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Toponomastica Veneziana - S
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S. Agnese (Piscina, Campo, Rio Terrà).
Chi fa la chiesa di S. Agnese edificata dalla famiglia Melini, e chi dalla famiglia Molin. E' antichissima per certo, trovandosi in un documento del 1081 menzione di Pietro pievano di S. Agnese. Fu rinnovata dopo l'incendio del 1105, e consacrata nel 1321. Non abbiamo memorie precise circa le rifabbriche posteriori. Lo Stringa, che pubblicò le sue aggiunte alla «Venezia» del Sansovino nel 1604, la dice ai suoi tempi abbellita. Il pio benefattore Lodovico Bruzzoni l'abbellì anch'egli circa il 1670. L'atrio venne fatto restaurare dal prete e poscia pievano Salvatore Bertella nel 1733. I pievani ufficiarono questa chiesa fino al 1810, epoca in cui si chiuse, restando concentrata la parrocchia con quella di S. Maria del Rosario. La chiesa di S. Agnese servì dippoi ad uso di magazzino, ora di legname, ora di carbone, or d'altro. Ai nostri giorni venne riedificata sul disegno di Dal Peder, architetto della Marina Austriaca e riaperta nel 1854 a cura e dispendio dei due fratelli Cavanis, i quali, fino dal 1805, avevano fondato appresso la medesima, scuole gratuite per giovanetti, sotto il patrocinio di S. Giuseppe Calasanzio. Senonché fu nuovamente chiusa nel 1866 pei guasti prodotti dall'eruzione del prossimo pozzo artesiano, di cui parleremo più sotto, e tosto dopo demaniata. Finalmente, nel 1872, redenta dal demanio e restaurata, ebbe la sorte di riaprirsi al culto divino.

Presso la chiesa di S. Agnese esisteva, secondo il Sabellico, un piccolo romitaggio di donne, donde uscì Caterina fondatrice del monastero di S. Maria Maggiore.

A S. Agnese eravi un tempo un Conservatorio di Zitelle, da cui nel 1383, Giorgio Loredan rapì una figlia di Lodovico Zancani, che poscia violò, laonde fu condannato a due anni di carcere.

Nella contrada di S. Agnese vennero trasportati nel secolo XIV gli abitanti dell'isola di Poveglia, rissosi, e disobbedienti al governo.

Fino dal secolo XVI si scavò in contrada di S. Agnese uno di quei pozzi che chiamansi artesiani. Marin Sanuto ne' suoi «Diarii», manoscritti presso la Biblioteca Marciana, lasciò scritto in data 8 luglio 1533: «Veneno in colegio sier Vincenzo Zorzi sier Polo Loredan, sier Almorò Morexini Proveditori di Comun, dicendo eri, justa il comandamento del Serenissimo et illustrissima Signoria, essere stati a veder il pozo in la contrà di S. Agnese, fanno quelli do inzagneri che hanno hauto la gratia, videlicet Maistro Gabriel da Brexa et Maistro Arcanzolo Romutan da Vicenza, quali hanno cavato passa 12 in forma di pozzo, poi trivellato passa 4 passato la cuora, dicono aver trovato l'acqua dolze, et hanno stroppà il buso; cosa bellissima si la reense. Voleno ducati 50, et hanno la gratia per anni XX. Hor el Serenissimo et il Collegio ordinò fosseno balotà et dati». Il suddetto ingegnere M. Arcangelo da Vicenza trovò anche altrove l'acqua, che fu portata in Collegio e gustata dal medesimo Sanuto con grande compiacenza del doge Andrea Gritti. Al qual proposito dobbiamo ricordare come anche nel 1866, essendosi scavato uno dei pozzi sopradetti nella medesima contrada di S. Agnese, e precisamente in un orticello addetto alla fabbrica di birra, elevossi di colà una colonna di fango e di sabbia, che spinta dall'acqua e dal gas sprigionati dagli strati torbosi forati dalla trivella, slanciossi all'altezza di quaranta metri, diluviando le materie progettate sopra la chiesa, nonché sopra i vicini edifici, e danneggiandoli pel vuotamento del sottoposto terreno.

A Sant'Agnese, come si ritrae da uno dei suoi testamenti (23 settembre 1598), abitava quell'Antonio Foscarini, il cui tragico fine narreremo altrove. Vedi Foscarini (Ponte ecc.). Il di lui palazzo era posto precisamente sulla «Fondamenta» perciò chiamata «Foscarini», ove sorgevano le case ai N. A. 880, 881. Colà si scorgevano ancora pochi anni fa due antiche porte, sopra una delle quali leggevasi l'iscrizione: Decori Voluptati Emolumento, e sull'altra: Nihil Domestica Sede Iucundius. Avendosi però nel 1863 interrato il rivo di S. Agnese, scomparve la «Fondamenta Foscarini», distruggendosi eziandio gli avanzi del palazzo, nella quale occasione le due epigrafi surriferite vennero trasportate sopra le pareti di un prossimo novello terrazzo appartenente al fabbricato che porta il N.A. 880.

In contrada di S. Agnese sviluppossi per la prima volta la peste nel 1630, e precisamente nella persona d'un Giovanni Maria Tirinello, falegname, che abitava dietro il campanile. Egli aveva contratto il morbo fatale andando a costruire quattro caselli di legno capaci di ricoverare i Guardiani di Sanità nell'isola di S. Clemente, ove era morto di peste con cinque serventi il marchese di Strigis, ambasciatore del duca di Mantova all'imperatore, provenuto da luoghi infetti. Vedi l'opuscolo di Giovanni Casoni, intitolato: «La Peste di Venezia» ecc. Venezia, Alvisopoli, 1830.

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S. Agostino (Campo, Campiello).
La chiesa di S. Agostino fu edificata nel 959 da Pietro Marturio vescovo di Olivolo, il quale, per testamento, volle che fosse assoggettata ai vescovi suoi successori. S'abbruciò tre volte, cioè 1105, 1149, e 1634, dopo i quali incendi venne sempre rifabbricata. Ebbe l'ultima consacrazione nel 1691. Durò parrocchiale fino al 1808, in cui, per la prima concentrazione, divenne succursale, e poscia nel 1810 fu chiusa. Servì quindi ad uso di magazzino, e finalmente nel 1873 andò demolita.

In parrocchia di S. Agostino, e precisamente in «Campiello del Remer», sorgeva la casa dei Tiepolo, che diede stanza al doge Jacopo Tiepolo dopo la sua abdicazione successa nel 1249, e che nel 1310 venne atterrata per la famosa congiura Tiepolo-Querina. Vedi Remer (Campiello del).

V'era pure la casa dei Morosini, sopra la facciata della quale scorgevasi il piede d'uno dei quattro cavalli di bronzo stanti sul pronao della basilica di S. Marco, che erasi accidentalmente rotto nel trasporto da Costantinopoli a Venezia sulla galea di Domenico Morosini nel 1205. Allorquando si dispose che i cavalli suddetti servissero d'ornamento alla basilica, il piede mancante si fece di nuovo, e l'antico, rimasto ai Morosini, venne, come dicono le cronache, collocato sul prospetto di questa loro casa, che, coll'andar del tempo, passò nei Contarini, e che anche nei secoli XV e XVI era ricca della summentovata memoria.

Nella medesima parrocchia trovavasi, come si dice, un locale ove di sera soleva anticamente radunarsi la nobiltà per divagarsi dalle gravi cure della giornata. Ciò prima che si aprisse il «Ridotto» di S. Moisè.

In «Rio Terrà Secondo» a S. Agostino, sopra la casa al N. A. 2311 l'abate Zenier fece collocare l'epigrafe seguente: Manucia Gens Eruditor. Nem. Ignota Hoc Loci Arte Tipographica Excelluit. Qui però noteremo sapersi di certo che Aldo Manuzio «il vecchio» teneva la propria Stamperia a S. Agostino; apparire tuttavia che Paolo Manuzio, ed Aldo «il giovine» la tenevano invece a S. Paterniano, ove forse negli ultimi anni della sua vita avevala trasportata anche Aldo «il vecchio», sapendosi che in questa chiesa gli vennero fatti i funerali, e fu provvisoriamente tumulato; non sembrare quindi espressione esattissima quel Manucia Gens dell'epigrafe citata. Quanto poi al sito preciso della stamperia di Aldo «il vecchio» a S. Agostino, faremo osservare che nel libro di Firmin Didot, pubblicato a Parigi nel 1875, ed intitolato «Alde Manuce et l'Hellenisme à Venise», trovasi una lettera di Zaccaria Calergi a Giovanni Gregoropulo, diretta alla stamperia «de messer Aldo Romano sul campo de Santo Agostino... el pestore». Ecco dunque provato che essa Stamperia non esisteva ove scorgesi l'epigrafe, ma bensì in «Campo di S. Agostino». Con tutto ciò, allorquando nel 1877 gli studenti di lettere greche nello studio di Padova vollero donare a Venezia una nuova lapide in onore del Manuzio, collocossi anche questa, non senza l'intervento di dotti personaggi, vicino a quella dello Zenier, sanzionando così il pristino errore. Proponiamo adunque che le due lapidi di Aldo si pongano verso il «Campo di S. Agostino». E poiché nella soprascritta della lettera del Calergi leggonsi quelle due parole: «el pestore», precedute da altra parola, che, non potendosi forse rilevare nel manoscritto, venne sostituita da puntini, ma che potrebbe essere stata un «di sopra», oppure un «presso», le lapidi suindicate si trasferiscano sopra, o vicino la pistoria, che appunto è aperta in quel sito, e la cui esistenza è tanto antica da trovarsi fino nel catasto del 1661 una prossima strada contraddistinta, al pari di adesso, col nome di «Ramo del Pistor».

In Parrocchia di S. Agostino, finalmente, morì G. Battista Gallicciolli, autore delle «Memorie Venete», da noi molte volte citate. Così sta scritto nel Necrologio parrocchiale: «1806, 12 Maggio: il m. R. sig. D. Gio. Battista Gallicciolli q. Paolo veneto di anni 73, da nove giorni colto da emiplegia dal lato sinistro con febbre continua, remittente, mista a sintomi di lenta nervosa, questa mattina alle ore 11 circa finì di vivere per stasi cerebrale. Il suo cadavere dovrà essere tumulato al mezzo giorno circa. Santo Bianchi medico». Ed in aggiunta: «Fu portato in San Cassan». Infatti, il Gallicciolli era alunno della chiesa di S. Cassiano, ed in essa scorgesi il suo busto con onorevole iscrizione.

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S. Alvise (Campo, Rio, Secchere).
La chiesa di S. Lodovico, «vulgo di S. Alvise», deve, secondo i cronisti, la propria origine ad una visione che nel secolo XVI ebbe Antonia Venier, in cui le apparve S. Lodovico vescovo di Tolosa, comandandole di erigergli un tempio. La Venier fabbricò inoltre un monastero ove si ritirò con alcune compagne per professare la regola di S. Agostino. Questo monastero dilatossi dopo che nel 1411 vi concorsero parecchie monache Agostiniane fuggite da Serravalle in occasione di guerra. Nel 1806 esso accolse eziandio le monache di S. Caterina di Venezia. Nel 1810 fu soppresso, e divenne asilo delle fanciulle esposte, dopo il loro ritorno dalle balie campestri. Ora è occupato dalle Figlie di Carità, venute da S. Lucia. La chiesa, sorta nel 1388, fu rifabbricata nel 1430, e ristaurata verso la fine del secolo XVII.

Nel circondario di S. Alvise morì il celebre medico Santorio Santorio, come si ricava dalla seguente annotazione tratta dal necrologio parrocchiale della chiesa dei SS. Ermagora e Fortunato: «A di 25 febbraio 1635 M. V. l'ecc.mo sig. Santorio Santorio medico fisico di anni 76, da mal d'orina già anni uno, nelle case del Dardani a S. Alvise».

In «Campo di S. Alvise», e precisamente «in le case delle muneghe», abitava nel 1566 «Ant.o Palma depentor», padre del celebre Jacopo Palma detto «il giovine».

Per le «Secchere di S. Alvise» vedi Secchere (Corte delle).

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S. Andrea (Fondamenta, Rio, Ponte, Campo, Fondamenta di).
Quattro nobili matrone Veneziane, denominate Francesca Corraro, Elisabetta Gradenigo, Elisabetta Soranzo, e Maddalena Malipiero, ottennero nel 1329 di erigere in questa situazione, appellata, pel volgere che fanno i canali, «cao de zirada», un oratorio ed una casa di ricovero per povere donne, sotto il titolo di S. Andrea Apostolo.

Il proponimento venne a bella prima combattuto dalle monache di S. Chiara, ma, vinti finalmente gli ostacoli nel 1331, fu progredita la già piantata fabbrica, che ben presto ebbe compimento. Giunto l'anno 1346, e morte Francesca Corraro ed Elisabetta Gradenigo, le due superstiti matrone Elisabetta Soranzo e Maddalena Malipiero, unitamente ad altre, che ad esse si erano aggregate, abbracciarono la regola di S. Agostino, e si sottoposero al jus patronato del doge. Continuarono tuttavia la pietosa opera d'alimentare le povere fino al 1684, in cui vi sostituirono l'obbligo di ricevere tre converse senza esborso di dote. La chiesa di S. Andrea, sorta, come dicono alcune cronache, a merito della famiglia Bonzio, fu riedificata nel 1475 a spese pubbliche, e consacrata nel 1502 da Giulio Brocchetta arcivescovo di Corinto. A quanto pare, essa ebbe un ristauro novello nel secolo XVII. Finalmente, nel principio di questo secolo, soppresso, ed in gran parte demolito il monastero, fu convertita a sussidiaria della parrocchiale.

Ricorda il Cicogna che l'8 agosto 1509 il monastero di S. Andrea «de Zirada» accolse le mogli ed i figliuoli di Janno ed Eugenio, naturali di Giacomo, già re di Cipro, dopo la fuga di questi due fratelli da Padova. Erano in numero di sette persone, pel mantenimento delle quali la Repubblica assegnò alle monache prima ducati 10 al mese in tutto, e poscia ducati 15 all'anno per testa.

In «Campo di S. Andrea» abitava Marco Barbaro, autore delle «Genealogie Patrizie», e d'altre opere inedite. Egli stesso disse nel suo testamento (19 dicembre 1569) «.... la mia casa pur in campo de S. Andrea, al presente, dove già era un rio del 1510 davanti essa casa, dove al presente io habito».

Il «Campo di S. Andrea» è ora posto in comunicazione, mediante un ponte, colla «Stazione Marittima», inaugurata il 1° maggio 1880.

Una delle due Fondamente di S. Andrea è detta anche «della Cereria» per la fabbrica di cere Reali.

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S. Andrea (Fondamenta, Ponte)
a S. Sofia, presso la «Ruga dei Due Pozzi». Da case che vi possedevano le monache di S. Andrea di Venezia, sopra una delle quali è scolpito ripetutamente l'apostolo S. Andrea. Troviamo nelle Condizioni del 1582, che gli affitti soliti ad essere riscossi dalle «Reverende Madri di S. Andrea» per le case poste in S. Sofia, «zoso del ponte di Ruga di Do Pozzi», ascendevano complessivamente a ducati 86.

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S. Andrea (Calle, Corte di)
a S. Benedetto. Attesta Flaminio Corner («Ecclesiae Venetae, Dec. XII») che i monaci di S. Andrea del Lido, o della Certosa, possedevano in questa Calle una specie d'ospizio, ove abitavano quando, per causa dei loro affari, venivano a Venezia. Tale ospizio formossi con alcune case donate il 13 settembre 1272 da Alice, figlia di Giovanni Da Ponte, al priore Agostiniano di S. Andrea, Leonardo Marcello. Sopra la porta scorgevasi scolpito l'Apostolo fra due frati preganti con l'arma dei Minotto, e con sottoposta iscrizione rammemorante che quel lavoro venne fatto eseguire nel 1356 dal priore Marco Minotto. Ora il bassorilievo scorgesi nella corte vicina.

Per chi poi bramasse un cenno sopra il monastero di S. Andrea del Lido diremo, che nel 1199 Marco Nicola, vescovo Castellano, donò un'isoletta presso il porto del Lido al sacerdote Domenico Franco, che vi fondò un tempio sacro a S. Andrea, ed un monastero d'Agostiniani. Nel 1424, mandati ad abitare altrove i pochi Agostiniani che rimanevano, si diede il monastero ai padri Certosini, che, dopo la metà del secolo XV, lo rifabbricarono col tempio. Quest'ultimo venne compiuto nel 1492 sul disegno di Pietro Lombardo. I suddetti edifici ebbero nuovi ristauri nel principio del secolo trascorso, ma nel 1810 si chiusero, e quindi per la massima parte andarono demoliti.

In «Corte di S. Andrea», a S. Benedetto, abitava nel 1582 Aldo Manuzio «il giovane». Nel catastico della chiesa di S. Andrea della Certosa si legge: «1582, 2 aprile. Affittation fatta per il R. P. Prior. del Mon. a mis. Aldo Manutio de una casa da statio posta in contrada de S. Benedeto, in corte S. And.a».

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S. Angelo (Campo, Rio di).
La Chiesa di S. Angelo parrocchiale era stata eretta fino dal 920 dalla famiglia Morosini e Lupanizzi sotto il titolo di S. Mauro. Dopo il ristauro del 1069 assunse il titolo di S. Michele Arcangelo, e volgarmente S. Angelo, titolo che conservò ancora dopo le rifabbriche del 1431 e del 1631, e sino alla sua secolarizzazione avvenuta nel 1810. Nel 1837 fu demolita, ed una lapide nel selciato insegna il sito dove essa sorgeva.

Nel tremuoto del 1347 il campanile di S. Angelo precipitò con altri della città, dopoché da sé sole ebbero suonato le campane. Essendo alquanto storto, venne nel 1455 raddrizzato da Bartolomeo Fioravanti, detto Aristotele, celebre ingegnere ed architetto bolognese, ma il dì successivo cadde, atterrando parte della chiesa ed alcune stanze del prossimo convento di S. Stefano, ove restarono uccisi due religiosi. Rialzato nel 1456 per opera di Marco de Furi, venne colto il 3 luglio 1487 da una saetta, laonde ebbe d'uopo di un novello ristauro.

Leggiamo che nel 1476 venne bandito in contumacia Giacomo tintore per aver condotto Bernardino degli Orsi sotto l'antico portico della chiesa di S. Angelo, ed averlo colà fatto scopo della sua brutale libidine.

In questa parrocchia cessò di vivere, dicesi per morbo gallico, il 18 aprile 1506, Marcantonio Sabellico, lettore pubblico ed autore di varie opere stimatissime, la cui orazione funebre fu recitata in chiesa di S. Stefano dal prete G. Battista Egnazio. Vi morì pure nel 1520 Raffaello Reggio, altro pubblico lettore, lasciando i proprii libri ai frati di S. Giorgio.

In uno dei due pozzi esistenti in «Campo di S. Angelo» ritrovossi il 7 giugno 1716 il cadavere di Regina Maggiotto, vedova di Girolamo Carrara, trucidata, e colà poscia gettata da Angelo Fiacchi fiorentino, affine di derubarla. L'assassino fu bandito in contumacia il 5 ottobre 1719.

Avendo il 19 maggio 1726 l'ab. nobile Scipione Varano redarguito in chiesa di S. Stefano i NN. UU. Marcantonio ed Alvise fratelli Badoer di ser Marino perché indecentemente scherzavano con una donna di mal affare, fu il giorno seguente assalito dai suddetti patrizi in «Campo S. Angelo», e ferito alla testa con armi e colpi di pietra. Essi perciò furono posti in carcere e soltanto nel 1729 riebbero la libertà.

Fra i palazzi che adornano il «Campo di S. Angelo» merita speciale menzione l'archiacuto al N. A. 3584 poiché, mentre nel 1801 serviva ad albergo coll'insegna delle «Tre Stelle», vi venne a morte il celebre maestro di musica Domenico Cimarosa. Malamente il Zanotto asserì che questo palazzo era anticamente degli Zeno, e che vi compì la sua mortale carriera il famoso Carlo. E' noto al contrario che apparteneva ai Duodo, e probabilmente dai Duodo venne fabbricato, avendo posto negli «Alberi Genealogici» di Marco Barbaro (Classe VII, Codd. 915-918 della Marciana) un Giacomello Duodo, figlio di Nicolò, vissuto nel secolo XIV, coll'annotazione: «fabbricò il palazzo a S. Angelo». Il palazzo medesimo passò ai nostri tempi nei Balbi-Valier in virtù del matrimonio, successo nel 1808, fra Marco Bertucci Balbi-Valier, ed Elisabetta Maria Duodo q. Marcantonio. Fu quindi dei Missana, e da lungo tempo si presta ad usi diversi, fra cui a birreria nel piano inferiore.

In «Campo di S. Angelo» fu posto in questi ultimi anni il monumento di Pietro Paleocapa, ingegnere idraulico, ed uno fra i ministri della nostra Repubblica nel 1848-1849. L'opera è dello scultore Ferrari.

Pell'oratorio sacro alla B. V. Annunziata, tuttora esistente in «Campo S. Angelo», vedi Zotti (Calle, Ramo dei).

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S. Angelo (Ponte)
alla Giudecca. Nel 1518 alcuni Carmelitani della sacra Congregazione di Mantova vennero a stabilirsi in un monastero da prima posseduto da Benedettine, e posto nella isola di S. Angelo di «Concordia», o corrottamente «Contorta», la quale secondo il Cod. 939, Classe VII della Marciana, era stata così denominata per tre sorelle della famiglia Zuccato, che furono le prime a vestire di «concordia» l'abito di S. Benedetto nel suddetto monastero, fondato da Angelo Zuccato loro padre. Abbiamo però un testamento d'un Angelo Zuccato 22 ottobre 1331, in atti di Nicolò Bettini, con cui benefica il monastero di S. Angelo di Contorta, ove dice di avere monache quattro nipoti, e non figlie.

Nel 1555 i Carmelitani dall'isola di S. Angelo di «Contorta», che in progresso di tempo destinossi alla fabbricazione delle polveri, onde si disse «S. Angelo della polvere», si trasferirono alla Giudecca, ove ritrovarono un picciolo convento abbandonato dai Cappuccini, ed una picciola chiesa, la quale, rifabbricata, ebbe consecrazione nel 1600 sotto il titolo di «Gesù Cristo nostro Salvatore», ma chiamossi volgarmente di S. Angelo o per la figura d'un angelo scolpita sul prospetto, o, meglio, per la memoria dell'isola di S. Angelo di «Concordia», o «Contorta». Nel 1768 il convento fu soppresso, ed in seguito chiusa anche la chiesa. Essa però nel 1841 ridonossi al divin culto, come oratorio privato, dalla famiglia Cogo.

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S. Anna (Fondamenta, Campo, Ramo, Ponte, Rio, Calle al Ponte, Calle).
Giacomo da Fano, eremita Agostiniano della Congregazione dei Brittini, o Brittinesi, venuto a Venezia nel 1240, poté acquistare due anni dopo un terreno vacuo a Castello, e fabbricarvi una chiesa ed un convento sotto l'invocazione di S. Anna e Caterina pei Religiosi del suo Ordine. Questi in progresso di tempo, tramutatisi a S. Stefano, alienarono nel 1297 ambidue gli edifici ad alcune devote femmine desiderose di professare la regola di S. Benedetto, che vi si trasferirono nel 1304. La chiesa di S. Anna, riedificata nel 1634 sopra il modello dell'architetto Contin, ed il convento, ristaurato nel 1765, vennero secolarizzati nel 1807, e nel 1810 ridotti a Collegio di Marina. Ora però si prestano ad uso di Ospitale delle truppe di Marina.

Essendo serpeggiata nel convento di S. Anna, come in altri molti della città, la dissolutezza di costumi, la Quarantia Criminale il 12 settembre 1491 procedeva contro parecchi patrizi per aver commesso atti carnali con quelle monache. Ciò ripetevasi anche nel 1608.

Nel convento di S. Anna presero il sacro velo Alturia e Perina Robusti, figlie del celebre Tintoretto, le quali per la loro chiesa ricamarono in seta un palio d'altare rappresentante la Crocifissione, quale aveala dipinta il Tintoretto nell'albergo della scuola di S. Rocco. Corre fama che una delle ricamatrici divenisse cieca appena compiuto il lavoro.

Monacata a forza, visse pure molt'anni in questo convento quell'Arcangela Tarabotti che, avversa dapprima allo stato di vita abbracciato, scrisse la «Semplicità Ingannata», la «Tirannia Paterna», e lo «Inferno Monacale» (opera rimasta inedita), e che poscia, pell'esortazioni del cardinale Federico Corner (patriarca di Venezia nel 1631) rassegnossi alla sua carriera, e compose alcune opere ascetiche. Vedi Cicogna, «Inscriz. Ven.», vol. I.

Sulla «Fondamenta di S. Anna» havvi, come lo dimostra una iscrizione sul muro, l'«Ospizio Foscolo», che s'instituì nel 1418 per lascito di Lucia Foscolo, allo scopo di raccogliere povere vedove.

