petola», e crediamo che qui presso abitasse una famiglia di tale cognome, o soprannome. Un «Giacomo, dito Petola», venne ammazzato all'osteria del Sole in S. Matteo di Rialto il 23 gennaio 1568 M. V.

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Pèrgola (Rio della)
a S. Maria Mater Domini. Credono alcuni che abbia dato il nome a questo rivo la famiglia Dalla Pergola. Un Paolo Dalla Pergola, celebre filosofo peripatetico, fu pievano di S. Giovanni Elemosinario, e nel 1448 venne eletto al vescovato di Capodistria, ch'egli per altro ricusò d'accettare. Vedi Orsoni: «Dei Piovani di Venezia promossi alla dignità vescovile. Venezia, Alvisopoli, 1815».

Piacentini . Vedi Piasentini.

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Pianton (Calle)
a San Giovanni Nuovo. Il 18 febbraio 1709 M. V. un «Zuane Pianton, sanser da biave, q.m Francesco» da San Giovanni Nuovo, comparve all'uffizio dell'«Avogaria di Comun» qual testimonio di G. Battista Savoldello, che si voleva provare cittadino originario. Nella Descrizione poi della contrada di San Giovanni Nuovo pel 1740 scorgonsi un «Antonio e fratello Pianton» domiciliati non lungi dalla chiesa, ove appunto stendesi la «Calle Pianton», «Antonio Pianton», e «Manfrè», di lui fratello, erano figliuoli di «Zuane q.m Francesco». Ciò si deduce dai traslati del 1744 come si deduce dallo «Specchio d'Ordine per tutto il mese d'Aprile 1861» che «Manfrè Pianton» esercitava l'avvocatura, e che in quell'anno abitava a S. Giovanni Nuovo.

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Piasentini (Calle)
a S. Giovanni Nuovo. Da stabili che nel secolo trascorso vi possedeva la famiglia Piacentini, o Piasentini. Questa famiglia era domiciliata, fino dal secolo XIV, in Castelfranco, ove aveva i suoi beni, e faceva parte della cittadinanza, ma sembra che traesse l'origine, ed il cognome da Piacenza, poiché presentò all'«Avogaria» un documento per cui un suo ascendente, chiamato «Franceschinus de Placentia q.m Lanfranchi», ottenne nel 1390 dal podestà e capitano di Treviso Marco Zeno alcuni feudi in merito della dimostrata fedeltà, e dei danni sofferti quando alcuni traditori diedero in mano Castelfranco ai Carraresi. Un Andrea Piacentini da Castelfranco, ove nacque, portossi col suo fratello Giovanni, avvocato, a Venezia, e qui sposò nel 1710 Giovanna Roversi, che nel 1712 gli partorì il figlio Giuseppe, battezzato nella chiesa di San Giovanni Nuovo. Questo Giuseppe venne il 9 gennaio 1739 M. V. approvato cittadino originario.

Il Cicogna illustra nelle sue «Inscrizioni» alcune lapidi, che con alcuni bassorilievi vide scolpite nell'interno d'un palazzo in «Calle Piasentini», il quale venne fabbricato nel secolo XIV dalla patrizia famiglia Michiel, ebbe un ristauro da un Francesco Baffo, pure patrizio, vissuto alla metà del secolo XV, e quindi fu posseduto da varie altre famiglie, fra cui anche dalla Piacentini. Esso porta il N. A. 4392.

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Piavola (Ponte della).
Vedi S. Gallo.

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Piazza (Bocca di)
a S. Marco. E' questo un punto ove si viene ad imboccare la «Piazza di S. Marco».

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Piccolo (Ponte, Fondamenta, Rio del Ponte)
alla Giudecca. E' così detto questo ponte per la sua poca larghezza ed estensione.

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Pignate (Ponte delle)
a S. Luca, in «Calle dei Fabbri». Una bottega da «pignate», o pentole, scorgevasi ancora poco tempo fa sopra questo Ponte, il quale prima era appellato «Ponte del Bonomo o delle Pignate», e più anticamente «Ponte del Bonomo fruttariol» per un Bonomo di Bonomo, che nel secolo XVII qui presso esercitava il mestiere del fruttajuolo. Egli nel 1679 fu citato innanzi gli «Avogadori di Comun» qual testimonio circa Giuseppe e fratelli Monti, postulanti l'aggregazione alla cittadinanza originaria.