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S. Antonino (Salizzada, Ponte, Rio, Campo).
La chiesa di S. Antonino, ex parrocchiale, fu eretta dalla famiglia Badoara nel secolo VII. Venne poi rifabbricata nel 1680, come s'impara dalla iscrizione posta sul prospetto. Ora serve di succursale a S. Giovanni in Bragora. Il suo campanile sorse circa alla metà del secolo trascorso, poiché il parroco Antonio Fusarini, morto nel 1762, è detto sulla pietra sepolcrale «auctor sacrae turris».

Questa chiesa nel 1819 fu teatro d'una strana avventura. In essa riparossi un grosso elefante, scappato, con gran timore della popolazione, dal suo serraglio sulla «Riva degli Schiavoni». Non valendo le palle da fucile ad ucciderlo, fu d'uopo ricorrere agli artiglieri, che, appuntata una colubrina, lo fecero finalmente cadere esanime al suolo. Il fatto inspirò «l'Elefanteide» del celebre Buratti. Vedi anche l'opuscolo intitolato: «L'elefanticidio in Venezia dell'anno 1819 del nobile signor Pietro Bonmartini Padovano. Venezia, Andreola, 1819».

In contrada di S. Antonino morì il 4 Gennaio 1497 m. v. Girolamo Lando patriarca di Costantinopoli.

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S. Antonio (Punta, Paludo di)
a Castello. Marco Catapan e Cristoforo Istrigo avevano rassodato e reso abitabile una velma, o palude, situata verso la punta di S. Elena a Castello, loro donata nel 1334 dal Maggior Consiglio. Sopra questo terreno fra' Giotto degli Abati, priore dei canonici regolari di S. Antonio di Vienna in Francia, fabbricò nel 1346 una chiesa ed un monastero dedicati al santo suddetto, ottenendo, parte per acquisto, e parte per donazione dell'Istrigo, avvenuta nel 1360, la proprietà del fondo. Le fabbriche, che furono compiute dalle famiglie Lion, Pisani, e Grimani, passarono nel 1471 dalle mani dei canonici regolari di S. Antonio in quelle dei canonici regolari di S. Salvatore di Venezia, che ne furono possessori finché il convento di S. Antonio di Castello andò soppresso in virtù della legge 7 settembre 1768. Allora la chiesa si fece uffiziare da un cappellano, ed il convento, divenuto di jus pubblico, servì ad usi diversi, fra cui nel 1787 all'istituto di Luigia Pyrker Farsetti, ove si raccoglievano, e si istruivano nell'arte del filare e del tessere ben 70 povere figlie della città. Servì in epoca successiva ad ospitale pei soldati feriti, finché nel 1806 venne occupato dalle truppe della Marina Austriaca. Nel 1807 chiesa e convento si distrussero per dar luogo ai Pubblici Giardini.

Ricorderemo col Mutinelli («Lessico Veneto») come, sotto pretesto di devozione a S. Antonio abate, fosse uso di quei canonici «di lasciar vagare per la città alcuni porci, i quali, bene pasciuti dalla pietà dei fedeli, erano poi un ghiotto e ricco boccone del padre priore; questa irreligiosa consuetudine fu tolta dal M. C. con decreto del 10 ottobre 1409».

Noteremo ancora che, fino dal 1471, decretava il Senato che in «Campo di S. Antonio» fosse costrutto un coperto di tavole per quei poveri, i quali stanziavano sotto le volte esterne della basilica di S. Marco e del Palazzo Ducale. In rendimento di grazie all'Altissimo per la liberazione di Scutari, avvenuta nel 1474, sorgeva due anni dopo nel sito medesimo un formale ospizio dedicato a «Messer Gesù Cristo». Qui, per legge del Maggior Consiglio, 11 marzo 1503, dovevano ricettarsi soltanto marinai, ed altri, che si avessero reso benemeriti dello stato. La prossima chiesa, che pure consecrossi nel 1503, e che chiamossi di S. Nicolò di Bari, venne consegnata nel 1591 ai Somaschi per comodo del Seminario Ducale, trasportato allora in parte dell'ospizio di «M. Gesù Cristo», coll'obbligo però a quei padri di servire nelle cose spirituali i ricoverati. Anche i suddetti edifici s'atterrarono quando si vollero formare i Pubblici Giardini.

Per la «Punta di S. Antonio» vedi Garibaldi (Strada).

Pel «Paludo di S. Antonio» vedi Paludo (Corte ecc. del).

La «Calle dietro il Paludo» di S. Antonio è messa attualmente in comunicazione, per mezzo d'un ponte, coll'isoletta di S. Elena, ove da qualche anno venne piantato un grandioso «Stabilimento di Costruzioni».

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S. Antonio (Ponte)
alla Maddalena. Prima dell'ultima rifabbrica di questo ponte, avvenuta in ferro nel 1860, esisteva presso al medesimo un «capitello», od altarino, sacro a S. Antonio di Padova. Il Boschini («Le ricche Minere della Pittura Veneziana») ricorda che qui poteva ammirarsi una pala di Filippo Bianchi. «Sopra il Ponte di S. Fosca», egli dice, «che s'invia alla Maddalena, vi è un capitello con Maria in aria e il Bambino, et in basso li santi Francesco, Antonio di Padova, e Domenico, opera delle meglio di Filippo Bianchi». Al momento della rifabbrica il vecchio capitello surrogossi con un altro di più piccola dimensione, sacro pur esso al taumaturgo di Padova, e fornito d'altro quadretto. Dicesi che la pala del Bianchi si conservi in casa privata.

Altre strade portano la surriferita denominazione, alcuna delle quali la deve, anziché a S. Antonio di Padova, a S. Antonio Abate, come il «Ramo Calle S. Antonio» a S. Luca, il quale con la prossima Calle, ora chiamata «Bembo», si denominò da un vecchio dipinto, tuttora visibile nella Calle medesima, e rappresentante S. Antonio Abate o, come suolsi dire, S. Antonio del Fuoco.

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S. Apollonia (Ruga Giuffa, Fondamenta, Sottoportico di)
a' SS. Filippo e Giacomo, ed a S. Apollonia. Questa Scuola antichissima dividevasi in due colonnelli, l'uno sotto l'invocazione dei SS. Filippo e Giacomo, che aveva albergo al «Ponte di Canonica», l'altro sotto l'invocazione di S. Apollonia, che raccoglievasi in un locale sopra la prossima fondamenta. I due colonnelli, pel decreto 24 settembre 1462 del Consiglio dei X, vennero concentrati in un solo, che si sottopose ad entrambi i titolari, e che, abbandonato lo stabile presso il Ponte, fissò per sua unica residenza quello sopra la Fondamenta, denominata tuttora colle strade vicine «di S. Apollonia». In questo sito il Cicogna lesse sopra l'architrave d'una porta la seguente iscrizione: Scola di S. Apollonia Arte de Linaroli 1780. I Linajuoli possedevano pure in chiesa dei SS. Filippo e Giacomo un altare. Essi avevano la privativa della pettinatura e della vendita del lino pettinato, e dovevano essere nazionali colla solita servitù e prova. L'arte suddetta faceva anche esercitare la filatura ed il lavoro del lino, impiegando a tale scopo moltissime persone indigenti sì della città come della campagna. Il lino pettinato non poteva essere introdotto in Venezia dall'estero né dallo Stato. Cento e ventisette individui erano ascritti a questo corpo al cadere della Repubblica.

Per la denominazione «Ruga Giuffa» vedi Ruga Giuffa (Ponte ecc. di).

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S. Aponal (Campo, Rio di).
La chiesa di S. Apollinare, «vulgo S. Aponal», fu edificata nel 1034 dalle famiglie Sievoli e Rampani di Ravenna. Ebbe un ristauro nel secolo XV, ed una rifabbrica nel XVI. Conservossi parrocchiale fino al 1810, epoca in cui fu chiusa. In seguito servì a ricovero notturno di poveri, poi ad officina da magnano e falegname, poi a magazzino di mobilie, e carcere per detenuti politici, e deposito di sfaciture, e spaccio di carbone, e finalmente a bottega da rigattiere. Nel 1840, posta a pubblica vendita, veniva acquistata da un Angelo Vianello, detto Chiodo, che tosto la rivendeva ad alcuni devoti, i quali la riaprirono al divin culto nel 1851. In questa occasione si volle fregiarne la porta con un bell'arco lombardesco, trasportato dalla chiesa di S. Elena in isola, il quale faceva parte del monumento eretto al generale Vittore Cappello, lavoro d'Antonio Dentone (1480). Nel frontone circolare stava il gruppo di S. Elena con Vittore Cappello in ginocchio d'innanzi ad essa. Tal gruppo trovasi attualmente nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo.

D'una curiosità avvenuta in parrocchia di S. Apollinare fa cenno il Sanudo nei «Diari» colle parole: «Adi 19» (decembre 1510) «fo portato in collegio uno mostro eri nato qui in Venexia in campiello di Santo Aponal da uno povero erbaruol, videlicet uno puto et una puta che si tieneno insieme davanti, videlicet do teste, 4 braxe, 4 gambe, chome apar per questa figura; el qual nacque eri, et vixe una hora: fono batezati la femena Maria, el puto Zuane: fo portati poi dal patriarca et in colegio, et cussì molti andono a caxa a vederli, et pagavano uno soldo, et fono imbalsamati. Et, cossa mostruosa, hanno un corpo solo».

Di Bianca Cappello, che abitava in questa parrocchia, diremo altrove. Vedi Storto (Ponte).

A S. Apollinare morì il pittore Alvise Benfatto, detto dal Friso, nipote, per via di sorella, del celebre Paolo Veronese. Hanno i Necrologi Sanitari: «7 ottobre 16O9. M. Alvise Benfatto pittor de anni 65 in c.a da febbre g.ni 8, S. Aponal». Ciò valga a correzione del Ridolfi, il quale pone la morte del Benfatto come seguita nel 1611. (CICOGNA, «Inscr. ven.», III, 276).

In «Campo di S. Apollinare», per ultimo, nacque, il 12 febbrajo 1801, il poeta Luigi Carrer, figlio d'Antonio e di Margherita Dabalà.

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S. Barnaba (Campo, Ponte, Rio, Traghetto di).
La chiesa di S. Barnaba fu eretta nell'809 dalla famiglia Adorni, o Adami. Consunta dall'incendio del 1105, e rifabbricata con le limosine dei fedeli, ebbe consecrazione nel 1350 per mano dei due vescovi Francesco Mociense dell'ordine dei Minori, ed Agnellino Sudense dell'ordine dei Predicatori. Cadente poscia per vetustà, venne rinnovata, e compiuta del tutto nel 1776 con disegno di Lorenzo Boschetti. Nel 1810 di parrocchiale divenne sussidiaria.

Il «Ponte di S. Barnaba» venne costrutto per la prima volta in pietra nel 1337.

Solenne e pomposo spettacolo presentò il «Campo di San Barnaba» la domenica 29 gennaio 1441, allorché vi giunse da S. Samuele, sopra un ponte di barche, la famosa cavalcata disposta per festeggiare le nozze poc'anzi avvenute fra Jacopo Foscari, figlio del doge Francesco, e Lucrezia Contarini, comparendovi pure il principe ad accogliere la nuora che erasi recata alla chiesa per ascoltar messa. In quella occasione nel mezzo del Campo fu recitato un bellissimo sermone con «tanti zentiluomini e puovolo che no se podeva andar in alcun luogo». Il dopo pranzo del medesimo giorno approdò a S. Barnaba il bucintoro montato da 150 dame, ed accompagnato da molti palischermi, e da tutte le barche della contrada, per condurre la sposa al Palazzo Ducale, ove s'imbandì lauta cena, dopo cui «fo fatto festa fin a hore nove di notte». Vedi la curiosa lettera riportata da Flaminio Corner ne' suoi «Opuscula quatuor» ecc.

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S. Bartolomeo (Merceria, Campo).
La chiesa di S. Bartolammeo si reputa fondata nell'840, ed intitolavasi prima a S. Demetrio martire di Tessalonica. Rinnovossi sotto il Doge Domenico Selvo nel 1170, e dedicossi a S. Bartolammeo. Era parrocchiale fino dalla sua origine; momentaneamente però venne assoggettata, nel 1195, ai Canonici di S. Salvatore, dalla qual soggezione restò libera poco tempo dopo. Nel 1342 fu unita dal pontefice Giovanni XXII, alla mensa patriarcale di Grado, la quale ne eleggeva il parroco, diritto che passò poi a quella di Venezia. Dopo varii ristauri si ridusse finalmente alla forma attuale nel 1723, e nel 1810 divenne succursale di S. Salvatore. Il vecchio campanile di S. Bartolammeo, demolito nel 1747, venne poi rifabbricato, e ridotto a compimento nel 1754.

In parrocchia di S. Bartolammeo abitava Raffaele Zovenzonio, celebre poeta triestino del secolo XV. Ciò si deduce dalla «Mariegola» della Confraternita di S. Girolamo, di cui egli era socio.

In parrocchia di S. Bartolammeo abitava pure il pittore Vincenzo Catena, che, col suo secondo testamento, 15 aprile 1530, in atti Zaccaria de Priuli, lasciò tutto il suo residuo alla Scuola dei Pittori, perché comperassero uno stabile per le loro riduzioni. Perciò l'albergo dei Pittori, in «Calle Sporca» a S. Sofia, aveva la seguente lapide commemorativa, donata poscia da Giovanni David Weber al Seminario della Salute: Pictores Et Solum Emerunt Et Has Construxerunt Aedes Bonis a Vicentio Catena Pictore Suo Collegio Relictis. MDXXXII.

La notte dal 12 al 13 maggio 1797 avea luogo presso la chiesa di S. Bartolammeo un lagrimevole fatto. Acceso di furore il popolo contro coloro che erano stati i principali motori della resa di Venezia ai Francesi, facevasi a saccheggiare le case dei rei, e, come avviene in simili casi, non rispettava neppure quelle degli innocenti. Allora Bernardino Renier ordinava che si ponessero alcune artiglierie sulla sommità del «Ponte di Rialto» per impedire ai saccheggiatori di varcarlo. Appena dunque che questi, per nulla intimoriti, s'avvicinarono tumultuando, davasi fuoco alle miccie, e la via sottoposta riempivasi di sanguinosi cadaveri. Fatale destino che il cannone di S. Marco dovesse tuonare per l'ultima volta non contro i proprii nemici, ma contro i propri figli!

Il «Campo di S. Bartolomeo», coll'atterramento di varii stabili, venne notabilmente ampliato nel 1858.

Nel 20 decembre 1883 s'inaugurò in mezzo ad esso il monumento a Carlo Goldoni, la cui statua in bronzo venne eseguita dallo scultore Dal Zotto.

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S. Basegio (Campo, Fondamenta, Ponte, Sottoportico, Salizzada).
Vuole il Sanudo che la chiesa parrocchiale di S. Basilio, «vulgo S. Basegio», sia stata eretta nell'870 a merito della patrizia famiglia Basegio. Alcuni altri la vogliono eretta nel 905, ovvero 970, ed a merito dei Molini, oppure degli Acotanto. Comunque sia, fu rinnovata dopo il 1105, ma il tremuoto del 1347 m. v. la fece crollare, e quindi convenne rifabbricarla. Ebbe in seguito tre altri ristauri, come, sulla fede delle iscrizioni, nota il Cicogna. Nel 1808 divenne succursale, e nel 1810 si chiuse. Servì quindi a magazzino di legname e d'altro fino al 1824, in cui si distrusse. La sua area è ora ridotta a giardino col N. A. 1525.

Si dice che in parrocchia di S. Basilio abitasse il beato Pietro Acotanto, patrizio veneto, morto nel 1187. Il di lui corpo per certo veneravasi nella chiesa di S. Basilio, e quando essa fu chiusa nel 1810, fu trasportato nella chiesa di S. Sebastiano, e quindi nel 1821 in quella dei SS. Gervasio e Protasio.

Avendo ser Giusto Orio tentato d'annegare più volte il proprio nipote Nicolò Orio, una delle quali gettandolo giù dal «Ponte di S. Basegio», fu condannato, con sentenza 19 febbraio 1396 m. v., a stare perpetuamente in bando da Venezia, e dal dominio, sotto pena d'essere messo a quarti, ed a perdere tutt'i suoi beni, che dovevano devolversi a favore del nipote.

In parrocchia di S. Basilio venne alla luce il 7 ottobre 1675 la nota pittrice Rosalba Carriera, la quale, come dice il Zanetti («Della Pittura Veneziana») condusse la pittura a pastelli a tale perfezione, «che non vi fu nome celebre in questo genere che le andasse davanti, e che pochi si trovarono che la potessero eguagliare». Dopo molti viaggi reduce a Venezia, divenne nel 1747 affatto cieca, sventura che parve essere il presagio d'altra maggiore, cioè della totale alienazione di mente, oppressa dalla quale morì nel 15 aprile 1757.

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S. Basso (Calle).
La chiesa parrocchiale di S. Basso deve i suoi principii alla famiglia Elia nel 1076. Arsa, con altre ventidue chiese, nel 1105, venne rinnovata. Incontrò egual disgrazia nel 1661 avendosi appreso il fuoco, per la vicinanza delle candele accese, all'apparato dell'esposizione del SS. Sacramento, fattasi il 25 del mese di marzo. Allora tornò ad essere rifabbricata, come sembra, dall'architetto Benoni. Nel 1810 fu chiusa, e convertita in magazzino. Alquanti anni fa si voleva riaprirla al culto di tutti i Santi Veneziani d'ogni epoca, ma il progetto cadde ben presto in dimenticanza.

Questa chiesa, dal 1088 al 1100, restò unita al vescovado di Jesolo, e, dal 1365 al 1418, a quello d'Eraclea.

Dicesi che nel 1282 si fabbricasse a S. Basso una loggia perché i nobili vi si potessero trattenere in piacevole brigata nelle prime ore della notte.

In «Calle S. Basso» successe nel 1310 una scaramuccia fra i congiurati di Bajamonte Tiepolo, e la gente del doge Pietro Gradenigo.

In parrocchia di S. Basso abitava nel 1528 il famoso pittore Giacomo Palma il vecchio, come si rileva dal testamento che, a dì 28 luglio di quell'anno, egli fece negli atti di Alvise Nadal, pievano di S. Boldo, e pubblico notajo.

V'abitava pure il celebre architetto Jacopo Sansovino in una casa al principio delle «Procuratie Vecchie», che, fino dal 1529, gli era stata assegnata dal pubblico. Leggesi nel necrologio parrocchiale: «27 novembrio 1570. ms. Jacopo Sansovino proto della giesia di S. Marco, de anni 91, amalà un mese e mezo de malatia di vegeza». Il Sansovino ebbe i funerali in S. Basso coll'intervento dei canonici di S. Marco, ma fu sepolto in S. Geminiano. Distrutta questa chiesa nel 1807, le ceneri del sommo architetto si trasportarono nell'altra di S. Maurizio, e finalmente nel 1820 in quell'oratorio che è annesso al Seminario della Salute.

A S. Basso, e forse nella casa medesima, morì Francesco Sansovino, letterato, figliuolo di Jacopo. Questi nel suo testamento, fatto il 24 novembre 1582 in atti Marcantonio de Cavaneis, disse... «S. Basso, sotto la cui parrocchia io abito al presente». Ed il necrologio: «Adì 28 setembrio 1583. ms. Franc. Sansovino d'anni 60, da febbre jorni num. 12».

Nella medesima parrocchia, per ultimo, venne a morte, ai 2 novembre 1592, Modesta da Pozzo, detta Moderata Fonte, poetessa e letterata Veneziana. «Adì 2 novembrio 1592 la mag. mad.a Modesta di anni 36 consorte dell'eccell.mo s. Filippo de Zorzi S. Basso». Così nei Registri sanitari. Filippo de Zorzi, o Zorzi, non apparteneva, come erroneamente scrive il Quadrio, alla casta patrizia, ma bensì alla cittadinesca. Egli fece scolpire un epitaffio alla moglie sepolta nel chiostro dei Frari, donde si rileva ch'era figlio di Pietro, e che esercitava la carica di avvocato al Magistrato delle Acque.

Alcuni fra i «Registri dei Giustiziati in Venezia», che si conservano a penna tanto nella biblioteca Marciana, quanto altrove, riferiscono che un pievano di S. Basso, chiamato D. Francesco, ma di cui tacciono il cognome, sentendo da un suo penitente ch'egli aveva privato di vita un gentiluomo, differì per destro modo la confessione al giorno seguente, in cui ascose in un armadio il proprio nipote, acciocché potesse ascoltare il tutto, e, dandone parte alla Giustizia, guadagnare la taglia proposta di quattro mila ducati. Avuto effetto il divisamento, stava l'omicida per salire il patibolo, allorché nel silenzio del carcere disse ad alta voce innanzi l'immagine d'un Crocifisso: «E' vero ch'io sono il reo, ma come può essere scoperto il mio delitto, se è conosciuto soltanto da voi che siete il mio Gesù Cristo, da che sono il reo, e dal pievano di S. Basso che è stato il mio confessore?» Queste parole, riportate al tribunale supremo, fecero sì che venisse imprigionato il pievano, e che, dopo aver confessato in mezzo ai tormenti della tortura il proprio misfatto, fosse decapitato il 22 aprile, o, come asserisce qualche registro, il 22 agosto 1639, giorno di giovedì. L'uccisore del gentiluomo ebbe in quella vece salva la vita; anzi gli furono dati due mila ducati della taglia, coll'ingiunzione d'abbandonare entro tre giorni il Veneto territorio.

Più lieta fu l'avventura raccontataci dal Cicogna ne' suoi «Diarii» manoscritti relativamente all'altro pievano di S. Basso, Benedetto Schiavini, eletto nel 1780. Si era egli raccomandato per venir fatto canonico di S. Marco a Margarita Dalmaz, o Delmaz, consorte del penultimo doge Paolo Renier, la quale promise di assecondare i di lui desideri purché togliesse dalla facciata di S. Basso la campanella delle messe solita a darle fastidio. La campanella fu tolta, ma la Dalmaz, che accostumava di vendere le cariche, fece conferire ad altri il canonicato. Allora il pievano rimise a suo posto la campanella ed alla dogaressa che lo chiamava mancante di parola, rispose che anch'ella non aveva mantenuta la propria col non dargli il canonicato. Questo fu nuovamente promesso, ed il pievano nuovamente tolse la campanella, ottenendo dopo qualche tempo il posto da lui desiderato.

Scrive il Cicogna che la Dalmaz, nata a Costantinopoli, e creduta in origine funambula, o ballerina, morì l'11 gennaio 1817 in parrocchia di S. Angelo, in quello stabile che è vicino al palazzo Medin, lasciando cospicua facoltà.

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S. Biagio (Fondamenta, Campo).
Vuolsi che questo tratto fosse anticamente un'isoletta chiamata «Ladrio», ovvero «Adrio». La chiesa di S. Biagio sorse nel 1052 qual parrocchiale per opera della famiglia Boncigli, e per molti anni venne uffiziata alternamente con rito latino e greco fin che i Greci passarono a S. Giorgio. Cadente ebbe una rifabbrica nel 1745 sul disegno di Filippo Rossi proto dell'Arsenale, ma nel 1810 si chiuse per riaprirsi più tardi nel 1817 come parrocchia del corpo della Marineria.

Circa il «Ponte di S. Biagio», detto anche «Ponte dell'Arsenale», abbiamo la legge seguente in data 20 febbraio 1323 M. V.: «Quod nemo in quadragesima praesenti et futuris possit transire ad equum, nec cum equo, pontem sancti Blasii, sub poena solidorum viginti pro quolibet et qualibet vice». Emanossi forse questa legge in vista del gran concorso di popolo che frequentava di quadragesima i così detti «perdoni» di Castello. Il ponte medesimo di legno, al pari dell'altro più prossimo all'Arsenale, e di quello oggidì chiamato «della Veneta Marina», aveva il nome di «Ponte delle Catene» pei lunghi ferri che, attaccati agli stabili propinqui, lo sostenevano nelle occasioni che doveva alzarsi pel passaggio dei navigli uscenti dall'Arsenale. Scrive la «Gazzetta Urbana» sotto il 1° luglio 1789: «Un giovine d'anni 25 ha il merito d'aver liberati quegli stabili dal pericolo di cadere un giorno alle frequenti scosse cagionate dal continuo transito, sostituendo al vecchio un nuovo ponte di due pezzi, ch'apresi e chiudesi senza alzarlo, combaciandosi con somma facilità ed offrendo un sicuro, e non faticoso passaggio».

Racconta il Sanudo nelle sue «Vite» dei Dogi che «nel 1381, la notte di S. Bartolomeo, nacquero in questa terra due figliole nella contrada di S. Biagio vive e sane con tutte le loro membra, ma erano congiunte ad invicem a femore usque ad pectora, e pareva che si volessero abbracciare».

I magazzini di granaglie, che tuttora esistono in «Campo di S. Biagio», vennero eretti nel 1322, epoca di carestia, leggendosi nel Savina che in quest'anno «fo in Senato deliberado de far un deposito in Venezia di formenti, et fo fatti alcuni magazzini sul Campo di S. Biasio» ecc.

Qui il 15 marzo 1885 venne inaugurato il monumento in onore dell'esercito Italiano, resosi benemerito all'epoca delle ultime inondazioni. La scultura è di Augusto Benvenuti.

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S. Biagio (Fondamenta, Rio, Ponte)
alla Giudecca. La B. Giuliana dei Conti di Collalto, preso l'abito di S. Benedetto nel chiostro di Salvarola presso Este, e giunta nel 1222 a Venezia, fondò alla Giudecca una chiesa dedicata ai SS. Biagio e Cataldo, ed un monastero di Benedettine, ove prima sorgeva un'altra chiesa più antica, sotto la invocazione dei medesimi santi, ed un ospizio destinato ad accogliere i pellegrini che passavano in Terra Santa. Nel 1519 questo monastero fu riformato dal patriarca Antonio Contarini, e nel secolo medesimo venne anche materialmente rinnovato probabilmente insieme alla chiesa. Ambidue gli edifici ebbero un'altra rifabbrica nel secolo trascorso, ma nel 1810 si ridussero ad usi profani. In questi ultimi anni poi furono distrutti per far sorgere un novello fabbricato ad usi commerciali.

Scrive il Sanudo, sotto il 15 febbraio 1513 M. V.: «In questi zorni a S. Biaxio Catoldo seguite certa cuestione tra loro monache che si treteno i libri in la testa. Ideo andoe il patriarcha ivi, e udite le loro querele, et scoperse come vivevano inhonestamente, e trovò a una Faustina Manolesso una peliza damaschin bianco fodrà di martori, la qual si dice l'à fata sier Cristofal Capello Savio ai Ordeni di Sier Francesco el cavalier».

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S. Boldo (Campo, Ponte).
La chiesa parrocchiale di Sant'Ubaldo, volgarmente «S. Boldo», fabbricossi, sotto l'invocazione di S. Agata, dalle patrizie famiglie Giusto e Tron intorno al secolo XI, ma incendiatasi nel 1105 fu rinnovata, e poscia ampliata nel 1305. Col progresso di tempo, dalle vicinanze d'uno spedale, detto di S. Ubaldo, fondato per 12 povere dai coniugi Tommaso e Lorenza de Matteo da Firenze, cogli atti d'ultima volontà 19 decembre 1395, e 16 agosto 1429, cominciò ad intitolarsi, oltre che di S. Agata, anche di S. Ubaldo, e finalmente restò con quest'ultimo nome soltanto. Resa cadente nel 1735, venne in 4 anni riedificata. Si chiuse nel 1808, ed in seguito si demolì, non in modo però che non se ne scorgano gli avanzi insieme a quelli del campanile.

Lo spedale, ovvero ospizio, di S. Ubaldo si presta tuttora alla sua primitiva destinazione.

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S. Bonaventura (Ponte, Fondamenta).
I PP. Francescani Riformati che dimoravano in S. Francesco del Deserto, abbandonata quell'isola pell'insalubrità dell'aere, passarono prima nell'abazia di S. Cipriano di Murano, poscia a S. Nicolò nel locale che in seguito venne occupato dalle «Terese», e finalmente nel 1620 fondarono in questo sito nuovo convento e chiesa nuova, tre anni dopo consecrata sotto il titolo di S. Bonaventura. Nel 1810 ambidue gli edifici si ridussero ad usi profani. Nel 1859 però vennero comperati dalla contessa Paolina Giustiniani Recanati, vedova Malipiero, che nel 1875 v'introdusse alcune Carmelitane Scalze.

Havvi memoria che nel giorno di Pasqua dell'anno 1641 Alvise Paruta rapì Lucia Gerardi, che, unitamente al proprio padre, usciva dalla chiesa di S. Bonaventura. Il rapitore perciò, con sentenza 3 aprile dell'anno medesimo, venne bandito, ma nel 1646 ottenne piena grazia.

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S. Canciano (Parrocchia, Campo, Ponte, Rio, Rio Terrà).
Sembra che alcuni profughi Aquilejesi fondassero la chiesa sacra a S. Canciano e compagni, celebri pel martirio sofferto in Aquileja. Non si sa tuttavia precisamente in qual epoca ciò avvenisse. Questa chiesa fu consecrata nel 1351 da Marco, vescovo di Jesolo, coll'assistenza di altri due vescovi. Nel secolo XVI minacciava rovina, per cui fu d'uopo rifabbricarla. Nel secolo XVIII venne ridotta alla forma presente. Essa in antico dipendeva dal patriarca di Grado, e certamente fino da tempi rimoti si costituì parrocchiale. Nel 1810 perdette alcune contrade, che s'aggiunsero alla parrocchia dei SS. Apostoli, ma ne ebbe in cambio qualche altra della medesima parrocchia. Guadagnò poi tutto l'antico circondario di S. Giovanni Grisostomo, e parte di quello di S. Maria Nuova, e S. Marina.

In parrocchia di S. Canciano abitava «ser Zuane Bon tajapiera» («Mariegola» 1377-1546 della «Scuola di S. Cristoforo all'Orto»). Egli probabilmente è quel «Zuane Bon» padre dell'architetto Bartolameo Buono.

V'abitavano pure nel secolo XVI gli Strozzi, nobili e ricchi fuorusciti Fiorentini. Leone Strozzi, priore di Capua, figliuolo di Filippo, dirigendo una lettera al cav. Govone, ministro della ragione Strozzi in Venezia, vi faceva la soprascritta: «Sul Campo di S. Cantian in ca' Strozzi». Agostino Sagredo dice nell'«Archivio Italiano» d'aver fondamento per credere che la casa abitata dagli Strozzi sia quella ove più tardi abitò il celebre Amadeo Svajer, e quindi la famiglia Weber. Questa casa, che è situata al «Ponte di San Canciano», al così detto «Traghetto di Murano», apparteneva anticamente ai Morosini, e presenta tuttora sulle muraglie esterne alcuni frammenti di greche sculture, fatti colà innestare da Davide Weber, pei quali vedi Moschini: «Itinéraire de la Ville de Venise» ecc. «Venise, Alvisopoli, MDCCCXIX».

Nella medesima parrocchia morì il 20 ottobre 1549 Trifon Gabrielli, denominato il Socrate Veneziano, di cui parleremo altrove. Vedi Gabriella (Corte).

Vi morirono i celebri pittori Tiziano Vecellio, Francesco da Ponte, detto il Bassano, e Leonardo Corona. Vedi Tiziano (Campo di). Il Bassano, negli ultimi anni, oltrecché malaticcio, era divenuto pazzo, e temeva sempre d'essere cacciato in prigione, per cui sentendo un giorno picchiar forte all'uscio, e credendo che fossero i birri, gettossi giù dalla finestra, e riportò varie ferite. Abbiamo di lui nei Necrologi Sanitari: «A dì 3 luio 1592. M. Francesco Bassano pittor, d'anni 42, eticho già da lungo tempo, ultimam: da essersi buttato giù da un balcon per frenesia già otto mesi - s. Cantian».

Vi abitava nel 1566, e vi morì il 14 luglio 1599, in età di anni 94, quel «Benedetto Bramier q. Zuane», guerriero e mercadante Genovese, che fu sepolto ai Gesuati in un avello, sul coperchio del quale, ora trasportato nel chiostro del Seminario della Salute, scorgesi la di lui imagine intera, e leggesi un epitafio in ottava rima. Egli aveva testato il 1° luglio 1597, in atti Luca Gabrielli, eleggendo a commissarii la moglie Caterina, Bianchin Bianchini suo genero, e Bortolo di Biasi incaricato di tener il conto del di lui negozio. Lasciava la casa che possedeva in parrocchia di S. Lio alla moglie, beneficava l'ospitale di Genova, disponeva di mille ducati a beneficio della propria cappella nella chiesa di S. Martino di Portofino sulla riviera di Genova, voleva essere sepolto nella sua arca ai Gesuati coll'accompagnamento di mille poveri, a cui fosse data l'elemosina di soldi otto per ciascheduno, e finalmente instituiva erede residuaria di tutte le sue facoltà la nipote Giulia, alla quale, morta senza prole, sostituiva l'ospitale dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia.

Nella parrocchia di S. Canciano abitarono pure il cavalier Tiberio Tinelli, pittore di grido, ed il senatore Flaminio Corner, a cui tanto deve la storia ecclesiastica veneziana. Ambidue finirono i loro giorni nella medesima parrocchia, il primo nel 1638, ed il secondo nel 1778, ottenendo dopo morte in chiesa di S. Canciano un'iscrizione monumentale. Pel luogo preciso ove abitava il Corner, vedi S. Giovanni Grisostomo (Ponte ecc.).

S. Canciano (Salizzada).
Vedi Formagier.

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S. Cassiano (Parrocchia, Campo, Rio, Traghetto di).
Per quanto scrivono alcuni, sorgeva anticamente in questa situazione un oratorio fatto uffiziare da monache, e dedicato a S. Cecilia. Nel decimo secolo esso venne trasformato in chiesa parrocchiale per opera delle famiglie Michieli, Minotto, e Miani, e dedicato a S. Cassiano. Ebbe una rifabbrica dopo l'incendio del 1105, e successivi ristauri nel 1205, e 1350. Finalmente nel 1611 si ridusse alla presente condizione, avendosene però ai nostri tempi migliorato il prospetto col demolimento del portico di cui, come quasi tutte le altre di Venezia, questa chiesa era fornita. Tali portici servivano specialmente alle penitenze pubbliche, durate fin verso la metà del secolo XVI, ma poscia si andarono demolendo pegli abusi che in essi commettevansi.

Si trovano memorie del campanile di S. Cassiano fino dal 1292, e pare che fosse edificato ad uso di torre.

Il «Rio di S. Cassiano» dicevasi anche in una parte «Rio Saponario» da una fabbrica di sapone.

Il circondario della parrocchia di San Cassiano venne nel 1810 considerevolmente ampliato pell'aggiunta di alcune contrade tolte alla conservata parrocchia di San Giacomo dall'Orio, e d'altre che appartenevano alle quattro parrocchie soppresse di S. Maria Mater Domini, S. Eustachio, S. Apollinare e S. Ubaldo.

Il Gallicciolli nelle sue «Memorie», per farci conoscere la dissolutezza del clero di S. Cassiano nel secolo XVI, ci racconta come nella visita apostolica del 1592 apparve che un prete di questa chiesa, per nome Gregorio Bervich, era solito d'andar qua e là giuocando alla «bassetta», ed aveva avuto pratica disonesta con una femmina; che Alvise Leopardo, sacrestano, giuocava pur egli, ed andava «al magazzen a bever liatico»; che Filippo Rota, altro prete, non voleva sempre ascoltare le confessioni, si rifiutava di dar l'olio santo agli infermi, e, come procuratore di capitolo, non accontentavasi di tre scudi, ma pretendeva tre ducati per seppellire un morto. Mormoravasi inoltre che costui tenesse pratica colla moglie d'un barcaiuolo, e che in casa sua frequentassero donne di mal affare. Egli è quel medesimo prete Filippo Rota, che nella visita antecedente, fatta l'anno 1581, fu condannato, per peccato di carne, unitamente a Pietro degli Adoni, allora terzo titolato, a cui s'impose che cessasse di visitare certa Angela, donna maritata, e licenziasse di sua casa Vittoria, moglie di Giovanni Hanta.

Ritroviamo nei «Diarii» del Sanudo all'anno 1515, 12 genn. M. V. «In questa sera a hore do di note se empiò il fuogo a S. Cassan drio la chiesa in le caxe di fioli fo di Sier Piero Michiel di S. Polo per caxon d'un stampador venuto, et fo gran danno, bruxò alcune caxe».

In un documento, addotto da Flaminio Corner, apprendesi che in parrocchia di S. Cassiano abitava «Gullielmo figlio di Jacopo dal Zano di Bergamo lapicida». Egli, come ritiensi, è il famoso architetto Guglielmo Bergamasco. L'erudito Michele Caffi crede poi che «Zano» sia una corruzione di «Alzano», paese del Bergamasco, e che il nominato Guglielmo sia pure quel medesimo «Vielmo Vielmi, squadrador», che si ritrova notato in un documento della chiesa d'Alzano Maggiore.

In parrocchia di S. Cassiano stanziava il buon tipografo Simone de Luere.

In essa morì Paolo Orsini, che, dopo molte imprese militari operate in esteri paesi, essendo comandante delle Venete armi nella guerra di Cipro (an. 1571-1572) diede prova di gran valore nello assedio di Margaritino, nell'espugnazione di Navarrino, e nella demolizione del forte di Varbagno. Ecco l'annotazione del necrologio parrocchiale: «Adì 3 marzo 1581. L'illustrissimo et eccellentissimo signor Paulo Orsini de anni 64 amalado da febre per mesi dui». Sappiamo dal Cicogna che gli vennero fatti solenni funerali in cui fu lodato con funebre orazione da Aldo, figlio di Paolo Manuzio, e che ebbe sepoltura alla Madonna dell'Orto.

Finalmente nella parrocchia medesima venne a morte nel 1600 Giovanni Sadeler, valente incisore in rame, nato a Bruxelles nel 1550. Egli intagliò in Venezia la tavola della Resurrezione del Tintoretto, ed in chiesa di S. Cassiano venne sepolto con epigrafe riportata dal Palfero.

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S. Caterina (Fondamenta, Rio, Ponte, Calle lunga).
Non si sa precisamente l'anno della fondazione della chiesa e del monastero di S. Caterina. Primi abitatori di esso sembrano essere stati alcuni religiosi Agostiniani, detti della Penitenza di Gesù, ed anche Sacchiti, o Sacchini, per la loro veste simile ad un sacco. Soppresso quest'ordine nel 1274, Giovanni Bianco, veneto mercadante, acquistò il locale nel 1288, e ne fece dono nel 1289 a Bortolotta Giustinian, che lo destinò ad uso di monache Agostiniane, sotto il vecchio titolo di S. Caterina dei Sacchi. Bortolotta era figlia del celebre Nicolò Giustiniani, già monaco in S. Nicolò del Lido, uscito dal chiostro col permesso del papa, ed unitosi ad Anna Michiel per dar successione al proprio casato. Nel 1807 le monache di S. Caterina vennero concentrate con quelle di S. Alvise, e nel loro monastero si collocò il Liceo Convitto, ora chiamato Marco Foscarini. La chiesa divenne allora, come lo è tuttavia, oratorio sacramentale dello stabilimento. Essa nel giorno della Santa titolare era visitata dal principe, e dalla Signoria perché in quel giorno, per mozione del doge Pietro Gradenigo (an. 1307), si celebrava la così detta «Festa dei Dotti», e schiudevansi i luoghi di pubblico insegnamento (25 novembre).

Essendo Suor Ginevra Querini, monaca professa del convento di S. Caterina, colà dentro carcerata, a requisizione del vescovo Castellano, per certa sua pratica col N. U. Federico Giustinian, ed avendole questi spedito una lettera ove le fissava la notte in cui sarebbe venuto a liberarla, volle il caso che ciò andasse all'orecchio degli altri due patrizi Domenico Contarini q. m. Pietro, e Paolo Erizzo q. m. Marco. Idearono i giovani scapestrati di sturbare l'impresa, e nella notte fissata si posero armati a ronzare intorno al convento, per cui il Giustinian, venuto alla posta, dovette per prudenza ritirarsi. Un'altra notte poi, coll'aiuto del N. U. Giacomo Nanni q. Giovanni, scalarono le mura del sacro recinto, penetrarono ov'era la monaca, e facendole credere che il Contarini fosse il Giustinian, si intrattennero al buio con essa. Scopertosi il fatto, il Contarini e l'Erizzo furono condannati, con sentenza 14 maggio 1446, ad un anno di carcere, ed a 100 lire di multa pel sacrilegio commesso. Il Nani poi ed il Giustinian a sei mesi di carcere, ed alla multa medesima, questi pel suo proposito di rapire la monaca, e quegli per aver dato mano a scalare il convento.

Riporta il Sanudo che, volendo il patriarca, per breve avuto dal papa, consecrare monaca in S. Caterina una donna di casa Michiel, né volendolo le monache, che dicevano aver essa il marito ancor vivo, domandò l'aiuto del braccio secolare, e la notte del 10 ottobre 1517 mandò il proprio vicario ad entrar per forza nel monastero, atterrandone le porte. Le monache allora si chiusero in campanile, e cominciarono a suonare campana a martello, dal che nacque un maledetto tafferuglio nella contrada.

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S. Chiara (Fondamenta, Canale).
Nel 1236 Giovanni Badoer diede quest'isola a certa Costanza perché vi fabbricasse una chiesa ed un monastero. La chiesa fu nominata nei primordii S. Maria Madre del Signore, e le monache, che professavano la regola di S. Francesco, si chiamavano suore di S. Damiano pel primo monastero di Francescane, sotto tal titolo fondato da S. Chiara presso Assisi. Più tardi presero il nome di detta Santa, il quale si rese comune anche alla chiesa. Coll'andar del tempo, essendosi fra esse rallentata di molto la disciplina, il patriarca Antonio Contarini, nel principio del secolo XVI, le riformò, dividendole in due classi, l'una composta dell'antiche monache Conventuali, l'altra da nuove monache Osservanti, tratte dai monasteri della Croce, e del Sepolcro. Si mantenne questa divisione fino al 1565, in cui le monache Conventuali ancor viventi abbracciarono la riforma, e, sotto il governo dell'abbadessa Gabriela Molin, giunse il monastero ad essere, senza separazioni, un solo corpo di monache Osservanti. Nel 1594 le medesime furono poste eziandio sotto la immediata superiorità e giurisdizione dei patriarchi, finché nel 1806 vennero concentrate con le monache della Croce. Un incendio distrusse nel secolo XVI in gran parte la chiesa ed il convento di S. Chiara, dopo il quale ambidue gli edificii ebbero una rifabbrica. Nel 1819 si ridussero ad Ospitale Militare, al quale scopo servono tuttora.

Narra «suor Maria Felice dalla Vecchia», abbadessa di Santa Chiara dal 1592 al 1595, che, circa tre secoli prima, le «madre rodiere» del convento sentirono un giorno picchiar all'uscio, aperto il quale scorsero un pellegrino che loro consegnò una cassettina di rame, con un anello, pregandole a custodirgli quel «tramesso», né a consegnarlo ad alcuno, se non vedevano un anello consimile di riscontro. Passarono poscia molti anni senza che altri venisse a riprendere la cassettina, e frattanto, successo un allagamento, essa miracolosamente fu salva dalle acque. Di più certe «fantoline», o «zaghete», la videro più volte splendente per molti lumi, e sentirono risuonare nell'aere celesti armonie. S'indussero quindi le monache ad aprirla, e vi ritrovarono un chiodo colla scritta, essere quello il chiodo da cui furono trafitti i piedi del Salvatore, ed averlo colà depositato S. Luigi re di Francia, travestito da pellegrino. La buona abbadessa «Maria Felice» aggiunge che tosto formossi del fatto autentica scrittura, ma che questa ebbe la disgrazia di perire in occasione d'incendio, laonde non poteva far altro che citare il racconto delle «madre vecchie» in conferma di quanto esponeva. Alcune cronache dicono avvenuto il caso nell'anno di grazia 1262. Comunque siasi, il chiodo, che già veneravasi nella chiesa di S. Chiara, è quel medesimo che ora si venera in S. Pantaleone.

Abbiamo una legge del 16 luglio 1383 col titolo: «Monachae S. Clarae non teneant fratres propinquos monasterio suo». Per bene intenderla è da considerare che negli antichi tempi le monache generalmente solevano tenere nei proprii monasteri, od almeno poco discosto, alcuni frati per essere dirette dai medesimi, ma che, pegli abusi che nascevano, ciò venne col tempo proibito. Altra legge dell'ultimo luglio 1489 proibisce ai frati di «S. Francesco della cha Granda», i quali avevano «un suo luogo a confin della giexia, e monastier de dicte donne», di frequentare, sotto il pretesto d'amministrare i sacramenti, il monastero di S. Chiara.

Avea casa a S. Chiara il N. U. Pietro Pisani, il quale, incolpato d'aver assistito colà ad un segreto colloquio tenuto fra alcuni individui fidati del Carrarese, venne condannato, con sentenza 22 gennaio 1406 M. V., a cinque anni di carcere, ed in caso che fosse fuggito, alla confisca dei beni colla perdita di tutti gl'impieghi ed onori.

Sopra la «Fondamenta di S. Chiara» ammirasi il bel tempietto dedicato al nome di Gesù con annesso monastero di Clarisse Sacramentarie, edificii ambidue sorti a merito del sacerdote veneziano Giuliano Catullo. Fino dal 1806 suor Maria Vincenza, conversa nel monastero della Croce, aveva qui raccolto alquante donne desiderose di dedicarsi a vita religiosa. Nel 1815 si pose la prima pietra del tempio, il quale si consecrò per mano del patriarca di Venezia Jacopo Monico. Nel 1846 l'ospizio venne canonicamente eretto in monastero, e le donne rimasero in esso rinchiuse fino al 25 giugno 1849 in cui, per fuggire i pericoli del bombardamento, ripararono prima in casa di Andrea Pinaffo, loro procuratore, a San Cassiano, e poscia presso i padri di S. Francesco della Vigna. Quando però si ricomposero le cose, ritornarono a S. Chiara, ove hanno stanza tuttora. Vedi Cicogna («Inscr. Ven.», vol. VI).

Il «Canale di S. Chiara» anticamente aveva il nome di «Becolo». Vedi Gallicciolli, Lib. I, Cap. VII.

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S. Cosmo (Campazzo, Campo, Ponte)
alla Giudecca. Marina Celsi, monaca Benedettina, già abadessa in S. Maffio di Murano, ed in Santa Eufemia di Mazzorbo, involatasi alla corruttela di quei conventi, cominciò a fondare alla Giudecca nel 1481 una chiesa dedicata ai SS. Cosma e Damiano, ed un nuovo convento di monache Benedettine Osservanti, che furono compiuti nel 1492. Nel 1519 la pia donna fu mandata a riformare il monastero di S. Secondo. Nel 1523, restituitasi alle sue compagne, morì. La chiesa da lei fondata ebbe consecrazione dopo la sua morte nel 1583 per mano di Giulio Superchio, vescovo di Caorle. Attualmente ambidue gli edificii servono ad uso profano.

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S. Cristoforo vulgo Madonna dell'Orto (Parrocchia).
Vedi Madonna dell'Orto (Fondamenta ecc. della).

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S. Cristoforo (Calle, Ramo, Ponte)
a S. Vito. Da una statuetta di S. Cristoforo che, ancora pochi anni fa, scorgevasi collocata sopra una antica porta otturata.

La denominazione è altrove ripetuta. Vedi Carmini (Ponte dei).

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S. Daniele (Ponte, Rio, Campo, Ramo).
In questa situazione la famiglia Bragadin fondò nell'820 una piccola chiesa sacra a S. Daniele. Giovanni Pollani, vescovo di Castello, ne fece dono nel 1138 a Manfredo, abbate di Fruttuaria, della congregazione Cistercense di S. Benedetto, che l'ampliò e vi fece costruire accanto un monastero dipendente dall'abbazia di Fruttuaria. La chiesa di S. Daniele venne solennemente consecrata nel 1219 da Ugolino cardinale Ostiense, poscia papa Gregorio IX. Giunto il secolo XV, il priore Vincenzo da Sebenico cesse la chiesa col monastero alla pia donna Chiara Ogniben Sustan, per opera della quale, nel 1437, ai frati Benedettini si sostituirono monache Agostiniane. All'epoca della secolarizzazione dei conventi gli edificii di cui parliamo divennero caserma. La chiesa poi venne del tutto demolita nell'anno 1839, ed il convento è tuttora caserma dei Reali Equipaggi.

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S. Domenico (Calle, Ramo, Sottoportico, Corte)
a Castello. Nel 1317 si edificarono a Castello una chiesa dedicata a S. Domenico, ed un convento per dodici frati dell'ordine dei Predicatori, dietro lascito del doge Marino Zorzi. Avevano però dipendenza dal monastero dei SS. Giovanni e Paolo, e fu soltanto nel 1391 che il beato Giovanni Dominici li rese indipendenti. Ai frati di S. Domenico di Castello fu affidato nel 1560 da Pio IV il tribunale della Inquisizione, che prima era commesso ai Francescani. Nel 1807 questo convento fu consegnato alle truppe della Marina e poco dopo si atterrò colla chiesa per formare l'area dei Pubblici Giardini. Dal tempo della loro fondazione ambidue gli edifici erano stati più volte ristaurati.