I Pentolai erano uniti agli «Squeleri» e «Bocaleri», della qual arte parleremo più innanzi. Vedi Squelini (Campiello dei).

Altra «Calle delle Pignate» havvi a S. Marziale.

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Pignater (Corte del)
all'Angelo Raffaele. In «Corte del Pignater», all'Angelo Raffaele, esisteva nel 1740 una «bottega da pignater di Antonio Martire», il quale pagava pigione all'«Ecc.te Roberti».

La denominazione è altrove ripetuta.

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Pignatera (Corte)
a S. Francesco della Vigna. Vedi Pignater (Corte del).

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Pignoletto (Calle del)
a S. Martino. Leggasi «Pugnaletto», come negli Estimi, da una famiglia così cognominata, che qui abitava. Anche dopo la metà del secolo trascorso, cioè nel 1761, viveva una «Pasqua Pugnaletto» da S. Martino (Anagrafi dei Provveditori alla Sanità).

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Pignoli (Calle, Campiello, Sottoportico, Ponte, Fondamenta dei)
a S. Giuliano. «Agostin de Vincenti dai pignoli q. Tommaso» fece testamento il 26 maggio 1599, in atti di G. Andrea Trevisan, nella casa di sua abitazione «in contrà de S. Zulian, nella Calle di pignoli». Egli lasciava usufruttuaria di parte delle sue sostanze la moglie Serena, morta la quale, voleva che tutto andasse venduto, e che col ricavato si facessero quattro esequie annuali nella chiesa di S. Giuliano e si dessero ducati cinque all'anno a povere donzelle della contrada, «per maridar o monacar», elette dal capitolo della Scuola del Sacramento coll'intervento de' suoi commissarii. Tali disposizioni vennero raffermate nel testamento della moglie, fatto il 5 gennaio 1601 M. V. nella medesima parrocchia di San Giuliano, in atti di Lucillo Beaziano, ove essa si nomina «Serena fiola del q. Prandin dei Prandini, e relita de m. Agostin de Vincenti dai Pignoli». Ciò basta per ispiegare l'origine delle surriferite denominazioni.

Il «Campiello dei Pignoli» a S. Giuliano era appellato, come si vede nel catasto del 1713, «Corte della Regina o dei Pignoli», in memoria di Tommasina Morosini, regina d'Ungheria. Abitando in Venezia Stefano, principe reale d'Ungheria, e frequentando la casa d'Albertino Morosini, il «grando», da S. Giuliano, invaghissi della di lui sorella Tommasina, ed, ottenutala in moglie, divenne padre del principe Andrea detto perciò il Veneziano, che fu condotto dalla madre e dallo zio in Ungheria, e poscia incoronato sotto il nome d'Andrea III nel 1290. Egli morì nel 1301 senza figli, ed allora Albertino veduta passare la corona sul capo di Venceslao re di Boemia, tornò colla sorella a Venezia, ove si fece edificare una casa a S. Giuliano nella corte di cui parliamo. In questa casa Tommasina chiuse i suoi giorni.

Sulla «Fondamenta dei Pignoli», nel cortile al N. A. 1490, scorgesi una magnifica «vera» di pozzo, lavoro dei Bon. Essa venne fatta costruire dalla cittadinesca famiglia «Menor dalla Gatta», per cui sopra tre faccie vediamo la parola Menor, sopra due lo scudo scaglionato, stemma di questa famiglia, e sopra una, le gatte, ripetute sopra un avanzo dei marmorei sedili, che un tempo circondavano tutta la corte. Un'ultima memoria dei Menor dalla Gatta la ritroviamo nel catasto del 1713, che descrive in queste località uno stabile ed un negozio da malvasia, posseduti da «Bortolo Filosi», il quale però pagava cinquantasei annui ducati, metà a «Sebastiano dalla Gatta», e metà alla «sig.ra Lucietta dalla Gatta», di lui sorella, unitamente a due secchi di moscato a titolo di regalia.