Non lungi dalla chiesa di S. Domenico di Castello venne a morte il 26 marzo 1558, in età di 102 anni, Cassandra Fedele, che lesse nello studio di Padova, disputò in teologia coi primi uomini del tempo, cantò versi latini all'improvviso, compose alcune opere, e fu celebrata da molti letterati. Essa nel suo testamento, 28 agosto 1556, in atti di Benedetto Baldigara notaio veneto, si denomina «Cassandra Fedel rel.ta del q. ex.te m. Z. Maria Mapello D. in medicina, et Priora del hospeal delle donzele appresso S. Domenego». Dice che, trovandosi «in età decrepita», andò a fare il testamento suddetto in chiesa di S. Bartolammeo di Castello, più conosciuta oggidì sotto il titolo di S. Francesco di Paola. Elegge esecutori testamentari l'avvocato Benedetto Lio suo nipote, e «fra' Zuane Foresto» dell'ordine dei Predicatori. Vuole essere sepolta in chiesa di S. Domenico. Benefica quel convento. Lascia a Benedetto Lio porzione di casa in «Calle della Testa» ai SS. Giovanni e Paolo, la qual casa era tenuta «pro indiviso» da essa, e da Domenico di Fabii altro suo nipote. Lega i suoi libri ai figliuoli di Benedetto Lio. Istituisce finalmente erede residuaria «Antonia mojer del dito Beneto». Maria Petrettini poi, nella «Vita di Cassandra Fedele», narra che, per opinione dell'abate Sante dalla Valentina, l'ingresso dell'ospizio, od orfanatrofio di donzelle, (e non «convento di sacre vergini», come erroneamente scrisse il Tommasini), diretto da Cassandra, era quella gran porta di gotica architettura, recante in fronte alcune sculture di santi Domenicani, la quale, per antica tradizione, si chiama la «porta dell'ospeal delle Pute», e scorgesi a Castello nella «Strada Nuova dei Giardini» (ora «Strada Garibaldi»), non lungi dalla «Calle di S. Domenico».

Scrive il Savina: «Del 1586 del mese di febbraro si fece una rappretatione della Virtù e del Vizio dalli Padri di S. Dom. di Castello con il concorso di tutta la città, dove un fra' Gio. Maria da Brescia, mascherato da fachino, sparlò in scena d'una mala maniera della Religione, dicendo che ruberebbe il tabernacolo del Santiss. Sacramento al Papa, et che lo scorticherebbe, et delli Senatori Veneti, con dire chel metterebbe volentieri quegli delle veste purpurate in galea al remo (sendone presenti infiniti senatori), per il che fu cacciato fuori della scena, et si formò processo contro di lui dal Nuntio di S. Santità et dalli Ecc. Sig. Capi di X. Et, di ordine del sud. Nuntio, fu affisso alle porte della chiesa di S. Dom. un cedolone, et lo citava a comparire in termine di due giorni, il quale non comparve altrim.te, et fu detto et attribuito ciò alla pazzia che alle fiate regnava in quel padre».

Nel convento di S. Domenico di Castello vestì l'abito nel 1668 Pier Francesco degli Orsini, duca di Gravina, che il 24 maggio 1724 venne creato pontefice sotto il nome di Benedetto XIII.

Sopra il «Ponte di S. Domenico», ora distrutto, i padri inquisitori solevano il 29 aprile d'ogni anno accendere una catasta di legna per bruciare tutti i libri proibiti, che durante l'anno, avevano potuto raccogliere.

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S. Domenico (Calle)
presso le «Zattere». Da dieci case che nel 1661 vi possedevano i «reverendi padri di S. Domenico di Castello». Queste case, poste nell'antica parrocchia di S. Agnese, erano in essi pervenute pel testamento di «Lodovica Ravagnan da S. Severo», fatto il 3 febbraio 1510 M. V. in atti di Bernardo Cavagnis.

Eccone il punto relativo: «Lo residuo veramente de tutti altri mei beni mobili et imobili, rason de crediti caduchi, inordinati, et non scripti, et altra jurisdictione, così de le mie case de Chioza, quanto de quelle che sono a S. Agnese de Venetia, così de monte novo et novissimo, quanto de monte vecchio, fornimenti de casa, et ogni altri beni che se troveranno in casa et fuori de casa al tempo de morte mia, cum le case, et tutte le cosse che saranno in quelle, cum scripture et ogni altra rasone di miei debitori, per qualunque modo e forma aspetano ed aspettar potessero a mi de presente et in futurum, lasso a li frati del prefato convento de S. Domenico de Castello, i quali istituisco miei heredi et ressiduarii universali per dote de la prefata capella de S. Domenico, avanti de la quale ho ordinato esser sepolto el mio corpo dopo la mia morte, con obbligo che li prefati frati miei heredi et residuarii siano obligati celebrar ogni zorno una messa in la prefata capella per l'anima mia e de mio padre, e de mia madre, e de mia neza Marcolina, e de mia ameda madona Diana da cha Savin».

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S. Elena.

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S. Eufemia (Parrocchia, Fondamenta, Campiello, Ponte, Rio di)
alla Giudecca. La cronaca Scivos ci assicura che la chiesa parrocchiale sacra a S. Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, martiri in Aquileja, fu costrutta nell'865 sotto il doge Orso Partecipazio. Dopo essere stata ristaurata più volte, venne ridotta alla forma attuale verso la metà del secolo trascorso. Deve aver avuto varie consecrazioni, delle quali però nulla sappiamo, eccettuatane quella del 1371, ricordataci da una lapide innestata presso la porta. Nel 1810 la sede parrocchiale si traslatò dalla chiesa di S. Eufemia in quella del SS. Redentore per essere di bel nuovo trasportata a S. Eufemia quando nel 1822 riebbero i Cappuccini i loro antichi possedimenti.

Andrea Davanzago, pievano in S. Eufemia della Giudecca, essendo morta nel 1437 certa Mina, indusse alcune femminucce a deporre che la defunta, con testamento nuncupativo, gli aveva lasciato tutti i suoi averi. Citato perciò innanzi la Quarantia Criminale, disse nello scolparsi mille pappolate, verbigrazia che la Mina, morendo, aveva partorito due figli «tendentes in invisibile», il primo dei quali nel 1440 doveva essere pontefice, ed il secondo imperatore, aggiungendo altre parole che per modestia, dicono le «Raspe», si passano sotto silenzio. Le sue difese però nulla gli valsero, poiché, con sentenza 9 agosto del medesimo anno 1437, fu condannato a restituire ai parenti della Mina, i quali giacevano nella povertà, quanto riteneva dei beni di essa, ed a rimanere in carcere fino al momento dell'intera restituzione.

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S. Fantino (Campo, Ponte).
La chiesa ex parrocchiale di S. Fantino credesi fondata dalle famiglie Barozzi, Aldicina, ed Equilia nei primordii di Venezia. Ebbe una rifabbrica a spese della famiglia Pisani, quando vi fu trasferita dall'Oriente un'immagine miracolosa di Nostra Donna, per cui chiamossi chiesa di S. Maria delle Grazie e di S. Fantino. Altro ristauro dovette avere nel secolo XV, imperciocché il suo prospetto è chiamato dal Sabellico «frons aedis nitida, candidoque saxo nuper instaurata». Venne poi riedificata di pianta sul principio del secolo XVI dietro legato del cardinale G. Battista Zeno. Narra il Sanudo nei «Diari», che il 25 marzo 1507 il doge andò a porvi la prima pietra. Senonché l'opera andò procedendo così lentamente che nel 1535 non era per anco compiuta. Se ne attribuisce il disegno a Tullio Lombardo, oppure allo Scarpagnino. Il Sansovino, coadiuvato, secondo il Temanza, dal Vittoria, v'aggiunse la cappella maggiore nel 1564. Nel 1810 la chiesa di San Fantino da parrocchiale divenne sussidiaria di S. Maria Zobenigo.

Il «Ponte di San Fantino» venne eretto soltanto nel 1842. E' noto che nel 1819, cantando al teatro della Fenice Giuseppina Fedor, si dovette, pel grande concorso, fare in questo sito un ponte di barche, il quale, al termine della stagione, venne rimosso.

In una casa, posta nella parrocchia di San Fantino, abitava Vittor Pisani, e fu a questa casa ch'egli, liberato dalla prigione, si diresse «accompagnato», come scrive il Barbaro, «dalla metà del popolo di Venetia, et massime da marineri gridando ― Viva Vettor Pisani! ― E lui diceva ― Gridè Viva San Marco! ― Vedendo et udendo ciò il suo Almiraggio se li accostò, et disse ― Questo saria il tempo di farvi signore ― Et lui li diè un pugno sul viso dicendo « Taci traditore!» La casa suddetta, con altre vicine, solite a darsi a pigione, è nominata da Vittore Pisani nel suo testamento, fatto il giorno 11 aprile 1380 negli atti d'Antonio Bordo, prete di S. Maria Zobenigo. Abbiamo voluto investigare con precisione dove essa sorgesse. E primamente ci venne sott'occhio un passo del Sanudo nei «Diari» indicante che le case dei Pisani a S. Fantino sorgevano «per mezzo ca' Molin». Dagli estimi poi abbiamo appreso che il sito delle medesime stava non lungi dal «Campo», per andar a S. Maria Zobenigo, e che anzi una di esse, la più grande, era l'ultima casa della contrada. Si deve credere adunque che esistessero sopra l'area dell'attuale teatro della Fenice, in fianco al quale havvi tuttora l'arma dei Molin, scolpita sopra un fabbricato. Queste case, che nel 1661 si scorgono in ditta del «N. U. Maffeo Pisani», erano già nel 1713 passate in quella del «N. U. Vincenzo Molin».

Per due chiari soggetti della famiglia Giustinian che videro la luce in parrocchia di San Fantino, vedi Fruttarol (Calle del).

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S. Felice (Parrocchia, Fondamenta, Rio, Campo, Traghetto, Ponte, Ramo e Ponte, Ponte Nuovo).
La chiesa di San Felice venne eretta nel 960, oppure nel 966, dalla patrizia famiglia Gallina, e nel 1267 consecrata dai vescovi Leonardo di Jesolo, e fra' Marino di Caorle. Minacciando di cadere, ebbe una rifabbrica, sulle traccie della scuola Lombardesca, nel secolo XVI, ed un'altra consecrazione nel 1624 per opera di Giovanni Tiepolo patriarca di Venezia. Sembra che la istituzione della parrocchia sia stata contemporanea a quella della chiesa. Nel 1810 le si aggregò la massima parte della parrocchia di S. Sofia, allora soppressa, ma le furono sottratte alcune contrade che si aggiunsero a quella dei SS. Apostoli.

L'antico «Ponte S. Felice» è additato dal Sabellico come opera in origine d'un Pietro Michieli.

Il «Ponte Nuovo S. Felice», che prima non esisteva, venne eretto nel 1872, quando tracciossi la «Via Vittorio Emanuele».

In «Parrocchia S. Felice» abitava Marcantonio Bragadin martire della fede. Vedi Bragadin (Calle).

Si ha dalle cronache che Luchino Novello Visconti, dopo che Isabella dal Fiesco sua madre fu condannata a morte, ritirossi a Venezia, ove sposò Maddalena figliuola di Michele Contarini, nella cui casa, posta in parrocchia di S. Felice, venne a morte il 7 luglio 1399, lasciando dodici mila fiorini ai Procuratori di S. Marco perché fossero impiegati in opere di beneficenza. Come appare dagli Estimi, le case dei Contarini a S. Felice erano presso il «Ponte Noal», ora «Nicolò Pasqualigo».

Vi venne alla luce nel 1693 papa Clemente XIII, che perciò concesse ai pievani di S. Felice il titolo e le insegne di Protonotarii Apostolici. Vedi Fontana (Calle).

In tempi più vicini vi esisteva finalmente l'accademia dei «Seguaci di Talia», solita a radunarsi in casa d'Antonio Tassini, il quale apparteneva alla famiglia dello scrittore di queste pagine. Si legge nella «Gazzetta Urbana ― Lunedì 4 corrente» (1787) «ebbero termine le recite della nuova accademia degli per ora detti seguaci di Talia, in casa del signor Antonio Tassini. Nelle poche rappresentazioni che furono prodotte da essa accademia si distinse il nob. signor Alessandro Zanchi, pareggiandosi coi più provetti nell'arte comica. Il N. U. s. Lorenzo Grimani ed il nob. sig. Giacomo Trevisan furono applauditi, e non promettono che una felice riuscita. S'aprirà questa accademia nell'agosto venturo, ed in allora, seguendo le traccie bene avanzate dell'altre accademie, sarà in grado di produr Tragedie, Drammi, e perfetti Intermezzi di Musica ―» La stessa Gazzetta segue a narrare che la sera del 12 agosto 1787 i Seguaci di Talia provarono il «Giulio Sabino in Roma», tragedia del cav. Greppi bolognese, e che la sera del 17 l'eseguirono con lode, adoperando il vestiario che serviva alla compagnia di S. Benedetto quando rappresentò la stessa tragedia. Furono bene sostenute le parti specialmente di Sabino e di Vespasiano.

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S. Fosca (Campo, Ponte, Rio, Salizzada, Calle).
Vuolsi che la chiesa di S. Fosca sorgesse nell'873 per opera di Crasso Fazio, vescovo d'Olivolo, ma è più probabile che, da Sàbatra trasportato a Torcello nel secolo X il corpo di S. Fosca, si estendesse anche a Venezia il culto di questa Santa, e che le si fabbricasse l'anzidetta chiesa. Essa nel 1297 fu ristaurata e trecento ottantadue anni dopo, cioè nel 1679, rifabbricata. Nel 1733 decorossi di nuovo prospetto a merito di Filippo Donà, e consecrossi da Girolamo Fonda, vescovo Nonense. Finalmente nel 1741, a spese del medesimo Donà, se ne rifece il soffitto crollato a terra il 24 giugno di quello anno dopo l'ultima messa, al qual fatto allude l'iscrizione: «Ad majorem Dei gloriam. MDCCXLI». Questa chiesa, che da parrocchiale divenne nel 1810 sussidiaria di quella dei SS. Ermagora e Fortunato («vulgo S. Marcuola»), ebbe nel 1847 ristauri, ed abbellimenti novelli.

Ricordano i cronisti che il campanile della chiesa di Santa Fosca cadde il giorno di San Lorenzo del 1410 a cagione d'un turbine fierissimo, che arrecò danno a Venezia per sessanta mila ducati.

Nel 1535 fu posto a reggere, come pievano, la chiesa di Santa Fosca, Nicolò Liburnio, uomo letterato, ed autore della «Spada di Dante», e d'altre opere. Egli morì nel 1557, e nella sua chiesa venne sepolto in un'arca, sopra il coperchio della quale scorgevasi intagliata in marmo la di lui immagine, che Pietro Gradenigo da S. Giustina, come disse ne' suoi «Notatorii», fece disegnare dal Grevembroch perché non se ne perdesse la memoria.

Era della chiesa di S. Fosca quel prete Agostino, che, solendo bestemmiare giocando, fu il 7 agosto 1542, secondo la cronaca del Barbo, posto in berlina fra le due colonne di San Marco da terza a nona, chiuso il giorno seguente nella «cheba» fino al termine di settembre, condannato poscia a compier l'anno nella «Prigion Forte», e finalmente bandito in perpetuo. Riporta il Gallicciolli alcuni versi che in quest'occasione vennero stampati, e ch'egli trasse da una miscellanea posseduta dal Morelli, ove scorgevasi effigiata la «cheba», o gabbia, quadrata, sporgente da una finestrella a metà del campanile di S. Marco. Del supplizio della «cheba» abbiamo altrove parlato. Qui aggiungeremo che malamente asserisce il Gallicciolli, sulla fede della cronaca Erizzo, che questo supplizio abbia terminato nel 1518, mentre, come si è veduto, era in uso ancora nel 1542. Forse dopo il 1518 non avrannosi più condannati i rei alla «cheba» in vita ma temporariamente soltanto.

Giù del «Ponte di S. Fosca», il 5 ottobre 1607, sull'imbrunire, fu colto da cinque ignoti assassini, e gravemente ferito il celebre fra' Paolo Sarpi. Essendo egli incorso nell'odio della corte Romana per difendere la Repubblica, della quale era teologo consultore, sospettossi che dal nunzio pontificio fossero stati pagati gli assassini. Almeno così mostrò di credere il Sarpi medesimo, se è vero che al chirurgo, il quale diceva di non aver medicato ancora più stravaganti ferite, rispondesse: «Eppure il mondo vuole che sieno state date "stilo Romanae curiae!"«. Il fatto del ferimento viene raccontato da fra Fulgenzio Micanzio, discepolo del Sarpi, colle seguenti parole: «... 5 ottobre 1607, circa le 23 hore, ritornando il padre al suo convento da San Marco a Santa Fosca, nel calare del ponte verso la fondamenta, fu assalito da cinque assassini, parte facendo scorta, e parte l'esecuzione, e restò l'innocente padre ferito di tre stilettate, due nel collo et una nella faccia ch'entrava all'orecchia destra, et usciva per appunto a quella vallicella che è tra il naso e la destra guancia, non havendo potuto l'assassino cavar fuori lo stilo per haver passato l'osso, il quale restò piantato e molto storto... L'assassino hebbe prima comodità di colpire, e gli diede più di quindici colpi di stile, come fu veduto da alcune donne ch'erano alle finestre, e se ne vedevano i fori nel cappello, nel capuccio, e nel collaro del giuppone, ma tre soli lo ferirono... Il padre si contentò che quello stile fosse appeso a' piedi di un crocefisso nella chiesa dei Servi... con l'inscritione: Dei Filio Liberatori«.

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S. Francesco della Vigna (Parrocchia, Campo, Ponte, Rio, Salizzada).
Fra le molte vigne, che eranvi in Venezia, la più estesa di tutte, e la prima che avesse fruttificato riputavasi quella della famiglia Ziani. In essa scorgevasi una chiesetta, dedicata a S. Marco, perché, secondo una volgar tradizione, questo era il luogo ove avea pernottato l'Evangelista assalito da fiera burrasca, ed eragli apparso un angelo dicendogli: «Pax tibi Marce evangelista meus!» e profetizzandogli la futura fondazione di Venezia. La vigna, di cui parliamo, insieme alla chiesa ed alcune botteghe, fu lasciata, mediante testamento 25 giugno 1253, da Marco Ziani conte d'Arbe, figlio del doge Pietro, ai «frati Minori», ovvero «frati Predicatori», ovvero «Cistercensi». Ebbero la preferenza i Minori Osservanti, che vi fermarono stabile domicilio. Accresciutosi in seguito il numero di essi, si dovette ampliare il loro convento, e si eresse una nuova chiesa sul disegno di Marino da Pisa, la quale si chiamò di S. Francesco della Vigna, lasciandosi però intatta quella di S. Marco, che rimase in piedi fino al 1810 nell'orto dei Padri. Minacciando la chiesa di S. Francesco rovina nel secolo XVI, si pensò di rifabbricarla sopra disegno del Sansovino, e la prima pietra dell'opera fu posta il giorno 15 agosto del 1543. Insorti però alcuni dispareri, venne per qualche tempo intermesso il lavoro, e consultossi il frate Francesco Giorgi, che rilasciò sopra la rifabbrica un suo giudizio in iscritto, a cui dovette uniformarsi il Sansovino. Non piacque nemmeno il disegno della facciata ideata da quest'architetto, e fu scelto un altro disegno presentato dal Palladio nel 1562. A tali contese alludono probabilmente le iscrizioni che si leggono negli intercolunnii delle due ale, ove da una parte sta scritto: «Non sine jugi interiori», e dall'altra: «Exteriorique bello». Compiuta finalmente la chiesa, ebbe consecrazione il 2 agosto 1582 per mano di Giulio Superchio vescovo di Caorle. Anche il convento ebbe in quell'occasione qualche ristauro, ma, avvenuta ai tempi napoleonici la soppressione degli ordini religiosi, fu, come tanti altri, ridotto a caserma. Ed a caserma continuò a prestarsi anche dopoché i Minori Osservanti vennero nel 1836 ristabiliti in Venezia, i quali andarono ad abitare un altro prossimo convento, fondato fino dal secolo XV da Maria Benedetta principessa di Carignano, e da Maria Angela Canal per le Terziarie Francescane, convento che essi frati ampliarono in seguito coll'unione del palazzo della Nunziatura. Ma nel 1866 abbandonarono anche queste fabbriche, ed attualmente occupano il loro convento antico, comperato dal «Commissariato di Terra Santa».

L'istituzione della parrocchia di S. Francesco della Vigna data dal 1810. Si compose allora il suo spirituale circondario con alcune contrade delle allora soppresse parrocchie di S. Giustina, S. Tèrnita e S. Antonino.

Il campanile di S. Francesco della Vigna fu eretto nel 1581 per opera del proto Bernardino Ongarin, che fu sepolto ai suoi piedi. Questo campanile fu colpito da saetta la sera del 21 settembre 1758, e ristaurossi nel 1760.

Nel pozzo posto in «Campo di S. Francesco della Vigna» ritrovossi il 15 agosto 1736 il cadavere d'un Giacomo «tesser da tela ai SS. Apostoli», che volontariamente vi si era gettato per affogarsi.

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S. Francesco di Paola (Calle).
Bartolammeo Querini, vescovo di Castello, ordinava nel 1296, con testamento, che si erigesse uno spedale per sedici infermi. Compiuta la fabbrica, vi si innalzò accanto, cinque anni dopo, un oratorio dedicato a S. Bartolammeo. Scorsi circa tre secoli, lo spedale, già cadente per vetustà, fu cesso ai Minimi di S. Francesco di Paola, i quali lo ridussero a convento, e nel 1588, demolito l'oratorio, posero la prima pietra dell'odierna chiesa, che fu poi finita e consecrata nel 1619 col doppio titolo di S. Bartolammeo, e di S. Francesco di Paola.

Giunto il 1806, il convento divenne caserma, e recentemente rifabbricossi ad uso di pubbliche scuole.

Dietro la chiesa di S. Francesco di Paola esisteva, ancora alcuni anni fa, un ospizio per 10 povere donne, già juspatronato della famiglia Querini, e fondato forse a sostituzione dell'altro ospizio, od ospedale per sedici infermi, di cui parlammo più sopra.

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S. Gaetano (Campiello)
a S. Fantino. Qui raccoglievasi il suffragio di S. Gaetano, aggregato all'Arciconfraternita della Trinità, eretta in «Ponte Sisto» di Roma, coll'associazione alle due religioni Domenicana e Teatina. Esso ebbe principio per concessione del Consiglio dei X, 24 febbraio 1690 M. V., nella chiesa di S. Fantino, ove si elesse l'altare dedicato alla Visitazione della B. V. ed a S. Elisabetta. In seguito, cioè il primo settembre 1722, prese a pigione per le proprie riduzioni dalla patrizia famiglia Molin un prossimo stabile, che comperò nel 1752, ed in cui nel 1754 ottenne di poter far celebrare la messa, e di recitare l'ufficio dei morti. Questo stabile, il quale è posto nel «Campiello» di cui parliamo, ha tuttora scolpito sulla facciata lo stemma della famiglia Molin. Il suffragio di S. Gaetano dispensava ogni anno, come dice il Coronelli, alcune grazie alle figlie dei confratelli.

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S. Gallo (Calle, Ramo, Ponte).
La chiesa di S. Gallo vuol essere stata eretta circa il 1581, epoca nella quale venne qui trasferito l'ospedale già fondato dal santo doge Orseolo presso il campanile di S. Marco, donde si tolse per far luogo alle «Procuratie Nuove». Questa chiesa, che era annessa all'ospedale suddetto, e che dipendeva immediatamente dal Doge, venne rinnovata nel 1703 a merito del suffragio di S. Maria degli Angeli, per cui scorgesi scritto sulla facciata: Ad Maiorem Dei Et Mariae Angelorum Gloriam. Anno Domini mdcciii. Così dice il Todeschini («Della Dignità dei Procuratori di San Marco», Codici 613-614, Cl. VII, della Marciana): «L'oratorio con un solo altare e d'angusta estensione... in questi ultimi tempi ha cambiato figura. Introdottosi in esso (e vi sarà certamente concorso il consenso ducale) il suffragio di S. Maria degli Angeli, hanno desiderato li confratelli arricchirlo di due nuovi altari e perciò ampliarlo anche per maggior comodo delle riduzioni. Prodotto ai Procuratori il ricorso, atteso che veniva ad estendersi sopra terreno proprio della chiesa di S. Marco, li fu accordata la facoltà di occupare colla nuova fabbrica soli passa nove di terreno in larghezza, e passa venti in lunghezza, purché non s'intacchi e pregiudichi le ragioni del pozzo ivi esistente, coll'obbligo di corrispondere il giorno di S. Gallo alla chiesa di S. Marco l'annuo canone di libre sei di cera lavorata, a cui annuì pure il Senato, e l'obbligazione fu assunta poi da tutti li fratelli capitolarmente uniti, e dal governatore del suffragio stesso riconfermata con costituto annotato nei Registri della Procuratia de Supra».

Il «Ponte di S. Gallo» viene chiamato dal popolo anche «Ponte della Piàvola» (fantoccio) per la sua piccolezza. Esso fu costrutto nel 1840, avendosi dovuto prima superare non poche difficoltà, messe in campo dall'autorità politica, per la ristrettezza del sito.

S. Gallo (Campo).
Vedi Rusolo.

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S. Geremia (Parrocchia, Salizzada, Campo, Traghetto).
Si attribuisce dai più la fondazione della chiesa di S. Geremia a Mauro Tosello, o Marco Torcello, ed a Bartolammeo di lui figlio, nel secolo XI. Ebbe una rifabbrica per opera del doge Sebastiano Ziani nel 1174, come ben nota il Gallicciolli, e non, come vorrebbe il Corner, nel 1223, epoca in cui lo Ziani era già morto. Fu poi consecrata nel 1292, locché appare da una iscrizione tuttora superstite, incastrata in uno dei piloni verso la porta maggiore. Finalmente nel 1753 venne riedificata di pianta sul disegno del prete Carlo Corbellini e si ha memoria che nel giorno 27 aprile 1760 vi si celebrò la prima messa, quantunque non avesse ancora ottenuto compimento, il che avvenne soltanto nel nostro secolo, nel quale venne riconsecrata per mano del patriarca Giuseppe Monico. Prima dell'ultima rifabbrica, aveva una sola facciata sul Campo volta a ponente, verso il palazzo Flangini, con lungo portico laterale. Ma poscia n'ebbe due, l'una sul Campo, volta a settentrione, e l'altra sul «Canale di Cannaregio», volta ad oriente. Quest'ultima venne ridotta a termine nel 1871 a merito e dispendio del barone Pasquale Revoltella.

La chiesa di S. Geremia fino dal 1174 figurava fra le parrocchiali. Nel 1810 se ne ampliò il circondario coll'aggiunta di quello di S. Lucia, e di porzione di quello di S. Leonardo, parrocchie allora soppresse.

In chiesa di S. Geremia predicò quel frate Bartolomeo Fonzio veneziano il quale, come eretico, venne la notte del 4 agosto 1562 annegato, con una pietra al collo, nelle acque dei nostri lidi.

Accanto alla chiesa havvi il fabbricato destinato alle riduzioni della confraternita della B. V. del Suffragio dei Morti, detto volgarmente di S. Veneranda. Essa fino dal 1615 radunavasi in chiesa di S. Geremia all'altare della B. V. del Popolo, e nel 1658 costrusse, a spese della famiglia Savorgnan, il presente edificio, che, incendiato durante l'assedio del 1849 per la caduta di una bomba, venne poscia ricostrutto.

Al «Traghetto di S. Geremia» scorgesi una statua di S. Giovanni Nepomuceno, lavorata nel 1742 dallo scultore Marchiori, a merito della N. D. Maria Labia, e di Antonio Granarol di lei cameriere. Ciò avvenne ai tempi del pievano G. Battista Spreafighi, come da epigrafe sottoposta.

Vuolsi che in parrocchia di S. Geremia avesse principio il Seminario Patriarcale, stanziato oggidì alla Salute. Egli è certo che nei registri della Chiesa, ove si parla d'alcuni parrocchiani defunti, leggesi: «in Calle del Forno in faccia il seminario»; «vicino al seminario»; «per mezzo il seminario». Quando esso venisse fondato s'ignora; scorgesi soltanto nel libro di cassa della Scuola del Santissimo che dal 1584 al 1589 il Guardiano era solito di comperare alcune candele pei chierici del seminario di S. Geremia, che dovevano intervenire alla processione del Venerdì Santo. Dopo il 1589 non havvi altra annotazione di tal fatto. L'autore però delle «Vite e memorie dei Santi spettanti alle Chiese della Diocesi di Venezia», dal quale ricavammo le surriferite notizie, è di parere che il seminario di S. Geremia non servisse che pei chierici ascritti a quella parrocchia.

Nella parrocchia di S. Geremia, presso Francesco Riccio, sensale di seta, nelle case della famiglia Frizier, «al Forno», abitava Marzio Marzi dei Medici, vescovo di Marsico, ambasciatore dei Fiorentini presso la nostra Repubblica. Curioso è il suo testamento, 1 febbraio 1563 M. V., in atti Nicolò Cigrini, in cui egli confessa come, essendo a Trento, aveva preso in qualità di governante Giovanna figlia del suddetto Riccio, «e tentato dalla carne», l'aveva resa gravida. Fa adunque delle disposizioni a favore della prole nascitura. Come s'apprende poi dal susseguente codicillo 29 agosto 1569, tal prole fu una femmina, che chiamossi Mammea, alla quale in quell'epoca era già tenuta dietro un'altra figlia appellata Ersilia, nata dalla stessa Giovanna. Il vescovo Marzi consecrò nel 1573 la nostra chiesa dei SS. Rocco e Margarita, e morì nel 1574, venendo sepolto alla Madonna dell'Orto.

In parrocchia di S. Geremia morì nel 1570 Daniel Barbaro eletto patriarca d'Aquileja.

Nella medesima parrocchia venne a morte il poeta Ercole Bentivoglio. Si legge nei Necrologi Sanitari, sotto il 6 novembre 1573: «Il sig. conte Erchole Bentivoglio di anni 66 da un cattaro za m.si 3, visità dal Ec.te Secchi. S. Jeremia». Egli, per cura d'Elisabetta Bentivoglio, fu sepolto a S. Stefano con monumento, che oggi più non si vede, presso l'altare della Croce Grande, e poi della Cintura.

Alla voce «Campo» notammo le cacce dei tori, che davansi, come in altri molti, anche nel «Campo di S. Geremia». Qui però non possiamo dispensarci dal favellare della caccia stupenda, che ebbe luogo nella seconda metà del secolo trascorso in questo Campo, con intervento di persone di alto affare, e dell'ambasciatore spagnuolo, caccia la quale probabilmente è quella incisa dal Lovisa. Dopo che essa ebbe termine, il N. U. Girolamo Savorgnan, giovane nerboruto e d'alta statura, tagliò d'un colpo a due mani la testa a due tori d'Ungheria nel punto medesimo, senza aver fatto loro segare le corna. Grandi meraviglie ne fecero i beccai, non già perché quel gentiluomo uccidesse due teste ad un colpo, il che si era fatto da qualche altro, ma perché nessuno prima di lui si pose al cimento senza aver fatto segare le corna degli animali. Vedi la «Cicalata sulle Cacce di Tori Veneziane» composta da Michele Battagia, Venezia 1844.

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S. Giacomo (Sottoportico di)
a Rialto. E' fama che la chiesa di S. Giacomo sia la più antica di Venezia, e fosse eretta nel 421 per voto fatto da certo Eutinopo Greco in occasione di un grande incendio, che abbruciò in Rialto 24 case. Altri però la vogliono innalzata nel 428, ed altri nel 540. Si rifabbricò più volte, ed ultimamente nel 1600, ma sempre se ne conservò la forma primitiva. Nel 1860 se ne dipinse a fresco la facciata da Eugenio Moretti Larese.

La chiesa di S. Giacomo dipendeva nei primordii dal vescovo di Padova, poscia divenne juspatronato dei Querini e dei Tiepolo, e finalmente passò sotto la giurisdizione del principe. Visitavasi ogni anno nel mercoledì santo dal doge e dal senato, per fruire dell'indulgenze che il papa Alessandro III le avea concesso trovandosi nel 1177 in Venezia. Conservò un rettore col titolo e le prerogative di pievano fino al 1810, in cui divenne oratorio sacramentale soggetto alla chiesa di S. Silvestro.

La piazzetta, sottostante alla chiesa di S. Giacomo, selciossi per la prima volta di macigni nel 1758. In questa piazzetta, fino dal 15 dicembre 1542, decretossi l'erezione d'un pulpito di legno ad imitazione di quello che esisteva in «Piazza di S. Marco», donde un religioso, a tale effetto stipendiato, dovesse predicare al popolo nel dopo pranzo. Quest'uso, già cessato in Rialto, continuò a S. Marco fino ai primi tempi del governo Italico, ed è nota la baldoria in mezzo alla quale le maschere nell'ultima notte di carnovale, durante il suono del campanone, tiravano in giro esso pulpito, che aveva sottoposte delle ruote per poter essere facilmente da un luogo all'altro trasportato.

S. Giacomo (Campo, Fondamenta)
alla Giudecca. Marsilio da Carrara, grato alla Repubblica, per cui mezzo aveva riacquistato Padova, lasciò per testamento nel 1338 una somma onde si erigessero in Venezia una chiesa dedicata alla Beata Vergine, ed un monastero di religiosi Serviti sotto il juspatronato del doge. Le fabbriche si compirono l'anno 1343 nell'isola della Giudecca. La chiesa appellossi di S. Maria Novella, ma essendo stata eretta ove prima sorgeva un oratorio sacro a S. Giacomo Apostolo, acquistò il nome di quest'ultimo santo. Essa fu consecrata nel 1371 a merito di Gabriele Dardano Veneziano. Nel principio di questo secolo atterrossi insieme al convento.

S. Giacomo dall'Orio (Parrocchia, Campo, Rio).
La chiesa di S. Giacomo Maggiore Apostolo, secondo alcuni cronisti, s'appella «dall'Orio» perché sorse sopra quell'isola, la quale nei primi tempi, forse pei molti lupi, appellavasi promiscuamente «Lupao», «Lopio», «Lupi», «Lupriulo», «Lupiro», «Lupario», «Lorio», «Orio», e «Lauro», e che, oltre il circondario di S. Giacomo, comprendeva quelli di S. Chiara, di S. Croce, di S. Giovanni Evangelista, di S. Giovanni Decollato, e di S. Cassiano, venendo a comporre eziandio la contrada dei SS. Ermagora e Fortunato, quantunque rimanesse oltre il Gran Canale sopra un'altra isoletta chiamata «Lemeneo», e quantunque non fossevi un ponte che la congiungesse all'isola principale cui apparteneva. Alcuni altri però vogliono che Orio non sia sinonimo di «Lupao», «Lopio» ecc., ma appellazione ristretta alla sola parrocchia di S. Giacomo, introdotta posteriormente, e derivante dalla famiglia «Orio». Il Sansovino invece opina che «Orio» sia corruzione di «dal rio», e che la chiesa di San Giacomo sia stata così appellata per avere il prospetto volto verso un rivo. Questa chiesa sorse, a quanto pare, nel X secolo per cura delle famiglie Campoli da Oderzo, e Muli dalle Contrade. Fu rinnovata nel 1225 dalle famiglie Badoer e da Mula, ed assoggettata ai patriarchi di Grado, sotto ai quali rimase finché il patriarcato di Grado si unì al vescovato di Castello. Un radicale ristauro lo ebbe ai tempi del Sansovino, cioè nel secolo XVI.

L'istituzione della parrocchia data probabilmente dalla fondazione della chiesa. Ebbe alquanto ristretto il proprio circondario per la riforma del 1810. Imperciocché, se guadagnò alcune frazioni delle soppresse parrocchie di Sant'Ubaldo, S. Agostino, S. Giovanni Decollato, e Sant'Eustachio, e piccola parte della conservata parrocchia di San Simeone Profeta, dovette cedere alla medesima, nonché a quella di San Cassiano, strade non poche.

Troviamo nel codice 3255 della Raccolta Cicogna la nota seguente: «Si diede principio al gioco nobile del Pallone dai nostri patrizii nel Campo di S. Giacomo dall'Orio ne' secoli scorsi, non però con la frequenza d'oggidì, e perché in detto luoco andavasi facendo quantità d'erba, l'ha trasportato nel Campo dei Gesuiti per alquanti anni. Cresciuto poi sempre più il numero ed il valore dei giuocatori, risolsero di salizare il soradetto Campo di S. Giacomo l'anno 1711, essendovi il millesimo scolpito in marmo al segno del batter».

Ci raccontano i «Notatori» del Gradenigo che la sera del 24 luglio 1767, vigilia della «sagra» di S. Giacomo dall'Orio, cadde dall'alto d'un vecchio edificio un poggiuolo di ferro, strascinando seco il prete G. Battista Zamperetti sacrista della chiesa, la di lui sorella, moglie di Natale Mistura, ed un'altra giovane loro parente. Questa ultima morì di botto, ed alquanto dopo il prete e la sorella.

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S. Gioachino (Calle, Ponte, Fondamenta, Ramo)
a Castello. Elena Marchi, con suo testamento 28 ottobre 1418, in atti dell'arcidiacono Nicolò Bono, lasciò una casa a Castello perché vi trovassero ricovero alcune terziarie Francescane. Tutte le abitatrici della medesima perirono nella peste del 1630, ad eccezione di Domenica Rossi, che in seguito potè raccogliere nuove compagne. Queste donne vennero nel 1727 ridotte allo stato di comunità, e presso il loro picciolo convento, che ampliarono nel 1756, avevano una chiesetta sacra a San Gioachino. Ma dopoché, per decreto 18 giugno 1807, furono concentrate colle Terziarie di S. Francesco della Vigna, i locali che occupavano soggiacquero a secolarizzazione.

Nella «Calle di S. Gioachino» eravi lo spedale di SS. Pietro e Paolo, fondato nel secolo XII prima per ricettare pellegrini e poscia per curare feriti e malati. Nel 1350 venne ampliato colle case lasciate da Francesco Avanzo, e nel 1368 sottoposto alla protezione ducale. Restò soppresso nel 1806, ed ora si fa servire a «Patronato pei Ragazzi Vagabondi», al cui uso destinossi anche il prossimo oratorio sacro ai SS. Pietro e Paolo, il cui ultimo ristauro data dal 1736.

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S. Giobbe (Fondamenta, Campo, Ponte, Rio di).
Il sacerdote Giovanni Contarini fondò in Cannaregio nel 1378 un ospizio per poveri di cui parleremo più innanzi. In seguito v'aggiunse un oratorio sacro a S. Giobbe, ottenendo nel 1390 da papa Bonifacio IX l'approvazione che colà si potessero celebrare gli uffizi divini. Morto il pio fondatore, Lucia di lui figliuola, accolse nell'ospizio alcuni eremiti di S. Girolamo, e, dopo la loro partenza, alcuni Minori Osservanti. I religiosi d'ambedue gli ordini uffiziarono l'oratorio; anzi i Minori Osservanti l'ottennero in piena proprietà nel 1434. Fu allora che essi vollero atterrarlo, stando per innalzare in quel luogo chiesa più ampia, ma, pei reclami di Lucia Contarini, il divisamento non ebbe effetto, e dovettero accontentarsi d'incorporare l'oratorio nella nuova fabbrica. Questa, incominciata verso la metà del secolo XV sullo stile lombardesco, ebbe il suo compimento verso la fine del secolo stesso, e fu consecrata nel 1493. Ricevette poscia altra consecrazione, dopo alcune aggiunte e cambiamenti, nel 1597. Assai benemerito dell'intrapresa mostrossi il doge Cristoforo Moro, il quale, mentre era ancora senatore, aveva conosciuto nell'ospizio di San Giobbe il celebre frate Bernardino da Siena, e dopoché questi venne canonizzato nel 1450, gli eresse in chiesa di S. Giobbe una magnifica cappella, facendo sorgere eziandio un più ampio convento a comodo dei padri. Il Moro, decesso nel 1471, legò ai padri medesimi diecimila ducati, e fu sepolto nella cappella di S. Bernardino, ove tuttora scorgesi il di lui sigillo sepolcrale. Dopo la soppressione degli ordini religiosi, il convento di S. Giobbe venne atterrato, e la sua area, unitamente alla vigna dei padri, ridotta ad Orto Botanico, incominciatosi a tracciare nel 1812. La chiesa, che rimase aperta come sussidiaria di S. Geremia, nel 1859 ebbe un restauro.

Il «Ponte di S. Giobbe», che anticamente era di legno, fabbricossi in pietra nel 1503. Si ridusse poi nella forma attuale dall'architetto Tirali nel 1688, e nel 1794 ebbe un restauro, come da epigrafe riportata dal Cicogna («Inscrizioni veneziane», vol. VI).

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S. Giovanni (Campiello, Rio).
La chiesa di S. Giovanni Evangelista fu innalzata nel 970, a cura della famiglia Partecipazia, o Badoera. Marco Badoer la istituì priorato perpetuo nella sua casa con rendite corrispondenti. Il priore godeva da principio tale dignità a vita, ma nel 1582 fu stabilito che durasse in carica solo due anni. Al tempo del Sansovino, ed a quelli dello Stringa e del Martinioni, era in piedi ancora l'antico edificio, il quale però aveva avuto varii restauri in epoche diverse. Finalmente fu rifabbricato alla metà del secolo XVII. Questa chiesa ebbe un recente restauro.

S. Giovanni (Calle)
a S. Vito. Stabili posseduti un tempo dalla Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista diedero il nome, oltre che a questa, anche a due calli, situate l'una sulla «Fondamenta di Cannaregio», e l'altra a Castello, presso S. Daniele. In tutte tre le strade scorgesi tuttora scolpito sulla muraglia lo stemma della Scuola. Le case di «S. Vito» erano sei, e provenivano dalla donazione fatta, collo strumento 7 novembre 1347, in atti del prete e notaio Leonardo Cavazza, dal pievano di S. Fantino Giacomo Donadio. Le case di «Cannaregio» erano cinque, donate alla Scuola collo strumento 15 maggio 1453, in atti di Francesco Benzoni, da Marco di Vanto da Pirano, che nel catastico è detto «spizier». Finalmente le case a S. Daniele erano diciannove, quindici delle quali vennero fabbricate nel 1602, coi danari dei «Monti», e di varie commissarie, sopra terreno ove prima sorgevano alcune casette più antiche pervenute nella Scuola pel testamento di «Zuane de Marin» (7 marzo 1451), e sopra altro terreno comperato nel 1532 da Maria Baffo, e nel 1542 da Agostino di Freschi «el dottor».

S. Giovanni di Malta (Corte).
La prossima chiesa, dedicata a S. Giovanni Battista, apparteneva anticamente ai Templari, ma abolito quest'ordine nel 1312, passò, coll'annesso convento in potere dei cavalieri Gerosolimitani, chiamati poscia di Rodi, e finalmente di Malta, che, per quanto sembra, rinnovarono ambidue gli edifici verso la fine del secolo XVI. Caduta la Repubblica, ed espulsi i cavalieri suddetti, questa chiesa, che aveva avuto altro restauro nel 1758, divenne prima deposito di quadri tolti alle chiese profanate o distrutte; poi delle panche e delle altre suppellettili della corte. Nel convento fu una stamperia, e perfino una sala da spettacoli. Quando però nel 1839 si ristabilì l'ordine Gerosolimitano, e si formò il Gran Priorato Lombardo-Veneto, chiesa e convento vennero ridati ai loro antecedenti proprietarii, e ristaurati.

La chiesa di S. Giovanni di Malta è detta anche di «S. Giovanni dei Furlani» per essere prossima alla calle di questo nome.

S. Giovanni Decollato .
Vedi S. Zan Degolà.

S. Giovanni Grisostomo (Ponte, Rio, Salizzada, Campo).
Nel 1080 la famiglia Cattaneo fece innalzare una chiesa a San Giovanni Grisostomo, la quale nel 1488, per asserto del pievano Lodovico Talenti, trovavasi in cattivissimo stato pei danni del tempo, a cui alcuni aggiungono quelli di un prossimo incendio, accaduto nel 1475. Essa venne adunque rifabbricata nel 1497 sul disegno, come scrive Flaminio Corner, dell'architetto Tullio Lombardo, ma non nella situazione antica, bensì in faccia della medesima. Era parrocchiale, e fu soltanto nel 1810 che divenne succursale di S. Canciano.

Riferisce il Sanudo che il 3 febbraio 1531 M. V. il Consiglio de' Pregadi impose ai Provveditori di Comune d'allargare la «Salizzada di S. Giovanni Grisostomo», la quale era molto stretta, e dovendosi perciò atterrare il campanile, si concesse al pievano lo spazio per fabbricarne uno di nuovo. Vedi «Senato, Terra», R. 26.

In parrocchia di S. Giovanni Grisostomo abitava Angela Serena, amata dall'Aretino, che compose per lei un poemetto in ottave. I parenti della medesima vedevano di mal occhio tali amori, e G. Antonio di lei marito, uomo alquanto dissoluto, tanto fece per vendicarsi che ebbe a' suoi voleri Pierina Riccia, donna dell'Aretino, persuadendola anche a fuggirgli di casa. Non sappiamo quanto il Quadrio s'apponesse al vero nell'asserire che tali dispiaceri trassero la Serena al sepolcro. Il fatto sta ch'essa morì nel 1540, come rilevasi dalle lettere dell'Aretino. Angela Serena dilettavasi di poesia, ed è noto che diresse all'imperatrice Isabella, consorte di Carlo V, alcune stanze, per le quali ricevette ricchi doni. Si conservano nell'Archivio Notarile due suoi testamenti, l'uno del 2 decembre 1538 in atti di Giacomo Zambelli, fatto, essendo gravida, ove si chiama «Anzola fia del q. Barnaba Torninben, olim spicier al segno dell'Agnus Dei, et consorte di G. Antonio Serena»; l'altro del 3 maggio 1539 in atti di Giacomo Chiodo.

Racconta il Curti («Famiglie», Classe VII, Cod. 204-209 della Marciana) che a S. Gio. Grisostomo abitava Veronica Franco quando nel 1574 venne visitata da Enrico III re di Polonia e di Francia.

Nel 1738 in una locanda posta in questa contrada alloggiò Maria Amalia, arciduchessa d'Austria, poi moglie dell'imperatore Carlo VII.

Passato il «Ponte di S. Giovanni Grisostomo», per avviarsi a S. Canciano, a mano destra, abitava l'erudito senatore Flaminio Corner, che illustrò la storia delle nostre chiese. Egli nacque nel 1693, e sostenne i magistrati più gravi, economici e criminali, misti ai civili e politici. Mancato ai vivi nel 1778, fu sepolto, come aveva disposto, in chiesa di S. Andrea. Nella chiesa parrocchiale di S. Canciano gli fu posta soltanto un'epigrafe sopra una porta laterale.

L'attuale «vera» del pozzo in «Campo S. Giovanni Grisostomo» con quattro teste di leone, venne trasportata dalla Giudecca, e qui posta nel 1855.

S. Giovanni in Bragora (Parrocchia di).
Vedi Bandiera e Moro (Piazza).

S. Giovanni Laterano (Fondamenta, Rio, Calle, Fondamenta, Rio, Calle, Campiello).
Avendo una monaca per nome Mattia, ed altre sue compagne, abbandonato il convento dei SS. Rocco e Margarita, ed essendo poi pentite del loro operato, ritornarono nel 1504 a vivere sotto la regola di S. Agostino in una casa vicina all'antico oratorio detto di S. Giovanni Laterano, e volgarmente di «S. Zan Lateran», perché, come vuole il Gallicciolli, fabbricato sopra una tomba chiamata «teran», o, meglio, perché aggregato al capitolo dei canonici Lateranensi di Roma. Da questi canonici le monache acquistarono l'oratorio, e nel 1519 meritarono per la loro buona condotta d'essere mandate a riformare il convento di S. Anna, ove vestirono l'abito di S. Benedetto, che ritennero anche quando nel 1551 ritornarono nel loro pristino asilo. L'incendio del 1573, causato da un fulmine, in cui perì l'abadessa Serafina Molin, le obbligò a riparare in altri conventi, ai quali tanto s'affezionarono che due sole ritornarono in quello di S. Giovanni Laterano quando fu rifabbricato. Restatane unica abitatrice nel 1599 Ottavia Zorzi, volle essa ristaurarlo nuovamente insieme alla chiesa, ed in breve giunse ad attirarvi cinquanta e più monache. Anche questo convento (dilatato nel 1731) fu soppresso, colla chiesa, nel 1810, e quindi servì ad usi diversi fra cui ad Archivio Notarile, a Ginnasio, ed a Scuole Elementari. Ora serve all'«Istituto Tecnico e Nautico Paolo Sarpi».

S. Giovanni Novo (Campo).
La chiesa di S. Giovanni Nuovo fu così detta o, corrottamente, invece di S. Giovanni in Oleo, a cui è dedicata, o per essere stata innalzata posteriormente a qualche altra delle chiese esistenti in Venezia sotto il nome di S. Giovanni. Sorse per opera della famiglia Trevisan nel 968, ma si rinnovò nel principio del secolo XV, e consecrossi nel 1463. Secondo lo Stringa, ebbe un altro ristauro nel 1520. Finalmente alla metà del secolo trascorso fu rifabbricata sul disegno di Matteo Lucchesi, che pretese in questa sua opera di correggere i difetti del tempio Palladiano del Redentore, onde chiamavala il «Redentore redento». Era parrocchiale ma nel 1808 divenne succursale di S. Marco, e quindi nel 1810 di S. Zaccaria.

Nella parrocchia di S. Giovanni Nuovo, in una casa delle monache di S. Servilio, abitò e morì Nicolò Massa, celebre medico e filosofo veneziano. Giunto all'ottantesimo anno di età, egli divenne cieco, per consolarlo della quale sventura Luigi Luisini da Udine compose un dotto dialogo. L'ultimo testamento di Nicolò Massa è quello del 28 luglio 1569, in atti Marcantonio de Cavaneis, ove sono notabili le seguenti parole dirette agli eredi... «e se aricordino delle mie vertigini al tempo che crederanno sia morto, lassandomi doi giorni sopra terra, acciò non si facesse qualche error, e non mi mettano in gesia avanti sia passato detto termine di due giorni». Malamente il Cicogna, riportando un passo consimile di altro testamento anteriore del Massa, in data del settembre 1566, legge «murtigini», anziché «vertigini», cercando di dar alla parola greca derivazione. Il Massa morì poco tempo appresso, il che viene attestato dal necrologio della chiesa di S. Giovanni Nuovo colla seguente nota: «Adì 27 agosto 1569. Lo ecelente ms. Nicolò Masa medicho, de anj 84 in circa, è sta amallato mesi 4 da fievre». Come aveva ordinato, venne sepolto in chiesa di S. Domenico di Castello, ove gli fu eretto un busto, trasportato oggidì nella sala terrena dell'Ateneo.