Aggiungeremo che, secondo una scheda manoscritta del Cicogna (Busta 1544 al Civico Museo), qui avrebbe abitato il celebre generale della Repubblica Stefano, od Erasmo, da Narni, detto «Gattamelata». Questa però potrebbe essere un'invenzione popolare derivante dalla «Gatte» del pozzo e dei sedili, e dal soprannome «Gattamelata».

Anche un Sottoportico, ed una Corte in «Frezzeria» si dicono «dei Pignoli», probabilmente perché anche colà vi sarà stato qualche venditore di «pignoli», o pinocchi.

In «Corte dei Pignoli», in «Frezzeria», esiste tuttora un ospizio composto di quattro stanze, le quali furono lasciate per abitazione di altrettante «povere vedove di buona condition et fama», da Bonafemmina Diletti con testamento 30 aprile 1375.

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Pii (Corte dei)
a S. Matteo di Rialto. E' detta negli Estimi «Corte dei Pii sive Piedi», avendo preso il nome dai piedi di manzo, vitello e castrato, soliti ad essere cucinati dai «Luganegheri», i quali stanziavano, ed anzi avevano una casa di loro proprietà, nella cui saletta superiore leggevasi un'iscrizione d'infamia, relativa ad un Carlo Salchi, «fattor» dell'arte, che nel 1743 fu bandito per gravissimo intacco fatto alla cassa dell'arte medesima.

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Pindemonte (Calle ecc.).
Vedi Marcello.

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Pinelli (Calle).
Vedi Bragadin o Pinelli.

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Piombo (Rio del)
a S. Marina. Chiamavasi anticamente «Rio del Brusa Piombo» da un fonditore di piombo che qui stanziava nel secolo XVI. Leggesi nei Necrologi Sanitarii che il 5 giugno 1559 morì in parrocchia di S. Marina «Pasqueta fia de Domenego brusa piombo».

Anche la vicina «Calle del Forno» per la medesima ragione si chiama «del Piombo». Vedi Forno (Calle del) o del Piombo.

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Piova (Ponte della)
all'Angelo Raffaele. Dice il Dezan che questo Ponte trasse il nome da un ramo della famiglia Nani, appellato «dalla Piova».

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Piovene (Ramo)
alla Maddalena. La famiglia Piovene ebbe origine in Vicenza, e, fra molti altri valorosi guerrieri, vanta quel Guido, il quale servì nelle guerre del suo tempo sotto Carlo V, il re di Francia, ed il duca di Savoia, da cui venne spedito ambasciatore alla Repubblica Veneta. Per questa potenza andò in Cipro luogotenente generale della cavalleria, e sacrificò la vita nell'assedio di Nicosia. Antonio e fratelli Piovene, dietro la solita offerta di centomila ducati, furono ammessi al patriziato nel 1655. Girolamo, figliuolo d'Antonio, buon letterato, e principe della veneziana accademia dei Dodonei, sposò nel 1670 Cecilia, figliuola di Pietro Soranzo. In virtù di tale matrimonio, il palazzo Soranzo alla Maddalena, architettato sullo stile dei Lombardi, passò nei Piovene, donde il nome alla via sopraindicata.

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Pirieta (Sottoportico e Corte del)
a San Bartolomeo. Dice il continuatore del Berlan che anche negli ultimi tempi esisteva in questa situazione una bottega da «pirieta», o «pirier». In effetto dalla Descrizione della contrada di S. Bartolammeo pel 1740 qui è collocato un «botteghin sotto el portego tenuto da Girolamo Visoni pirier».

Sotto il nome di «piriete», o «pirieri», si conoscono i lavoranti di latta, i quali si occupano principalmente a costruire imbuti («pirie»). Questi artieri dipendevano dai Merciaj, e si sa che volevano emanciparsene sotto il pretesto che l'arte loro era più affine a quella dei fabbri. La causa fu ventilata innanzi al magistrato dei «Provveditori di Comun», ma i primi la perdettero il 9 settembre 1626. Essi nel 12 del mese medesimo si appellarono al Collegio dei X Savii, tornando però ad avere sentenza contraria l'11 gennaio 1627. Dovettero quindi rimanere uniti ai Merciaj, ed in tale condizione si trovavano anche al cadere della Repubblica, il che è provato dal manoscritto d'Apollonio Dal Senno.

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Pisana (Calle)
a S. Alvise. La «N. D. Bianca Pisana relita del N. U. Alvise Morosini» possedeva vari stabili in questa strada nel 1713. Per la famiglia vedi l'articolo susseguente.

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Piscina (Calle, Campiello di)
in «Frezzeria». Eranvi anticamente in Venezia molti stagni, appellati laghi, piscine, e talvolta «piscariae», i quali servivano alla pesca, ed all'esercizio del nuoto. Anche dopo che furono interrati, per cura dei Capi dei Sestieri, conservarono il nome primiero. Troviamo quindi, oltre l'indicata appellazione, quelle di «Piscina di San Giuliano», «Piscina di San Moisè», «Piscina di S. Samuele», ecc.

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Pisciutta (Corte)
a S. Alvise. Era questa Corte sottoposta alla parrocchia dei Santi Ermagora e Fortunato, volgarmente «San Marcuola». Un Matteo «Pisciutta», o «Pischiutta», «barbier», abitava nel principio del secolo trascorso in quella parrocchia.

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Pizzochere (Corte delle)
all'Angelo Raffaele. Qui esisteva un antichissimo convento di pinzochere o terziarie francescane, detto la «Ca' grande» pel gran numero delle abitatrici. Questo fabbricato sorse nel 1207 per opera della famiglia Acotanto, e da principio servì ad accogliere pellegrini. Dopo un'epoca non troppo lunga vi entrarono le suddette monache, poiché il Cornaro cita un documento col quale papa Nicolò IV, eletto nel 1288, concede ad esse di avere un sacerdote per visitatore e confessore. Dal convento delle pinzochere dell'Angelo uscì Lucia Tagliapietra, che fiorì circa il 1355, e che dopo morte fu posta nel novero delle beate. Ora il locale serve ad uso dell'istituto di educazione femminile fondato nel 1807 dal p. Pietro Sanzonio in parrocchia di S. Basilio, e qui nel 1812 trasportato, il quale, dopo il 1841, a merito del sacerdote Antonio Vason, fu sottoposto alla direzione delle suore oblate di S. Filippo Neri. Allora ampliossi la fabbrica coll'aggiunta del vicino palazzo Minotto.

Un'altra «Corte delle Pizzochere», o «delle Pinzochere», havvi a S. Stefano, e colà, secondo gli Estimi, in una casa della patrizia famiglia Da Lezze, stanziavano le pinzochere agostiniane. Tuttora sopra l'ingresso della Corte, e sul pozzo scorgesi lo stemma di questa famiglia. Le pinzochere agostiniane avevano in chiesa di S. Stefano altare sacro a S. Monica, madre di S. Agostino con arca nel chiostro dei padri. Il p. Rocco Curti nella sua raccolta inedita d'iscrizioni le chiama «Mantellate, o Terziarie Agostiniane», e dice: «Queste religiose hanno la loro arca nell'ala del Chiostro che guarda verso il muro della chiesa, e conduce direttamente alla porta del convento, dirimpetto alla Calle del Pestrino. Sopra la lapide vedesi effigiata una donna vestita da terziaria, e nel giornale della sacrestia dell'anno 1444, e seguenti apparisce esservi state sepolte di dette religiose». Esse però più tardi ebbero tomba nella chiesa di S. Stefano coll'iscrizione: D. O. M. Augustiniensium Mantellatarum Tumulus MDCCLI. Da una supplica, che presentarono nel 1686 per poter comperare lo stabile ove abitavano, si rileva che erano in numero di 14.