Pell'architetto Baldassare Longhena, che abitava in questa parrocchia, e precisamente sui confini di quella di S. Severo, vedi Rotta (Calle e Corte, Corte) a S. Severo.

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S. Girolamo (Fondamenta, Ponte, Rio, Fondamenta, Chiovere).
Bernarda Dotto e Girolama Lero, monache in S. Maria degli Angeli di Murano, eressero prima nella città, e poscia fuori delle mura di Treviso, un convento sotto la regola di S. Agostino, intitolato a San Girolamo. Atterrite però dall'armi di Lodovico re d'Ungheria, l'abbandonarono, e nel 1364 vennero a Venezia, ritirandosi in una casa a San Vitale. In seguito, per le largizioni del prete Giovanni Contarini, furono in grado di innalzare un altro convento con attigua chiesa, dedicati medesimamente a San Girolamo. Nel 1425 diedero maggiore dimensione a questi fabbricati, i quali nel 1456 bruciarono, e riattati a spese del Senato, durarono incolumi fino all'anno 1705, nel quale soggiacquero a nuovo incendio. Dopo tale disastro sorsero nuovamente in piedi per la pietà dei fedeli. Finalmente, alla soppressione degli ordini religiosi, si convertirono ad usi privati.

Avendo Francesco Poza ferito in chiesa di San Girolamo nel braccio Pietro di Francia, capo custode dei Capi dei Sestieri, venne il 3 aprile 1475 bandito da Venezia e suo distretto, rompendo il qual bando doveva essere sul «Ponte di S. Girolamo» privato della mano destra e della lingua.

Dietro la chiesa di S. Girolamo scorgesi l'oratorio della confraternita già sacra allo stesso santo. Quest'oratorio, celebre un tempo per preziosi dipinti, fu chiuso nei primi anni del presente secolo, riaperto nel 1814, ed ora chiuso nuovamente.

Fino dall'8 febbraio 1481 M. V. troviamo che un Eustachio q. Avanzo Livello alienò al monastero di S. Girolamo le prossime «chiovere», di cui più tardi scrisse il Savina: «Adì 31 Ottobre» (1585) «cadde il colmo delle Chiovere di S. Girolamo, et ucciso uno di que' artefici, et molti altri feriti et maltrattati».

Sulla «Fondamenta di S. Girolamo», al N. A. 3100, esisteva un conventino di Pinzochere Servite. Lo stabile era stato loro donato nel 1525 da un Matteo figlio d'un Nicolò Lucchese. Esse attendevano all'educazione di povere fanciulle. Qui visse per qualche tempo quella Maria Benedetta Rossi fondatrice dei due monasteri delle Grazie a Murano, e di S. Maria del Pianto di Venezia.

Nel circondario di S. Girolamo abitava il pittore fiammingo Pietro Mera, che il 12 aprile 1643 presentò il proprio testamento al notaio Pietro Bracchi, e morì nel febbraio 1644 M. V.

Era costume che il giorno sacro a San Girolamo si nominassero i principali magistrati in sostituzione di quelli che, compiuto il periodo del loro uffizio, uscivano di carica. In tale occasione il doge dava solenne banchetto alle primarie dignità, non esclusi il Cancelliere Grande, ed i più provetti fra i secretarii.

Tosto dopo il giorno di San Girolamo incominciavansi pure dai Veneziani le villeggiature, delle quali ci lasciò una breve descrizione Giustina Renier Michiel nelle sue «Feste Veneziane».

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S. Giuseppe (Secco, Squero, Fondamenta, Ponte, Rio, Campo, Rio Terrà).
Per decreto del Senato 25 giugno 1512, incominciossi ad erigere una chiesa in onore di S. Giuseppe, e si chiamarono da Verona alcune monache Agostiniane perché vi fabbricassero accanto un monastero del loro ordine coll'assegnamento di 400 annui ducati. Con tale ajuto, e col mezzo delle elemosine, raccolte da una confraternita istituita nel 1530 furono in breve compiuti gli edifici. La cappella maggiore della chiesa venne eretta a spese di Girolamo Grimani, e consecrata nel 1643. Nel 1801 si introdussero nel convento di S. Giuseppe le religiose Salesiane, le quali vi risiedono, occupandosi nell'educazione delle donzelle.

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S. Giustina (Campo, Fondamenta, Rio, Ponte, Salizzada, Campiello).
Reputasi che la chiesa ex parrocchiale di S. Giustina entri nel novero di quelle erette nel VII secolo da S. Magno. Dopo essere stata, a quanto pare, rifabbricata, ebbe consecrazione nel 1219 per mano d'Ugolino cardinale ostiense, legato apostolico, poco dopo Gregorio IX. Si sa che fino dal principio di questo secolo veniva uffiziata da canonici regolari di cui ignorasi l'istituto. In progresso di tempo, secondo il Corner, fu consegnata ai canonici regolari di S. Salvatore, ai quali, per decreto apostolico dell'anno 1448, subentrarono monache Agostiniane, tratte dal monastero degli Angeli di Murano. Altri ristauri ebbe nei secoli XVI e XVII, nonché nel secolo XVIII, dopoché il 5 settembre 1774 n'era precipitato il soffitto, schiacciando la mensa di due altari, e la cantoria dell'organo. Leggesi che in questa occasione, accorso uno dei patrizii Gradenigo, domiciliato di contro, potè, unitamente ad un religioso, solito a frequentare in sua famiglia, estrarre dalle macerie una vecchierella che custodiva la chiesa, e tradurla, perché fosse soccorsa, nel proprio palazzo. La chiesa di S. Giustina venne chiusa nel 1810, nel 1841 ebbe demolito il proprio campanile, e nel 1844 fu divisa in due piani perché dovesse prestarsi, con parte del convento, a Casa d'Educazione Militare, nella qual circostanza se ne riformò anche la facciata (eretta nel 1640 sul disegno del Longhena, a spese dei patrizi Soranzo) col toglimento del timpano, e delle statue che la decoravano. Ora i locali sono chiusi.

Era costume che ogni anno questa chiesa fosse visitata il giorno di S. Giustina dal doge e dalla Signoria in memoria del trionfo ottenuto in tal giorno, l'anno 1571, sopra i Turchi alle Curzolari.

Il «Campo di S. Giustina» incominciossi a selciare di pietra viva soltanto nel 1747, 29 febbraio M.V., per ordine di Marcantonio Bragadin, Provveditore di Comune. Allora però si eseguì soltanto una lista presso la chiesa, ed altra presso la riva, ove soleva smontare il doge avviato alla visita sopraindicata.

In parrocchia di S. Giustina abitava l'architetto bolognese Sebastiano Serliis, o Serlio, come si ricava da un suo testamento fatto il primo aprile 1528 in atti d'Avidio Branco, col quale lasciava erede universale il celebre letterato Giulio Camillo Delminio da Portogruaro. Nel 1537 però aveva trasportato la propria abitazione sulla «Fondamenta di S. Caterina» in una casa della famiglia Priuli. Egli morì nel 1542 in Francia, ove erasi recato al servizio del re Francesco I. L'Aretino loda molto il Serlio ed i suoi libri «Dell'Architettura», ma queste lodi non furono molto disinteressate se havvi verità nel seguente periodo che si legge nella «Vita di Pietro Aretino», attribuita al Berni, e stampata per la prima volta in Perugia nel 1538: «Sebastian Serlio, quell'architetto coglione, ha bella moglie, e per farsi metter sugli scritti di Pietro gli fa f... la moglie, amica d'una suor Gerolama, che Dio sa come l'è». Costei è forse suor Girolama Tiepolo, con cui l'Aretino ebbe epistolare corrispondenza.

Narrano le cronache che il 18 luglio 1618 venne strangolata Orsetta, consorte d'Alberigo Alberighi, d'anni 28, nella casa che ha due porte sopra il «Ponte di ca' Cima» in parrocchia di S. Giustina. Esso è il ponte senza bande che fu detto anche di «ca' Zatta», ed ora di «ca' Zon». Vedi Zon (Calle, Corte).

In «Salizzada di S. Giustina», sotto la parrocchia di S. Ternita, e precisamente nella casa prossima al palazzo Contarini «Porta di Ferro», nacque nel 1668 Apostolo Zeno. Questo palazzo era così detto perché aveva le valve della porta adorne di varii brocchettoni di ferro (lavoro del secolo XV) che, secondo il Cicogna, vennero levate dal 1839 al 1840. Tuttora sull'alto del muro esterno circondante il giardino di questo palazzo, all'angolo, scorgesi una immagine della Beata Vergine, sculta dal Torretti per commissione d'Alvise Contarini q. Nicolò nel 1716.

Il «Campiello di S. Giustina» è detto anche di «Barbaria» perché prossimo alla «Barbaria delle Tole». Qui scorgesi un oratorio sacro alla B. V. Addolorata, fabbricato sul disegno di Giovanni Moro da una pia confraternita nel 1829.

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S. Leonardo (Campo).
La ex chiesa parrocchiale di S. Leonardo venne fabbricata nel 1025 dalla famiglia Crituazio e consecrata nel 1343 per le mani dei due prelati Marco Morello Carmelitano, vescovo Domoceno, e Francesco, vescovo Urense. L'ultima rifabbrica data dal 1794. Era visitata ogni anno nel giorno di S. Leonardo dalla Scuola della Carità, che in essa aveva avuto origine. Fu chiusa nel 1807, ed attualmente è magazzino di carbone.

Narrano le cronache che il campanile di questa chiesa precipitò improvvisamente il 24 agosto 1595, fracassando dodici case con parte della chiesa, e recando la morte a dieci persone.

Un pievano di S. Leonardo, di nome Giovanni Foscarini, venne ucciso dai ladri il 26 gennaio 1388 M. V.

Avendo Biagio Catena, altro pievano di S. Leonardo, e pubblico notajo, di concerto cogli altri notaj Maffeo da Fano, e Giovanni Loredan, primicerio di S. Marco, testificato con giuramento che Clario Contarini, sodomita, era chierico, per sottrarlo al potere secolare, fu, come spergiuro, privato della dignità parrocchiale dal vescovo Castellano, e poscia, per sentenza 15 settembre 1407, dal Consiglio dei X condannato a perpetuo esiglio. Ad onta di ciò, egli ottenne dalla corte Romana il titolo d'arcivescovo di Trebisonda, e ritornato nel 1419 a Venezia da Ferrara, ove abitava, ebbe la compiacenza che un secretario del medesimo Consiglio dei X gli venisse a partecipare, d'ordine pubblico, che gli si concedeva un salvacondotto per potersi trattenere liberamente in Venezia.

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S. Leonardo (Rio Terrà).
Vedi Due Ponti.

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S. Lio (Salizzada, Campo).
La chiesa di S. Leone, «vulgo San Lio», fu eretta dalla famiglia Badoer, e primamente dedicata a S. Caterina. Dopo il 1054 si rifabbricò in onore del santo pontefice Leone IX, che si avea reso benemerito di Venezia proteggendo nel concilio Romano la causa del patriarcato di Grado contro le ingiuste pretese di Gotebaldo patriarca d'Aquileja, e che venuto fra noi, avea concesso alla basilica ducale ed altri luoghi pii, indulgenze e privilegi. La chiesa di San Leone venne rinnovata nel principio del secolo XVI, mercé le limosine dei fedeli, consecrata nel 1619, e nel 1783 ridotta alla forma presente. Nel 1810 da parrocchiale divenne sussidiaria di S. Maria Formosa. Per un decreto del Consiglio dei X, 2 maggio 1474, essa visitavasi ogni anno dalla Scuola di S. Gio. Evangelista, poiché si credeva avvenuto al «Ponte di S. Lio», ora «di S. Antonio», un miracolo, che noi racconteremo colle parole del compendio italiano dell'opera di Flaminio Corner sopra le chiese Venete e Torcellane: «Viveva fra i confratelli della Scuola» (di S. Giovanni Evangelista) «un uomo di costumi corrotti, e di pubblico libertinaggio, il quale invitato da un altro confratello suo amico, e desideroso di suo ravvedimento, ad accompagnare la Croce, allorché (secondo l'uso di quei tempi) portavasi alla sepoltura de' Confratelli, giacché doveva essa un giorno onorare anche i di lui funerali, empiamente rispose «né voglio io accompagnarla né mi curo ch'ella venga ad accompagnarmi». Passato alquanto tempo, morì l'uomo perverso, ed essendosi portata la Scuola alla lugubre funzione di sua sepoltura, allorché arrivò al Ponte di S. Leone (detto di S. Lio), di lui parrocchia, la Santissima Croce si fece tanto pesante che non vi fu forza umana che valesse a farla inoltrare. Mentre stavano tutti attoniti, e confusi a tal caso, il buon amico, il quale trovavasi allora nell'accompagnamento, ricordatosi dell'empie parole proferite già da costui, fece conoscere la vera cagione di tal resistenza. Rimossa adunque la venerabile Croce dall'accompagnamento, fu poscia stabilito ch'ella non dovesse portarsi in pubblico, se non nelle solennità maggiori». Il pittore Giovanni Mansueti raffigurò questo miracolo in un quadro, che stava nella Scuola di San Giovanni Evangelista, ed ora si conserva nella Regia Accademia di Belle Arti.

Nell'antico circondario parrocchiale di S. Lio morì nel 20 aprile 1768 il pittore Antonio Canal, detto il Canaletto, inarrivabile nelle prospettive architettoniche. Così i Necrologi Sanitari: «Antonio Canal d'anni 71 da febbre et infiamasion nella vescica giorni 5. Med.co Musolo, morto all'ore 7. Cap.lo ― S. Lio». Pel sito preciso ov'abitava, vedi Perina (Sottoportico e Corte).

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S. Lorenzo (Fondamenta, Ponte, Rio, Campo, Fondamenta, Ramo della Fondamenta).
La chiesa di S. Lorenzo fu eretta dalla famiglia Partecipazio, e fino dall'854 Romana della medesima famiglia vi fondava accanto un monastero di monache Benedettine, al quale poscia si aggiunsero alcune abitazioni pei monaci che dirigevano le suore, secondo il costume dei tempi. Distrutta la chiesa e il duplice monastero nel terribile incendio del 1105, si diede tosto mano a rifabbricarli, e si ristaurarono sul finire del secolo XV, e sul principio del XVI. La chiesa incominciossi a ridurre nell'attual forma l'anno 1592 sul disegno di Simeone Sorella, ed ebbe compimento nel 1602. Nel 1810 fu soppressa col monastero, e nel 1817 si riaprì, avendosi ridotto fino dal 1812 il monastero a Casa d'Industria.

Nell'antico angiporto della chiesa di S. Lorenzo fu sepolto il celebre viaggiatore Marco Polo, che, con testamento 10 gennaio 1323 M. V. in atti Giovanni Giustinian pievano di S. Procolo, beneficò questo monastero ove (come si espresse) «meam eligo sepulturam».

Altrove abbiamo accennato alla corruttela quasi generale che regnava anticamente fra le nostre claustrali. Si può dire però che quelle di S. Lorenzo ambissero in tale agone la palma. Il 16 giugno 1360 troviamo condannato ad un anno di carcere e cento lire di multa Marco Boccaso, «Zanin» Baseggio, e Giuseppe di Marcadello per aver fornicato, il primo con una Ruzzini, il secondo con Beriola Contarini, ed il terzo con Orsola Acotanto, monache professe in quel monastero. Poco dopo, cioè il 22 luglio 1360, vennero pubblicamente frustate Margarita «revendigola», Bertuccia vedova di Paolo d'Ancona, Maddalena da Bologna, Margarita da Padova, e Lucia schiava per aver portato, in «modum ruffianarum», lettere ed ambasciate amorose a quelle monache. In progresso di tempo, per sentenza 25 marzo 1385, s'infissero due anni e tre mesi di carcere con duecento lire di multa a maestro Nicolò Giustinian, medico, perché, amoreggiando suor Fiordelise Gradenigo, entrò più volte con chiavi false nel monastero di S. Lorenzo, e si congiunse colla sua diletta, colla quale ebbe un figlio. Finalmente il 21 giugno 1385 dovette sottostare a tre anni di carcere Marco Gritti, che per fini disonesti era entrato nel monastero medesimo. Anche nel secolo XVII l'abbigliamento delle monache di S. Lorenzo spirava tutto mondana vanità. Ce lo prova il «Viaggio per l'alta Italia del Sereniss. Principe di Toscana, poi Granduca Cosimo III, descritto da Filippo Pizzichi». Costui, parlando del monastero di S. Lorenzo, da lui visitato col principe nel 1664, così va esprimendosi: «E' questo il più ricco monastero di Venezia, e vi sono sopra 100 madri, tutte gentildonne. Vestono leggiadrissimamente con abito bianco come alla franzese, il busto di bisso a piegoline, e le professe trina nera larga tre dita sulle costure di esso; un velo piccolo cinge loro la fronte, sotto il quale escono li capelli arricciati, e lindamente accomodati; seno mezzo scoperto, e tutto insieme abito più da ninfe che da monache».

In parrocchia di S. Lorenzo sorgeva il palazzo del doge Pietro Ziani, ov'egli, secondo il codice 33, Classe VII della Marciana, ritirossi nel 1229 dopo avere abdicato, ed ove, scorsi 17 giorni, venne a morte.

Attraversando una fiata la confraternita di S. Giovanni Evangelista in processione il «Ponte di S. Lorenzo», come ogni anno faceva per visitare quella chiesa, cadde nel rivo sottoposto il reliquiario della SS. Croce assai pesante per oro, e come raccontano, rimase miracolosamente a fior d'acqua. Avendosi gettato molti confratelli nel canale per ricuperarlo, esso ritirossi dalle mani di tutti, e soltanto il Guardian Grande Andrea Vendramin potè riportarlo alla riva. Abbiamo fatto cenno di questo miracolo, che vuolsi successo nel 1369, per la sola causa che esso venne rappresentato da Gentile Bellini in un quadro, il quale attualmente trovasi nella Accademia di Belle Arti, ed oltre l'importanza pittorica, è considerevole per contenere i ritratti della regina di Cipro Catterina Corner e della sua corte, nonché quelli del pittore e di tutta la famiglia Bellini, messa a ginocchio nel lato opposto a quello occupato dalla Corner.

Incominciandosi a rifabbricare nel 1592 la chiesa di San Lorenzo, vi si rinvennero due anfore piene di monete antiche d'oro, sepolte, come si crede, nel 1172 dall'abbadessa Angela Michiel al momento dell'uccisione del doge Vitale II suo fratello.

Il «Ponte di S. Lorenzo», in occasione della «sagra» annuale, adornavasi con gran pompa ad archi trionfali. E' disegnato dal Grevembroch ne' suoi «Monumenta Veneta».

Sulla «Fondamenta di S. Lorenzo» restò morto nel 1604 da una archibugiata, per ordine del fratello Pietro Paolo, il N. U. Giacomo Battaggia, mentre ritornava dal «redutto de S. Maria Formosa».

Nel 1696 una mascherata di dame e cavalieri, travestiti da mori e more, con abiti preziosi, dopo un lungo giro per la città, andarono a ballare nella corte e nel parlatorio delle monache di S. Lorenzo.

Fra la chiesa ed il monastero di S. Lorenzo esisteva una cappella dedicata a S. Sebastiano, che, come credesi, fu innalzata nel 1007 dal doge Orseolo II, e rinnovata dalle monache nel secolo XII. Ebbe ristauri anche dal 1629 al 1632, e nel 1748. Finalmente, secolarizzata nel principio del presente secolo, venne più tardi affatto distrutta.

S. Lorenzo (Sottoportico e Corte)
a S. Margarita. Da alcune case che vi possedeva il monastero di S. Lorenzo. Nel catastico del medesimo, compilato nel 1685, si legge: «Possede il Monastero in questa Contrà» (di S. Margarita) «sopra la Calle va a S. Barnaba, e riferisce nella Corte contigua, case n. 5, compresa una bottega sopra la Calle... Erano prima più casette, quali essendo marze et cadenti, l'anno 1674, Abbadessa la N.D. Elena Foscari, furono rifabbricate, et redotte in grando nel n.o delle 5 sudette, et nel muro sopra la strada vi fu posta una Pietra viva con l'infrascritta inscrittione: Ruentes Aediculas Ampliori Formae Restituit R.ma D. Elena Foscari Abbatissa. Anno 1674«. Il Cicogna riporta la medesima iscrizione con qualche divario, e coll'aggiunta, dopo il millesimo, delle parole: D. Aloysio Bono Procurante. Questi stabili eran stati donati alle monache dal N.U. Pietro Premarin, mediante testamento 3 giugno 1248, in atti di pre' Donato pievano di S. Stin e veneto notajo.

Altri stabili appartenenti alle monache suddette diedero il nome alla «Calle», ed al «Campiello di S. Lorenzo» in parrocchia dell'Angelo Raffaele, presso S. Nicolò. Il Catastico sovraccitato: «Possede in questa contrada» (dell'Angelo Raffaele) «dalla parte della Fondamenta, a mano destra, questo Monastero case tre, una delle quali è una bottega da Barbier, e da una parte di detta bottega vi è un pezzo di terreno vacuo». Tali possidenze provenivano dal testamento 9 decembre 1262, in atti pre' Marco Bonvicino di Fiore Soranzo, la quale lasciava un terreno al monastero di S. Lorenzo nel caso che Filippa sua figlia, e consorte di Bartolomeo Trevisan, mancasse senza eredi. Verificatasi questa condizione, le monache fabbricarono, e ne sorsero le tre case delle quali si fece parola.

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S. Luca (Campo, Ramo va in Campo, Salizzada, Rio).
La chiesa di S. Luca si reputa innalzata nel XI secolo dalle famiglie Dandolo e Pizzamano, e tosto dichiarata parrocchiale. Nel 1442 ampliossi da Fantino Dandolo, che cesse a tale scopo alcune sue case vicine. Minacciando rovina, fu rifabbricata nel secolo XVI, e decorata nel 1581 della cappella maggiore. Nel 1827 ebbe improvvisamente crollato parte del prospetto, ma nel 1832, tanto all'esterno quanto all'interno, venne ristabilita. Anche nel 1881 subì altro interno ristauro.

La parrocchia allargossi nel 1810 con quella di San Benedetto, e con parte di quella di S. Paterniano, ambo soppresse, nonché con alcune frazioni d'altre vicine parrocchie conservate. Perdette però in quell'incontro qualche brano assegnato a San Salvatore.

In «Campo San Luca» sorge un piedestallo marmoreo, il quale sosteneva un'antenna, donde ne' giorni festivi svolazzava uno stendardo. Ciò indicherebbe, secondo il Sansovino, che qui è il mezzo, o l'umbilico, della città. Ma un altro accreditato cronista, e l'imprese delle Scuole della Carità e dei Pittori, scolpite sul piedestallo coll'anno MCCCX, insegnano invece essere questo un segnale della sconfitta che appunto la Scuola della Carità e quella dei Pittori fecero subire il 15 giugno 1310 in «Campo di S. Luca» ad una parte dei congiurati di Bajamonte Tiepolo.

In parrocchia di San Luca, e precisamente sulla «Riva del Carbon», abitò e venne a morte Pietro Aretino il 21 ottobre 1556. Vedi Carbon (Riva ecc. del). Egli, come appare da fede del pievano d'allora Pietro Demetrio, recentemente pubblicata, venne sepolto «in un sepolcro novo vicino alli gradi della Sacrestia», sepolcro ora distrutto.

Vi morì pure Girolamo Ruscelli, autore del noto «Rimario», e d'altre opere: «1566, Die 10 Maij. M. Jer.mo Ruscelli da Viterbo d'anni 48, amalà mesi 9 da dropisia et febre ― S. Luca».

E' fama inoltre che a San Luca mancasse ai vivi nel 1582 il celebre pittore Andrea Schiavone, e senza dubbio vi chiusero la loro mortale carriera nel 1585 Luigi Groto, detto il Cieco d'Adria, e nel 1588 Bernardino Partenio da Spilimbergo, pubblico lettore di greco, il quale venne sepolto nel chiostro di S. Stefano.