Oltre quelle che erano raccolte in formali conventi, portavano il nome di pinzochere anche certe altre donne, che si dedicavano ad esercizii spirituali negli ospizii fondati dalla pietà cittadina ma che vivevano al secolo. Perciò l'estimo del 1661 nota nella parrocchia dell'Angelo Raffaele, «l'ospedaletto della Maddalena, sive pinzochere». Perciò abbiamo un «Sottoportico» ed una «Corte delle Pizzochere» a S. Moisè, ove i Procuratori «de Supra», come commissarii di Francesco Giustinian, dispensavano alcune case a povere, ed una «Corte delle Pizzochere» a S. Maria Nuova, ove altre povere erano ricoverate nei sedici alberghi della commissaria «Antonio dal Deserto».

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Polacca (Sottoportico e Corte)
a Castello. Queste strade, soggette un tempo alla parrocchia di S. Biagio, trassero il nome da una famiglia Polacco. «Francesco Polaco», capitano di Rialto, figliuolo di G. Domenico, abitava nel principio nel secolo XVI e possedeva stabili in detta parrocchia. Egli fece il suo testamento il 18 giugno 1513, in atti di Cristoforo Riccio pievano di S. Moisè e pubblico notajo, ordinando che sopra gli affitti delle case poste in parrocchia di S. Biagio, e sopra quelli d'altre case che aveva nella finitima parrocchia di S. Pietro, si dessero due ducati annui ai frati di S. Francesco della Vigna, e due ai frati di S. Domenico di Castello. Sembra che morisse nell'anno medesimo, poiché nel catasto del 1514 troviamo le notifiche di G. Andrea di lui nipote e d'Alvise di lui figlio. Questi morì nel 1539, leggendosi nei Necrologi Sanitarii: «Adì 5 agosto 1539. Alvise Polacho. S. Biaxio».

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Polvere (Sottoportico, Corte Nuova della)
in «Frezzeria». Da una fabbrica di polvere di Cipro, tenuta da un Bortolo Lucadello, il cui figlio G. Battista ottenne un privilegio dal Magistrato alla Sanità nel 1763. Di questa polvere al tempo della Repubblica si faceva un uso grandissimo pei «toupet» delle dame e per le parrucche dei gentiluomini. La vendevano i così detti «muschieri» (profumieri) dipendenti dall'arte dei Merciai, dai quali nel 1551 tentarono di staccarsi, benché in seguito, vedendo di non poter accampare valide ragioni, venissero ad un componimento, riserbandosi il solo diritto di creare i loro soprastanti. Essi nel 1708 rinnovarono il medesimo tentativo, ma inutilmente, perloché, anche al cadere della Repubblica, erano uniti all'arte dei Merciai, trovandosi nel manoscritto Dal Senno fra i colonnelli dell'arte suddetta «i fabbricatori e venditori di polvere di cipro, compresi sotto il titolo di muschieri». Avevano però scuola di devozione separata, sacra alla Natività di M. V. in chiesa di S. Andrea Apostolo.

Quanto alla denominazione di «Corte Nuova», vedi Nuova (Corte).

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Pomeri (Calle, Campiello dei)
in Quintavalle. Vedi Fico (Ramo ecc. del).

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Pometti (Calle)
ai SS. Gervasio e Protasio. Era domiciliato in questa calle nel 1661 un «Lunardo Pometti», pagando pigione a «D. Luca Vignola». Ed una «Silvestra», moglie di «Lunardo Pometti vendi fassine», morì il 19 decembre 1649 nella parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio.