Vi avevano domicilio il medico Giuseppe degli Aromatari, che nel 1611 stampò il libro intitolato: «Risposta di Gioseffo degli Aromatari alle considerazioni d'Alessandro Tassoni sopra le rime del Petrarca»; ed il pittore bavarese Gian Carlo Loth. Ciò si ricava dal testamento che fece quest'ultimo il 26 agosto 1698, in atti del notaio veneto Francesco Simbeni, ove si chiama G. Carlo Loth q. Ulderico da Monaco, e dice di testare in parrocchia di San Luca, nella casa di sua abitazione posta sul «Canal Grande». Potrebbe sospettarsi che questa abitazione fosse precisamente un piano del palazzo Loredan, ove molte opere del Loth conservavansi. Egli aggiunse al proprio testamento un codicillo il 28 settembre 1698, ed il 6 ottobre successivo era già morto, poiché in quel giorno si pubblicarono le di lui disposizioni testamentarie.

Si ha dai «Registri dei Giustiziati» che il 27 marzo 1721 venne decapitato e squartato Domenico Rossi da Palma, garzone nella farmacia della «Vecchia» in «Campo San Luca», perché uccise Maria Alberti, meretrice, affine di rapirle quanto possedeva. Qual origine possa aver avuto l'antica insegna di tale farmacia, vedilo all'articolo Teatro (Calle e Ramo, Corte del) a San Luca. Era forse pell'esistenza di questa insegna che in «Campo San Luca», più frequentemente che in altri campi della città, davasi, a mezza quaresima, lo spettacolo dell'abbruciamento della «Vecchia». Varii fra noi devono ricordarsi di tale spettacolo, veduto nella loro fresca età. Raccolte spontanee offerte, e parato il campo di damaschi e bandiere, fabbricavasi un solaio, alto circa tre uomini da terra, sopra il quale ponevasi un fantoccio, rappresentante una vecchia con cuffia in testa, e larva sul viso, a cui due guardie rendevano ridicoli onori, mentre più o meno scordati istrumenti facevano echeggiare l'aria delle loro armonie. Frattanto avevano luogo altri spassi diversi, come quello di far volare per una corda qualche povero cane, legato ad un fuoco d'artificio; quello d'arrampicarsi sopra liscia ed unta antenna alla conquista di qualche salame, o fiasco di vino, attaccati alla cima; oppure quello di ghermire colla bocca un'anguilla, immersa in un mastello d'acqua tinta di nero, la quale ridicolosamente bruttava il volto dei campioni postisi al cimento. Alla fine accendevasi il fuoco sotto il solaio, ed, in mezzo alla comune allegria, ardeva, e cadeva in cenere il fantoccio. Più anticamente però la «Vecchia» non abbruciavasi, ma segavasi per mezzo, e ne uscivano fiori e confetti, che i monelli si contrastavano fra loro.

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S. Lucia (Fondamenta, Nuova Fondamenta della Dogana principale, Calle del Traghetto di).
Un'epistola del pontefice Sisto IV, scritta nel 1478, ove si legge che allora correvano più di quattrocento anni da quando la chiesa di S. Lucia era stata dedicata a questa santa, fa sì che possiamo crederla eretta dopo il mille. Il Sansovino invece la vuole sorta nel 1192 sotto il titolo dell'Annunziazione, e dedicata a S. Lucia soltanto nel 1280 dopoché vi si trasportò da l'isola di San Giorgio Maggiore la salma della martire siracusana. La chiesa suddetta era parrocchiale probabilmente fino dalla sua origine, e sembra che nel secolo XIV avesse un ristauro, poiché trovasi memoria, che il 3 agosto 1343 fu consecrata per le mani di tre vescovi. Nel 1444 passò sotto la giurisdizione del vicino convento del Corpus Domini, ma continuò tuttavia ad essere retta da pievani, l'ultimo dei quali fu un Giovanni Galletti, che fece il proprio testamento nel 1491. Frattanto vennero ad abitare in prossimità alcune monache, le quali vestirono l'abito dei servi di Maria sotto la regola di S. Agostino, e fabbricarono un oratorio dedicato all'Annunziazione. Bramando poscia d'ampliarlo, e mancando dei mezzi necessarii, ottennero nel 1476 che loro fosse data la chiesa di Santa Lucia col patto di cedere il corpo della santa titolare alle monache del Corpus Domini. Queste però, senza attendere il tempo statuito alla consegna, fecero involare da alcune converse le sacre reliquie, e negarono di restituirle anche quando ne ebbero ordine dal Consiglio dei X, a cui si avevano presentato i parrocchiani, protestando contro la convenzione stabilita fra i due monasteri. Allora, per intimorire le pervicaci, si divenne alla minaccia di far otturare tutte le porte del loro convento in modo che né cosa, né persona v'entrasse. La vista dei muratori pronti ad accingersi all'opera fece l'effetto desiderato, ed il corpo della Santa si potè di bel nuovo trasportare nella chiesa a lei dedicata, la quale, dopo altri litigi, ne rimase tranquilla posseditrice coll'obbligo di pagare alle monache del Corpus Domini ducati d'oro 40. Coll'andar del tempo, reso il sacro edificio cadente per vetustà, il cav. Leonardo Mocenigo vi facea erigere nel 1565, sul disegno del Palladio, la cappella maggiore, che fu compiuta nel 1589; Donato Baglioni Fiorentino nel 1592 v'aggiungea la cappella di S. Lucia; ed un'altra cappella nell'anno medesimo costruivasi a spese di Nicolò Perez, gentiluomo Fiammingo. Poscia, sul disegno, come credesi, lasciato dal Palladio, si rialzava dal 1609 al 1611 il resto della chiesa, che consecravasi nuovamente nel 1617. Essa nel 1810 divenne oratorio sacramentale di S. Geremia, essendo state soppresse le monache di S. Lucia, il cui monastero si fece servire a collegio d'educazione per fanciulle povere, sotto la direzione delle Figlie di Carità. Ora sopra la sua area, e sopra quella della chiesa, con men saggio consiglio distrutta nel 1861, dopo aver deposto il corpo della Santa nella parrocchiale, si costrusse la «Stazione della Strada Ferrata».

La denominazione «Nuova Fondamenta della Dogana principale di S. Lucia» nacque allorché prolungossi la vecchia Fondamenta in prossimità alla dogana delle merci, che per questa parte entrano in città, od escono dalla medesima.

Quanto alla «Calle del Traghetto di S. Lucia», che sta presso l'opposta «Fondamenta di S. Simeon Piccolo», fu così detta perché colà arrivavano le barche provenienti dalla «Fondamenta di Santa Lucia». Questo traghetto, unitamente all'altro degli Scalzi, appellavasi «delle Mozze» perché sostenevasi il servizio da alcune barche dette «mozze», senza ferro d'innanzi, e senza coperto. I due traghetti cessarono dopo la costruzione del prossimo ponte di ferro, aperto al pubblico passaggio il 29 aprile 1858. Un ponte dalla Fondamenta di Santa Lucia a quella di San Simeon Piccolo era stato progettato dal padre Coronelli fino dal principio del secolo trascorso.

Nel circondario di S. Lucia venne a morte nel 1638, per male di pietra, il celebre pittore Sante Peranda, il quale fu sepolto ai Tolentini.

UP

S. Marco (Sestiere, Parrocchia, Piazza, Piazzetta, Canale di).
Rustica in antico era la «Piazza di S. Marco». Appellavasi «Morso», forse perché il suo terreno era più tenace e duro del circostante, e «Brolo» perché era erbosa e cinta d'alberi. Vi scorreva per mezzo un canale detto «Batario», sulle cui sponde si scorgevano, l'una in faccia all'altra, le due piccole chiese di S. Teodoro e di S. Geminiano, erette, come è fama, da Narsete, che avea vinto i Goti coll'aiuto dei veneti navigli. Dopo che fu trasportato da Alessandria a Venezia il corpo dell'Evangelista, Giustiniano Partecipazio gettò i fondamenti nell'828 della «Basilica di S. Marco», riunendovi l'oratorio di S. Teodoro. Abbruciatasi però la nuova fabbrica nel 976, rialzolla il doge Pietro Orseolo I tosto dopo, continuolla nel 1043 Domenico Contarini, compilla nel 1071 Domenico Selvo, e finalmente Vitale Falier ne fece la solenne consecrazione nel 1094. Se ne ignorano gli architetti, ma lo stile che vi predomina è il greco-bizantino con qualche mescolanza di arabo e di tedesco. Questa chiesa si mantenne sempre cappella ducale e con un primicerio che esercitava i diritti parrocchiali sul vicinato fino al 1807, in cui divenne cattedrale. Nel 1810 ebbe poi ampliato il suo circondario per la soppressione delle finitime parrocchie. ― Il «Campanile» incominciossi nell'888, o secondo altri, nel 911. Nei secoli successivi se ne continuarono i lavori, ricordandosi, fra i varii architetti che vi diedero mano, Nicolò Barattieri (an. 1180), ed un Montagnana (anno 1329). Un fulmine, caduto nel 1489, avendo arsa la cella delle campane, Bartolammeo Buono la ricostrusse dal 1510 al 1514, compresi l'attico, ed il pinacolo. Ai piedi del campanile, che in questi ultimi anni venne sbarazzato dalle botteghe di legname che v'erano addossate, sta la «Loggetta», splendida opera del Sansovino (1540), destinata alla residenza di tre Procuratori di San Marco durante le sedute del Maggior Consiglio. Poco lungi ammiransi i tre pili di bronzo, fusi da Alessandro Leopardo nel 1505, i quali sostengono l'antenne donde sventolavano i vessilli della Repubblica.

Il «Palazzo ducale» vuolsi fondato da Angelo Partecipazio circa l'anno 814, rinnovato nel 977 dal doge Pietro Orseolo I, ed ampliato nel 1173 dal doge Sebastiano Ziani. Nel secolo XIV si prese a rifabbricarlo, ed il lavoro continuossi nell'epoche successive, dovendosi tener conto anche dei riattamenti, che ebbero luogo dopo altri incendi, avvenuti nel 1483, 1574 e 1577. Il Basegio, il Calendario, i Bon, il Rizzo, Pietro Lombardo, il Da Ponte, lo Scarpagnino, ed altri architetti impiegarono l'opera loro in questa mole grandiosa. Prossime al palazzo ducale, dalla parte del «Molo», sono quelle due belle colonne di granito orientale, condotte a Venezia da una delle isole dell'Arcipelago, di cui diremo innanzi. Vedi Molo. ― Prima di parlare delle «Procuratie», è da avvertire che il doge Sebastiano Ziani, eletto nel 1172, allargò la «Piazza», interrando il rivo Batario, e demolendo la chiesa di S. Geminiano, la quale si rifece più addietro là dove, varii secoli dopo, risorse per opera del Sansovino, e rimase fino all'epoca dell'Italico Governo. Ciò fatto, volle lo Ziani cingere la «Piazza» medesima d'alcuni edifici formati a foggia di galleria, i quali, perché poscia destinati all'abitazione dei procuratori di S. Marco, si dissero «Procuratie». Questi edifici, di stile italo-bizantino, ed in un piano soltanto, sono quelli che scorgonsi nel quadro di Gentile Bellini, dipinto nel 1496, rappresentante una processione in «Piazza di S. Marco», nonché quelli che ci vengono raffigurati dalla Pianta di Venezia, incisa in legno nel 1500, ed attribuita ad Alberto Durero, quantunque fino dal 1496 (posteriormente però al compimento del quadro belliniano) vi si fosse praticato un taglio per erigere (credesi sul disegno di Pietro Lombardo) la torre dell'Orologio, compiuta nel 1499, foriero dell'altro taglio fattosi dippoi, per dar luogo alle due ali di fianco, disegnate, senza alcun dubbio, dallo stesso Lombardo, e compiute nel 1506. Avvenne frattanto che alcune case delle «Procuratie», riguardanti verso mezzogiorno, venissero guaste dal fuoco, ed ecco la ragione per cui Antonio Grimani e Lorenzo Loredan, procuratori di S. Marco, ordinarono nel 1513 che le case tutte, volte a quella plaga, venissero atterrate, e ne commisero nel 1517 la rifabbrica a Guglielmo Bergamasco sotto la direzione di Bartolommeo Buono, proto delle «Procuratie». Allora le «Procuratie» di cui parliamo si dissero «Nuove», in confronto delle altre situate nel lato opposto della «Piazza» che conservavano l'originaria loro condizione. Ma presero il nome di «Vecchie» dopoché l'altre vennero compiutamente rifabbricate, lavoro che ebbe principio dallo Scamozzi nel 1584, e terminò nel successivo secolo, da architetti diversi, i quali tutti seguirono, con qualche alterazione, lo stile della «Biblioteca», edificio annesso, incominciato dal Sansovino nel 1536 in seguito alla «Zecca», da lui stesso eretta nel 1535. Caduta la Repubblica, le «Procuratie Vecchie», che, per bisogni guerreschi, erano state vendute a privati, continuarono ad appartenervi, e le «Nuove», compresa la «Biblioteca», si convertirono in «Palazzo Reale», che nel 1810 fu allungato dal cav. Soli di Vignola d'un'altra ala («la Nuova Fabbrica»), atterrata a tale scopo la chiesa di S. Geminiano.

In «Piazza di S. Marco» si ferirono varii tornei, tra i quali meritano ricordanza quello offerto da Pietro Orseolo II all'imperatore Ottone nel 998; l'altro comandato da Lorenzo Celsi nel 1364 pel ricupero di Candia, al quale intervenne il Petrarca; il terzo pel matrimonio di Jacopo figlio del doge Foscari (1441); il quarto in occasione della pace col duca di Ferrara (1484). In questa piazza avevano luogo ancora molti spettacoli, come quelli del Giovedì Grasso e dell'Ascensione («Sensa»), e nel 1782 vi si diede una bella caccia di tori per onorare i principi ereditari di Russia venuti, sotto il nome di conti del Nord, a visitare Venezia.

La «Piazza di S. Marco» venne ammattonata per la prima volta nel 1267, e quindi in altre epoche successive. Non fu però selciata, come ora si vede, in unione alla «Piazzetta», se non nel secolo trascorso sul disegno di Andrea Tirali. Ricorda il Benigna ne' suoi «Diari» ms. che s'incominciò il lavoro il 27 febbraio 1722 M. V. e venne compiuto soltanto il 29 luglio 1735.

S. Marco (Corte, Fondamenta di)
a S. Maria Maggiore. «Pietro Olivieri q.m. Baldassare», con suo testamento 25 ottobre 1515, in atti Priamo Businello, istituì per suoi commissarii tre confratelli della Scuola di S. Marco, alla quale egli stesso era ascritto, e, dopo altre disposizioni, fece la seguente: «Voglio che di tutto il resto dei denari che loro» (i suoi commissari) «se troverà haver, del tutto, et ogni mia cossa, che loro più presto che i possa i compra in questa terra, in quel luogo che a loro parerà, un terren, ovver più, sopra il quale, o sopra i quali, loro farà fabbricar tante case quante loro potrà per i denari che loro se troverà haver del tutto d'ogni cosa. Le quali case voglio che le sia di sorte che quando le se volesse affittar che de fitto no se podesse trager più de ducati 5 in 6 all'anno. E le predette case voglio che le sia date ad habitar a poveri confratelli de la Scola di S. Marco, li quali sopra tutto habbia fioli, e sia persone di buona conditione, le qual loro habbia da galder in vita soa» ecc. La Scuola di S. Marco, dopo la morte dell'Olivieri successa nel 1529, adempì alla di lui volontà, e fabbricò, per darle ai confratelli poveri, 24 case a S. Maria Maggiore in una Corte perciò detta «di S. Marco».

Questa Scuola era una delle sei Grandi, e venne fondata nel 1260 in parrocchia della Croce, donde il 25 aprile 1438 trasportossi ai SS. Giovanni e Paolo in un locale sul Campo che però nel 1485 abbruciossi. Allora gettò i fondamenti del magnifico edificio che tuttora in quella situazione ammiriamo, e che adesso fa parte del Civico Ospitale, sul disegno di Martino Lombardo, ajutato forse dal domenicano Francesco Colonna, soprannominato il «Polifilo». Si dice che all'erezione di tale edificio concorresse un pescatore di S. Nicolò, recando in un battello 100 lire d'argento col patto che la confraternita dovesse creare ogni anno un decano abitante a S. Nicolò. Cento erano gl'individui addetti alla Scuola di S. Marco, ed assai abbondanti le sue rendite che venivano impiegate in esercizii religiosi, ed in opere di beneficenza.

UP

S. Marcuola (Campo, Rio, Traghetto).
La chiesa dei Santi Ermagora e Fortunato, «vulgo S. Marcuola», venne fondata, come si crede, dai profughi del continente all'epoca dell'invasione dei Longobardi sopra un'isola chiamata Lemeneo, e rifabbricata nel secolo XII dalle famiglie Memmo e Lupanizza dopo un incendio che, sviluppatosi in causa d'orribile terremoto, l'aveva distrutta. Ebbe consecrazione nel 1332, oltreché sotto il titolo dei Santi Ermagora e Fortunato, sotto quello della Beata Vergine e di S. Giovanni Battista, del qual Santo conserva tuttora la destra, trasportata d'Alessandria, e rimasta, come si crede, miracolosamente illesa dall'incendio summentovato. Un'altra volta fu rifabbricata questa chiesa dal 1728 al 1736 sul disegno di Giorgio Massari. Ebbe l'ultima consecrazione nel 1779 per cura di Federico Maria Giovanelli patriarca di Venezia. Non si sa l'epoca dell'istituzione della parrocchia. Nel 1810 le si aggregò tutta quella di S. Maria Maddalena, e parte di quella di S. Leonardo e S. Fosca, allora soppresse. Ma nell'atto medesimo le furono tolti i circondarii di S. Girolamo, S. Alvise e «Rio della Sensa» per unirli a S. Marziale.

Sopra il portico dell'antica chiesa di S. Marcuola eravi un romitaggio ove abitavano prima tre, e poi sei donne, ascritte alla regola di S. Agostino. Esse avevano un piccolo oratorio sacro al loro santo che fu consecrato nel 1610 da Girolamo Porzia, vescovo d'Adria. Ma essendo coll'andar degli anni divenuta rovinosa la chiesa di S. Marcuola ottennero di trasferirsi in parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio, ove nel 1693 fondarono la chiesa, ed il convento dell'Eremite di cui abbiamo fatto parola.

Scrive il Magno che il doge Tribuno Memmo, eletto nel 979, «fece far un palazzo a S. Marcuola, e lì abitava». Ciò successe, come spiegano altre cronache, perché il palazzo ducale, arso nella sollevazione popolare contro Pietro Candiano IV, non era ancora in quel tempo rifabbricato. Del palazzo dei Memmo a S. Marcuola, parla il Caroldo, dicendo che, giunto a Venezia nel 1230 l'imperatore Federico, volle vedere le precipue case, «e massimamente quella dei Memmi a S. Marcuola, allora stimata più grande et meglio adornata delle altre». Questo palazzo passò poscia in mano dei Martinengo, ed in più modeste proporzioni venne rifabbricato. Vedi Gritti e Martinengo (Fondamenta).

Di faccia la chiesa di «S. Marcuola», in «Canal Grande», i tre fratelli Tristano, Nicolò e Giovanni Savorgnan, aiutati dai loro domestici, uccisero per mezzo di schioppettate, mentre erano in gondola il 1° agosto 1549, il conte Luigi Dalla Torre, ferendo pure il conte G. Battista Colloredo, ed altri. Perciò il 27 dell'istesso mese venne bandito il fuggitivo Tristano, e puniti in seguito quelli che caddero in potere della giustizia. Credesi che il Dalla Torre sia stato sepolto in quella cassa di legno posta nell'alto della chiesa dei Frari, sopra la porta per cui si passa nel chiostro, cassa che erroneamente fu scritto contenere invece le spoglie di Francesco Carmagnola. Vedi la lettera sopra questo argomento diretta dal Cicogna al Paravia il 13 giugno 1854, ed inserita nella «Rivista contemporanea» di Torino dell'anno medesimo.

In parrocchia di S. Marcuola abitò e venne a morte il pittore veronese Bonifazio. Leggesi nel necrologio parrocchiale sotto il 19 ottobre 1553: «Sier Bonifatio depentor amalà lungamente». Di questo pittore, che nel 1530 trovasi ascritto, coll'appellativo di Veronese, nel registro della Veneta compagnia dei Pittori, e che è ben diverso dall'altro pittore Bonifazio, suo più celebre contemporaneo, da alcuni ritenuto Veneziano, possiamo i primi dare a conoscere il casato. Imperciocché fra le Notifiche della parrocchia di S. Marcuola, presentate ai X Savii in occasione della Redecima del 1537, abbiamo ritrovato anche quella del nostro pittore, ov'egli, dichiarandosi proprietario d'alcuni campi e d'una «casetta con brolo» a S. Zenone sotto Asolo, si dice «Bonifatio pittor fo de S. Marco de Pitatis Veronese».

Nella stessa parrocchia abitava Olimpia Malipiero, figliuola di Leonardo, che scrisse alcune rime eleganti, e che assai immaturamente venne da morte rapita. Abbiamo nei Necrologi Sanitari: «1569, 23 Giugno. La mag.ca madona Olimpia Malipiero venuta morta dalla villa, ma amalata di febre già 10 giorni, d'anni 24 - S. Marcuola».

A S. Marcuola abitava pure Andrea Calmo, bizzarro scrittore e recitatore di commedie. Il Parabosco dice ch'egli col suo recitare dava «quel giocondissimo e nobilissimo piacere a tutta Venezia ch'ella maggiormente desidera», e poi nella lettera scrittagli nel carnovale del 1548 così soggiunge: «Mi par vedervi sopra le scene farvi schiavi quanti vi veggono et odono». Anche il Doni scrisse: «Io ho quell'Andrea Calmo per un bravo intelletto che almanco egli ha scritto mirabilmente nella sua lingua» (cioè nel dialetto veneziano) «et ha fatto honore a sè ed alla patria». Così i Registri Sanitarii fanno ricordo della sua morte: «1570. Adì 23 febb. Andrea Calmo d'anni 61, da febre giorni 10 - S. Marcuola».

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S. Margarita (Campo, Ponte, Rio, Ponte).
La chiesa di S. Margarita fu eretta da Geniano Busignaco, o Busignaso, Veneziano, sotto il doge Pietro Tradonico, eletto nell'836, e nell'853 venne consecrata. Una certa Bisina fabbricossi in prossimità l'anno 1330 angusta celletta affine di vivere in eremitica e solitaria vita, riservandosi però la libertà di trasferirsi nella notte precedente l'Ascensione alla basilica di San Marco per acquistare l'indulgenze ivi in quel giorno concesse. Per un piccolo passaggio poteva quella pinzochera recarsi fino alla sommità della cupola maggiore della chiesa di S. Margarita, ed assistere agli uffizi divini. Il Sabellico ricorda che a' suoi tempi questa cupola era dorata, e sostenuta da quattro grandi colonne di marmo orientale. La chiesa di S. Margarita ebbe bisogno d'essere rinnovata nel principio del secolo XVII, e nel 1647 videsi compiuta. Durò parrocchiale fino al 1810 in cui fu chiusa, e destinata ad usi profani. Nel 1882 divenne tempio Evangelico.

In «Campo di S. Margarita», e precisamente ove, innanzi l'interramento del rivo di «Ca' Canal», stendevasi la così detta «Fondamenta della Scoazzera», esisteva, come da lapide, un ospedaletto, od ospizio, per povera gente, fondato da Maddalena Scrovegni, ricca ed erudita matrona padovana. Essa era figlia d'Ugolino Scrovegni, nato da quell'Enrico che fondò in Padova la chiesa di S. Maria dell'Arena, il quale poi nasceva da quel Rinaldo, collocato da Dante nell'Inferno fra gli usurai. Maddalena Scrovegni avevasi congiunto in matrimonio con Francesco Regini, e non con Francesco Manfredi, come conghietturò l'avvocato Antonio Piazza in una lettera scritta al Cicogna, e citata da quest'ultimo nel I° volume delle «Inscrizioni». Essa poi non morì nel 1439, ma bensì nel 1428, anno in cui fu pubblicato il di lei testamento, fatto in contrada di S. Margherita, ove abitava, il 21 maggio 1421.

Presso all'ospizio fondato dalla Scrovegni, che venne ristaurato dai Procuratori «de citra» nel 1762, esiste tuttora un altro ospizio eretto per 12 povere donne da Meneghina Bocco, e quindi lasciato per testamento 18 novembre 1403.

I due pozzi che scorgonsi in «Campo di S. Margarita» furono costruiti per decreto dei Pregadi 12 novembre 1529.

Nel mezzo del «Campo di S. Margarita» sta ancora in piedi la scuola dei «Varoteri» (pellicciaj) sacra alla Visitazione di Maria Vergine, da essi innalzata nel 1725, dopo aver abbandonato l'altra che possedevano ai Gesuiti. Il divoto bassorilievo, che adornavane la facciata, venne nel 1886 trasportato al Civico Museo.