La «Calle Pometti» anticamente chiamavasi «del Gruato» perché la famiglia Gruato vi possedeva alcuni stabili, che poscia pervennero alla Scuola Grande di S. Rocco. Qui presso «fu l'abitazione di Giacomo Sansovino architetto, mentre dimorava in Venezia al servizio di questa serenissima Repubblica». Così sta scritto sotto il disegno delle case di ragione della commissaria Gruato, il quale faceva parte dell'archivio di S. Rocco, ed ora conservasi nel nostro Archivio di Stato. Scorrendo poi i documenti relativi alla commissaria medesima, si scorgono i litigi insorti in varie occasioni fra Jacopo Sansovino che fabbricava, ed il vicino Girolamo Gruato. Ed anche nel contratto di nozze, stipulato in Venezia il 29 gennaio 1553 tra «Francesco di Jacopo Sansovino, e Beneta Misocca», si fa menzione degli stabili del celebre architetto, leggendosi che questi donava al figlio «tutte le case o fabbriche le quali... ha fabbricato, e fabbricherà, nella contrada di S. Trovaso per mezzo la chiesa d'Ognissanti». La «Calle Pometti», in effetto, guarda per di dietro la chiesa delle monache d'Ognissanti. Prima di chiudere quest'articolo è d'uopo però d'avvertire il lettore che ben può esservi stato tempo in cui Jacopo Sansovino abbia abitato in una delle accennate case, ma che la sua sede più lunga fu in un palazzo delle «Procuratie Vecchie», ove pure morì. Vedi S. Basso (Calle).

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Pompea (Calle)
alla Carità. Da una famiglia Pompeo. Troviamo nel secolo XVI un frate servita di questo cognome, il quale nel 1566 così incominciò la condizione dei proprii beni: «Io fra' Giovanni Pompeo de Venetia dei Servi» ecc. Egli notificò alcuni livelli attivi coi padri della Carità.

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Pontèi (Sottoportico e Corte)
a S. Cassiano. I puntelli, alcuni dei quali ancora esistono, posti per sorreggere le case circostanti, diedero il nome a queste località. Il catastico del 1582 nomina la «Calle dei Pontei, sive travetti», a S. Cassiano.

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Portinari (Fondamenta dei)
a S. Martino. Nella Descrizione della contrada di S. Martino pel 1661 si registrano quattro case che erano assegnate in questo sito ai «portoneri», o portinaj dell'Arsenale. Essi erano coloro che aprivano le così dette porte dell'Arsenale perché vi potessero entrare ed uscire i navigli.

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Portón (Corte del)
alla Madonna dell'Orto. Da un'ampia porta che vi dà ingresso. Questa corte è detta anche «dei Mori», perché prossima alla fondamenta di tal nome.

Una «Calle del Porton», per eguale motivo così appellata, havvi eziandio presso la «Calle del Ghetto Nuovissimo».

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Pozzo (Sottoportico)
a Cannaregio. Vedi Pozzetto.

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Presepio (Corte del)
a S. Silvestro. Questa Corte, prossima al distrutto «Ponte dell'Olio», trasse la denominazione non, come dicono alcuni, da uno di quegli altarini soliti ad addobbarsi nelle case e nelle vie per la solennità del Natale, ma da una bottega da orefice all'insegna del «Presepio». Leggesi in una condizione del 1582 (Sestier di S. Polo): «Jo Sebastian del q. Giacomo orese al Presepio, al ponte dell'Olio, in Rialto, nella casa et bottega della mag.ca mad.na Virginia, fu moglie del q.m. Francesco Zorzi, dago in nota» ecc.

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Propria (Calle e Ramo)
in Birri. Son così dette queste strade per essere forse anticamente di privata ragione.

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Proverbi (Calle larga dei)
ai SS. Apostoli. S'intitola da due proverbi, che si leggevano intorno alle cornici di due balconi inferiori d'una casa, atterrata nel 1840, e poscia con altra sostituita. Il primo era così concepito: «Chi semina spine non vadi descalzo»; ed il secondo: «Dì de ti, e poi di me dirai».

In prossimità s'innalza un antico palazzo sulla cui porta stanno scolpite le parole: Soli Deo Honor Et Gloria. Entro eravi una bella «vera» di pozzo, che recava il motto: Servendo se acquista, ed uno stemma con torre, il quale scorgevasi pure replicatamente dipinto sopra l'alcova d'una delle stanze superiori. Questo casamento, che in origine apparteneva ad una delle nostre famiglie Dalla Torre, passò poscia nei Bellegno. In esso nel 1661 abitava il pittore Pietro Vecchia, e più tardi fiorì un teatrino privato, ove si rappresentarono parecchi melodrammi. Celebre ne è l'area perché credesi che vi si innalzasse il palazzo dei Partecipazi, quando, come tribuni, reggevano Rialto. Vedi Cason (Campiello della).

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Pugliese (Corte)
a S. Simeone Grande. Un «Z. Batt. Pugliese» abitava nel 1582 in parrocchia di S. Simeone Grande, pagando pigione a «Nicolò Pisani». Tuttora non lungi dalla «Corte Pugliese» havvi una «Calle Pisani» collo stemma della famiglia scolpito sopra l'arco d'ingresso.

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Pugnaletto (Calle del).
Vedi Pignoletto.

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Pugni (Ponte dei)
a S. Barnaba. E' noto che Venezia era anticamente divisa in due fazioni, un vestigio delle quali notasi ancora nelle regate. L'una chiamavasi dei Castellani, e l'altra dei Nicolotti. La prima era composta dagli abitanti delle parti orientali della città, alla cui estremità giace Castello; la seconda dagli abitanti delle parti occidentali, che vengono conterminate da S. Nicolò dei Mendicoli. I Castellani portavano per distintivo il berretto e la sciarpa rossi; i Nicolotti, invece, il berretto e la sciarpa neri. Nulla si sa di preciso intorno l'origine di queste fazioni. Chi le fa derivare dalle guerre civili fra quelli d'Eraclea e quelli di Jesolo, dopo le quali gli uni e gli altri vennero a stabilirsi in queste isole. Chi dall'uccisione di un vescovo di Castello, avvenuta per opera dei Nicolotti. Il governo alimentava le rivalità dei due partiti per avere uomini animosi ed addestrati alle zuffe, e forse per mantenere divisi i sudditi in modo che, se una porzione si fosse mai sollevata, l'altra fosse pronta a reprimere la ribellione. Ove i Castellani ed i Nicolotti cercavano maggiormente di superarsi a vicenda, era nel così detto combattimento dei pugni, che sottentrò alla guerra delle canne, o dei bastoni. Questo combattimento si permetteva da settembre a Natale, e facevasi per lo più sopra i ponti, fra i quali avevano la preferenza quello di S. Barnaba, di cui ora parliamo, e che perciò fu chiamato «Ponte dei Pugni», e quello di S. Fosca. I due ponti hanno sugli angoli della piazzetta impresse le orme ove i lottatori dovevano posare i piedi, ed uno di essi conservasi ancora «senza bande», costume adottato col pietoso fine che i combattenti, cadendo facilmente nell'acqua, fossero costretti in breve a separarsi, e desistere dall'ire. Il combattimento dei pugni continuò fino al 1705, epoca nella quale venne severamente proibito. Imperciocché nel 30 settembre di quell'anno il «Ponte dei Pugni a S. Barnaba» fu teatro di sanguinosissima lotta, che incominciò colle pugna, e finì coi sassi e coltelli. Tanto v'erano intenti i popolani che, essendosi sviluppato un fiero incendio nel monastero di S. Girolamo, niuno volle spiccarsi per estinguerlo, e fu d'uopo che un prete di S. Barnaba uscisse fuori con un crocifisso in mano per dividere i combattenti. Negli ultimi tempi della Repubblica i Castellani ed i Nicolotti erano costretti a limitarsi a gare ed esercizii meno crudeli, come le «Forze d'Ercole» e le «Regate».

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Punta
Così chiamasi ogni estremità del terreno verso le acque della Laguna.

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Purità (Ramo della)
a S. Barnaba. V'ha chi crede che questo nome dipenda dalla linea dei patrizii Marcello, soprannominata «dalla Purità» pei costumi pudichi d'un Andrea figlio di Giovanni, morto nel 1600. Ed invero sappiamo che i Marcello possedevano stabili in parrocchia di S. Barnaba. Altri pretendono invece che qui ci fosse un altarino sacro alla B. V. della Purità.

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Puti (Calle dei)
o Terrazzera a S. Barnaba. Un «Zamaria di Putti squerariol» notificò nel 1566 di possedere in parrocchia di S. Barnaba una casa, ove abitava, ed una quarta parte d'altra casa vicina con beni sotto Monselice.

Per la seconda denominazione vedi Terrazzera (Calle).

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