S. Margherita .
Vedi S. Margarita.

UP

S. Maria del Rosario (Parrocchia di).
Vedi Gesuati (Fondamenta delle Zattere alli ecc.).

S. Maria Formosa (Parrocchia, Campo, Rio, Borgoloco).
Dicesi che la Beata Vergine apparisse al vescovo S. Magno comandandogli d'erigerle una chiesa ove avesse veduto fermarsi una bianca nuvoletta. Ciò venne eseguito, e la nuova chiesa, fabbricata colla cooperazione della famiglia Tribuno, dedicossi alla Purificazione della Beata Vergine, e volgarmente si disse di «S. Maria Formosa» in memoria della vaga forma in cui la madre di Dio apparve al Santo. Questa chiesa, dichiarata subito parrocchiale, si rifece, non passati ancora due secoli dalla sua fondazione, per opera dei figli d'un Marino Patrizio nell'864. Si rifece un'altra volta dopo l'incendio del 1105. Si rialzò dai fondamenti nel 1492 sul disegno di Moro Lombardo. Nel 1541 se ne edificò la facciata verso il Ponte, e nel 1604 quella verso il Campo per cura della famiglia Cappello, e sullo stile del Sansovino, stile che seguitossi anche nella rinnovazione dell'interno, fattasi nel 1689 a spese di Torrino Tonini, ricco mercadante. La chiesa di Santa Maria Formosa ebbe un altro restauro interno nel 1842. Quanto alla parrocchia, essa nel 1810 subì una rinnovazione ne' suoi confini. Imperciocché perdette alcune frazioni che s'aggregarono alle due parrocchie di S. Zaccaria e dei SS. Giovanni e Paolo, e ne acquistò alcune altre, appartenenti a S. Marina e S. Giuliano, con intero il circondario di S. Leone.

Circa la visita che il doge e la Signoria facevano annualmente alla chiesa di S. Maria Formosa, vedi Casselleria (Calle di), e S. Pietro (Parrocchia ecc.).

In Parrocchia di S. Maria Formosa testò il 4 dicembre 1393, in atti Marco di Raffanelli, Verde, figlia di Martino dalla Scala signore di Verona, e vedova di Nicolò d'Este marchese di Ferrara, la quale, disgustata d'Alberto suo cognato, successo nel 1388 a Nicolò, avevasi ritirato a passare gli ultimi suoi anni in Venezia. Qui fu sepolta in chiesa dei Servi nel 1394, e non 1374, come si legge nel Sansovino, ed altri che riportarono le iscrizioni laterali al nobile altare eretto più tardi dai Procuratori di Citra coi danari lasciati da Verde, sul disegno di Guglielmo Bergamasco, nella medesima chiesa dei Servi, ed ora trasportato in quella dei SS. Giovanni e Paolo.

Scrive il Sanudo all'anno 1515, 4 marzo: «Ancora in questa mattina, all'hora di la messa granda, fu ammazzato uno fiol di... Coresi di ani... sul Campo di S. Maria Formosa per s. Sebastiano Arimondo di s. Fantin, che era suo compagno, et io li vidi dar con altri zentilhomeni più ferite nel petto di uno fuseto. E' onde morto lì sul campo. El qual s. Sebastian à poco cervello poiché, benché lo vedesse morto, vene, poi disnar, a consejo, et io etiam il vidi, ma da soi parenti fo fato andar zoso, et andoe».

In parrocchia di Santa Maria Formosa si ritrasse a menar vita meretricia Veronica Franco, della quale abbiamo parlato più addietro, e ritorneremo a parlare in appresso. In un opuscolo rarissimo, impresso nel secolo XVI col titolo: «Questo si è il Catalogo de tutte le principal, et più honorate cortigiane di Venetia», di cui possedeva il Cicogna una copia a penna, ora nel civico Museo, si legge: «Vero. Franca a Santa Mar. Formo. Pieza so mare. Scudi 2».

A S. Maria Formosa abitò e morì Celio Magno, detto dal Carrer «uno dei più illustri poeti del suo tempo, e degno d'illustrare qualunque tempo». Nel necrologio parrocchiale abbiamo: «Adì 6 april 1602. Il cl.mo sig. Celio Magno, de anni 66, amalado de ponta giorni otto».

A S. Maria Formosa cessò di vivere Trajano Boccalini nato da padre romano in Loreto, autore dei «Ragguagli di Parnaso», della «Bilancia Politica», e d'altre opere. Ricorda Apostolo Zeno che il necrologio parrocchiale registra in data 16 novembre 1613: «Il sig. Trajano Boccalini, Romano, d'anni 57, da dolori colici e da febre». E noi a nostra volta trovammo nei Necrologi Sanitarii: «A dì 29 novembre 1613. Il sig. Tragian Boccalino, de anni 57 in c.a, da dolori colici et febre, g.ni 15, medico il Amalteo, S. M. F. sa». Notisi che, sebbene da tutte due le citate annotazioni naturale apparisca la morte del Boccalini, è credibile tuttavia ch'essa fosse violenta. Il cardinale Bentivoglio, Lorenzo Crasso, e Gian Nicio Eritreo si fecero banditori d'una popolare tradizione, secondo la quale, avendo il nostro autore esasperato co' suoi scritti alcuni potenti, fu in tempo di notte assalito, mentre giaceva a letto, e sì sconciamente battuto con sacchi pieni d'arena da doverne in breve venire a morte. Noi però siamo di parere che questa diceria dipendesse unicamente dall'avere il Boccalini medesimo raccontato che il matematico Euclide ebbe a soffrire tal genere di morte per aver detto che tutte le linee dei pensieri e delle azioni dei principi e dei privati si riducono a cavar con gentilezza i danari dalla borsa del compagno per metterli nella propria. Crediamo poi maggiormente vera l'asserzione dei figli di Trajano, i quali, in una supplica ai Capi del Consiglio dei X, affermarono che i «Ragguagli di Parnaso» furono l'opera che «accelerò con la violenza dei veleni il fine alla vita» del loro genitore.

Nella stessa parrocchia morì pure l'11 ottobre 1764 l'architetto Giovanni Scalfarotto. Ed il 18 luglio 1779 vi morì «Luisa Bergalli, moglie del nob. sig. Conte Gasparo Gozzi q. Giacomo». E nel 1798 l'architetto Bernardino Maccaruzzi.

Il «Campo di S. Maria Formosa» è cospicuo per varii palazzi. Al «Ponte di Ruga Giuffa», a destra, scorgesi il palazzo Malipiero, poscia Trevisan, architettato nel secolo XVI da Sante Lombardo. Nel centro del campo, presso l'imboccatura della «Calle degli Orbi», il palazzo archiacuto Vitturi. Quindi, passata la «Calle Lunga», gli edifici, pure archiacuti, dei Donato, sopra la porta di uno di quali havvi una testa di marmo collo stemma della famiglia. Qui abitava quell'Ermolao Donato, uno dei capi del Consiglio dei X, che, mentre il 5 novembre 1450, a 4 ore di notte, ritornava a casa, riportò, presso la sua porta, per mano d'uno sconosciuto, varie ferite, le quali, dopo due giorni, lo trassero alla tomba. Fu perciò catturato, posto a tortura, e, benché nulla confessasse, relegato in Candia Jacopo, figlio del doge Francesco Foscari, come sospetto d'aver ordinato l'assassinio.

Chiude finalmente il «Campo di S. Maria Formosa», dal lato di settentrione, il palazzo Ruzzini, quindi Priuli, disegnato da Bartolammeo Monopola.

In questo Campo, adorno di nobili arredi, si diede nel 1686 un notturno spettacolo di fuochi artificiali per festeggiare la presa, fatta dal Peloponnesiaco, di Napoli di Romania. Si scorgeva da lungi Napoli, munito di cannoni e di difensori vestiti alla Turchesca. Di faccia sorgeva il monte Palamede, ove i Veneziani stavano schierati in ordine di battaglia. Mediante fuochi era simulato il bombardamento del castello, donde con altri fuochi rispondevasi. Succedevano quindi gli assalti, i conflitti, e gli scoppi delle mine; i Turchi alzavano bandiera bianca; sfilavano gli ostaggi; conchiudevasi la capitolazione; ed appariva sulle mura il vessillo di S. Marco.

Nel Campo medesimo si celebrò nell'anno seguente una magnifica caccia di tori ed orsi in onore di Ferdinando Gran Duca di Toscana. Nacque però che nel mezzo della festa cadesse una altana, nella qual occasione perirono due donne, salvandosi un prete rimasto attaccato ad una grondaja (Codice Cicogna 2978).

Per la voce «Borgoloco» vedi Borgoloco (Ramo ecc. di).

S. Maria Maggiore (Ponte, Rio, Fondamenta).
Correva voce nel secolo XV che un eremita, abitante in questo rimoto angolo della città, avesse veduto più fiate una matrona di grande bellezza passeggiare con un bambino fra le braccia sulla laguna, e che tale prodigio fosse stato ammirato eziandio da alcuni buoni pescatori dei contorni. Aggiungevasi che il beato Bernardino da Feltre aveva predetto doversi erigere in questa situazione un convento di monache Francescane. Animata da tali voci, Catterina, romita di S. Agnese, domandò al Senato un tratto di terreno degli «arzeri novi» a S. Andrea, ed ottenutolo nel 1497, fabbricovvi sopra una piccola chiesa, ed un monastero dedicati alla Vergine, ed a S. Vincenzo. Questa chiesa fu poscia rinnovata nel 1502, a merito di Luigi Malipiero, e denominata di Santa Maria Maggiore, avendosi seguito nell'erigerla il modello di quella di Santa Maria Maggiore di Roma. Dilatato venne pur il monastero, che nel 1503 si ridusse, per ordine di Alessandro VI, sotto il serafico istituto. Rimasero le monache affidate ai frati Minori fino al 1594, in cui furono sottoposte alla giurisdizione dei patriarchi di Venezia. Nel 1805 vennero concentrate con quelle della Croce, ed il monastero di S. Maria Maggiore, per decreto 26 novembre 1806, consegnossi al militare. Nel 1817 esso bruciò senza che pur ne fosse tocca la chiesa. Questa, uffiziata dopo la partenza delle monache da un prete, il quale vi fece qualche restauro, venne poscia ceduta all'Amministrazione dei Tabacchi, ed è tuttora in suo potere.

Circa gli scandali che, come tante altre, diedero al mondo anche le monache di S. Maria Maggiore, leggiamo nei «Diari» del Sanudo sotto il 22 agosto 1502: «In questi giorni fo retenuta per il patriarca con li Avogadori Suor Maria, priora di Santa Maria Mazor, con do altre monache, le qual se impazavano con un prete Francesco, stava a S. Stai, bel compagnon, et etiam lui retenuto. Hanno confessato "uterque" quello che facevano; "ergo sub specie sanctitatis multa mala fiunt"; et fo tolte molte robe in casa di prè Francesco che ditta suor Maria ge l'haveva donate, et fo vendute al incanto, e li denari dati alli procur. di la chiesa predicta. Or fo condannà p. Franc.o a X anni in prexon, e suor Maria confinata in Cypro a pan et aqua, et questo per sententia dil patriarca, et cussì la fu mandata».

Trovasi nel «Giornale delle cose del mondo avvenute negli anni 1621-1623» (Codice Cicogna 983), e precisamente nel «Supplimento di Venezia 12 febbraio 1621», la notizia seguente: «Domenica sera sopra una festa a S.ta Maria Maggiore fu ferito da tre ferite il Cl.mo Ser Polo Morosini fo de Ser Gerolamo dicesi da un altro nobile, col quale venne a contesa».

S. Maria Mater Domini (Ponte, Rio, Campo).

E' tradizione che la chiesa di S. Maria Mater Domini sorgesse nel 960 per opera delle famiglie Zane e Cappello, e che fosse sacra in origine a S. Cristina, venendo a quel tempo uffiziata da monache. Nel 1503 atterrossi, e si rifabbricò, «mettendo», dice il Sanudo, «l'altar grando a l'incontro dove era». Ridotta a termine, consecrossi il 25 luglio 1540 da Lucio vescovo di Sebenico. Il Temanza la vuole architettata da Pietro Lombardo, non senza l'opera del Sansovino. Fu parrocchiale fino al 1810, ed ora è succursale di S. Cassiano. Il suo campanile, eretto anticamente dai Cappello, rinnovossi nel 1743.

Scrive la Cronaca Magno: «Del 1150 uscì fuoco casualmente da la contrà de santa M. Mater Domini, et la bruzò tuta; poi andò a S. Stai, S. Stin, santo Agustin, S. Boldo, S. Jacomo de luprio, san Zan degolado, santa Croxe, S. Simeon Profeta, S. Simeon Apostolo, S. Baxegio, san Nicolò de Mendigoli, et san Raffael, et bruxò in Venetia assai caxe».

Havvi un decreto del Consiglio dei X, colla data del 24 aprile 1488, per cui ordinavasi che, essendo il portico della chiesa di S. Maria Mater Domini ricettacolo, specialmente in tempo di notte, di sodomie ed altre disonestà, né potendo esso, per la sua posizione, essere distrutto, come aveasi fatto d'altri portici, venisse cinto di tavole, e fornito di una porta, la quale si dovesse chiudere dopo le ore ventiquattro.

In «Campo S. Maria Mater Domini» esistono ancora gli antichi edificii della famiglia Zane, che, secondo le cronache, vennero nel 1310 bollati col S. Marco, avendo chi li possedeva preso parte alla congiura Tiepolo-Querina. L'edificio presso la chiesa ha tuttora sul pozzo della corte interna la volpe rampante, stemma della famiglia Zane.

Accanto a questo edificio sul principiare della così detta «Calle Lunga» scorgesi una porta che reca sugli stipiti lo stemma Cappello e che guida ad un giardino, area un tempo d'antico palazzo, ora distrutto, di proprietà Cappello, il quale dal lato opposto guardava colla facciata il «Rio della Pergola». Aldo Manuzio il «Giovane» nella «Vita di Cosimo dei Medici», pubblicata nel 1586, racconta come Maria Salviati di lui madre, qualche tempo dopo la resa di Firenze all'armi di Carlo V, venne col suddetto principe, allora molto giovanetto, a Venezia, ed «abitò più d'un anno in casa Cappello nella contrada di S. Maria Mater Domini, nel rivo detto della Pergola col sig.r Bartolomeo, il cavaliere, padre della serenissima Gran Duchessa presente, et coi fratelli mentre viveva il padre». Racconta pure come un giorno Cosimo, giuocando e scherzando con altri suoi coetanei, cadde nell'acqua, ove sarebbesi affogato senza il pronto aiuto prima di sua cugina Luigia d'Appiano, allora fanciulletta, che l'afferrò pei capelli, e poscia d'un frate che lo trasse alla riva. Fu solo più tardi, e forse nel 1544, epoca del suo primo matrimonio, che Bartolameo Cappello si divise dai fratelli, ed abbandonato il palazzo di S. M. Mater Domini, si traslocò a S. Apollinare, ove gli nacque nel 1548 Bianca, incoronata nel 1579 Gran Duchessa di Toscana, e morta nel 1587.

In un palazzo al «Ponte di S. Maria Mater Domini», che, alquanti anni fa, era sede della tipografia Cecchini, abitarono, per vario tempo, i due fratelli letterati Gasparo e Carlo Gozzi. Nelle «Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà» si parla a lungo di questo palazzo, fabbricato dalla sua famiglia nel 1550.

S. Maria Nova (Campo).
La ex chiesa parrocchiale di S. Maria Nuova si crede fondata nel 971 dalla famiglia Borselli. Il suo nome però data soltanto dal secolo XIII, mentre prima dicevasi di S. Maria Assunta, e forse l'avrà acquistato dopo qualche ristauro. Caduta quasi d'improvviso nel 1535, si rialzò a spese del suddiacono Nicolò Dal Negro, sul modello, come credesi, del Sansovino. Nel 1760 ebbe ristaurato il prospetto dall'architetto Giovanni Vettori. Nel 1808 fu chiusa. Servì quindi ad uso di magazzino, ma nel 1853 venne interamente demolita. Nel 6 dicembre di quell'anno, sul mezzogiorno, cadde gran parte della muraglia sopra i manovali intenti all'opera, sicché rimasero quasi soffocate tre persone, una delle quali salvossi gettandosi in acqua, e le altre offese andarono all'ospedale.

Trovasi negli «Annali» del Malipiero: «A 15 d'agosto» (1498) «è stato restaurato dalle fondamente el campanil de Santa Maria Nova a spese di Nicolò Morosini piccolo q. Giacomo, homo richissimo, che ha fatto trentasei case in contrà de S. Ternita, e le dà de bando a nobili poveri».

Leggesi nel Barbo: «Adì 26 Aosto 1540, a hore 15, de Zuno, se impizzò fuogo in la contrà de S. Maria Nuova in le caxe della d. gesia, nella qual iera piovan m.r pre' Bernardin Gusmazi, et era una isola posta a mezo campo, et stava dentro due fratelli barbieri, li quali uno haveva nome Anzoleto, et l'altro haveva nome Maximo. El fuogo entrò per via de algune stelle, et fu tanto presto che non possono scapolar cosa alguna. El qual fogo fu posto per man d'una massera zovene, schiava, la qual, per esser dal patron battuda, fece questo, et fuggì, et fu un gran danno del piovan».

In «Campo S. Maria Nova» è scolpita sul prospetto d'un palazzo, già posseduto dalla patrizia famiglia Bembo, un'elegante nicchia di marmo, ove scorgesi collocato in piedi un vecchio peloso tutto, e con barba, nel quale si volle forse effigiare Saturno, oppure il Tempo. Egli tiene con ambe le mani due perni, a cui sta raccomandato il disco solare. Sotto la nicchia leggonsi le seguenti parole: Dum Volvitur Iste Iad. Asc. Iustinop. Ver. Salamis Creta Iovis Testes Erunt Actor. Pa. Io. Se. Mo. Questa casa era abitata nel secolo XVI da G. Matteo Bembo, inventore del motto, o dell'impresa surriferita. Voleva con essa indicare che, finché il sole girerà intorno ai poli, le città di Zara («Iadera»), Cattaro («Ascrivium»), Capodistria («Iustinopolis»), Verona («Verona»), Cipro («Salamis»), e Creta, culla di Giove, («Creta Iovis») faranno testimonianza delle di lui azioni («Actorum»). Le quattro ultime sigle sono poi i nomi di Paolo Iovio, o Giovio, e di Sebastiano Munstero, che nelle loro istorie avevano fatto menzione delle intraprese del Bembo. Vedi Cicogna («Inscrizioni ven.», vol. III).

Ci fa sapere il Codice 1620, Classe VII della Marciana, che il 13 giugno 1759 il «N. U. Dom. Loredan de s. Antonio, da s. Vio, d'anni 26, spogliatosi della velada e camisiola di seda alla riva di Santa Maria Nuova, si è gettato in canale, et annegato».

S. Maria Zobenigo (Parrocchia, Campo, Rio, Traghetto di).
La chiesa di S. Maria Zobenigo trasse l'appellazione dalla famiglia Iubanico, che, insieme ad altre, credesi circa l'anno 900, ne fu la fondatrice. Questa chiesa si dice eziandio di S. Maria del Giglio, perché è dedicata al mistero dell'Annunziazione che suolsi esprimere in pittura con la Beata Vergine e l'Arcangelo, innanzi ad essa, recante un giglio in mano. Bruciò tanto nel 976, quanto nel 1105. Parecchie volte in seguito venne ristaurata, ed una fra le altre circa al 1660 per opera dei Contarini. Ma, sia che non ottenesse perfetto risarcimento, sia che si volesse darle nuova conformazione, certo è che nel 1680 si prese a rifabbricarla dai fondamenti, ond'ebbe consecrazione nel 1700. Sopra il prospetto, architettato dal Sardi, che costò ai Barbaro 30 mila ducati, si scorgono, fra gli altri fregi, le statue in marmo di 5 individui di questa famiglia, e, con istravagante pensiero, le piante topografiche di Roma, Candia, Padova, Corfù, Spalato, e Zara, scolpite sui pilastri delle colonne. Una di queste statue, cioè quella d'Antonio Barbaro, venne guasta da una folgore, che colpì il prospetto l'8 luglio 1759. La chiesa di S. Maria Zobenigo tornò ad essere ristaurata internamente nel 1833.

Pel suo campanile vedi Campanile (Calle del).

La parrocchia è antica quanto la chiesa. Nel 1810 venne ampliata con parte delle parrocchie allora soppresse di S. Moisè, di Sant'Angelo, e San Maurizio, e con intero il circondario di San Fantino.

Il muro di fortificazione, che, come abbiamo notato altrove, il doge Pietro Tribuno fece costruire intorno al 906, giungeva dall'estremità d'Olivolo fino alla chiesa di Santa Maria Zobenigo, ove gettavasi una catena all'opposta riva di San Gregorio per chiudere in tal guisa l'ingresso ai legni nemici. Questa catena, secondo la cronaca attribuita al Tiepolo, tornossi a gettare all'epoca della guerra di Chioggia.

Nell'elenco degli allibrati all'estimo del Comune in parrocchia di Santa Maria Zobenigo, l'anno 1379, trovasi «Sier Michiel Sten». Egli era quel Michele Steno, patrizio, che, essendo intervenuto una sera del 1355 ad una festa di ballo, datasi in palazzo del doge Marino Faliero, ed avendo fatto non si sa quale scherzo indecente ad una damigella della dogaressa, o secondo altri, alla dogaressa medesima, venne per ordine del Falier scacciato dalla sala. Desideroso perciò di vendetta, scrisse sopra la sedia del doge:

Marin Falier da la bela mujer,

Altri la gode, e lu la mantien!

Il Faliero, che forse avrebbe voluto vedere lo Steno condannato a morte, od a perpetua prigionia, creduta lieve la pena inflittagli, congiurò di lavare nel sangue degli ottimati l'onta sofferta, ma venne scoperto e decapitato. Lo Steno invece, giunto alla vecchiezza, si vide eletto doge alla sua volta nel 1400.

Il Sanudo, colla sua solita ingenuità, racconta all'anno 1517, 24 gennaio M.V., un'improntitudine giovanile commessa a Santa Maria Zobenigo, la quale però costò assai cara all'autore di essa: «Accidit», scrive egli, «che uno bazarioto, vestito da vecchio, havea una cheba con uno priapo dentro; stava benissimo, e l'andava mostrando a le done; hor a sancta Maria Zubenigo, par, mostrandolo a certo balcon a una zovene, uno, che havea di quella interesse, vene fuora, et li dete d'un fuseto, et morite. Era di età di anni 16».

All'anno poi 1519, 20 febbraio M. V., ricorda: «In questo zorno a Sancta Maria Zobenigo, sul campo, fo fato una festa di caze di tori, et di uno orso con altri fuogi, auctor Domino Zuane Cosaza sta lì. Vi fo assai persone. Etiam diti oratori Franzesi ussidi di Conseio andono a veder, et cazete un soler, e rupe la gamba a... Zustinian di S. Hieronimo procurator, era su deto soler». Questo «Zuane Cosaza» discendeva da nobilissima famiglia, del sangue imperiale dei Comneni, la quale aveva molte possessioni nel Montenegro, da essa cedute nel secolo XV alla Repubblica, riportandone in cambio nel 1430 la veneta nobiltà. Egli era capitano dei cavalleggeri, ed un'altra volta trovasi nominato nei «Diari» del Sanudo, ove si racconta che il principe di Bisignano cenò il 13 gennaio 1521 M. V. «a casa di suo barba ser Zuane Cosaza a Santa Maria Zobenigo».

In una casa del N. U. Pietro Morosini, posta in parrocchia di S. Maria Zobenigo, era passato ad abitare nel 1582 dalla parrocchia di S. Martino l'architetto Antonio Da Ponte.

In «Campo di S. Maria Zobenigo» stanziò nel 1628 Ferdinando granduca di Toscana, venuto col suo fratello D. Carlo, a visitare Venezia. Così dice il «Diario» del Luna (Classe VII, Cod. 377 della Marciana): «Per la stantia gli fu parechiato uno pallazzo de cha Grimani a Santa Maria Zubenigo, il quale è sora il Canal Grande, et fo fatto un foro per quelle case e pallazzi che sono fin a presso de la chiesa di Santa Maria Zubenigo, et questo fu fatto per acomodar tutta la corte ch'era con il Granduca» ecc.

UP

S. Marina (Campo, Rio).
La chiesa di S. Marina fu eretta nel 1030 dalla famiglia Balbi. Dapprima fu dedicata a S. Liberale, e, secondo il Sansovino, anche a S. Alessio. Quando poi nel secolo XIII seguì la traslazione in Venezia del corpo di S. Marina, s'intitolò a questa Santa. Fu ristaurata più volte nei tempi antichi, e due volte nel secolo trascorso, vale a dire nel 1705, e nel 1754. Nel 1808 da parrocchiale divenne succursale di Santa Maria Formosa, nel 1818 fu chiusa, e poco dopo ridotta a spaccio di vino. A questo proposito narra piacevolmente il Cicogna, ne' suoi «Diarii» manoscritti, che ove prima si celebravano i divini uffici, s'udivano gli inservienti dello spaccio ordinare ad alta voce: «Un bocal a la Madona! Un bocal al Santissimo!» secondo che i bevitori erano seduti presso la profanata cappella della Madonna, oppure presso quella del SS. «Sic volvenda aetas», direbbe Lucrezio, «commutat tempora rerum!» Venuto il 1820, questa chiesa si distrusse, ed in sostituzione si fabbricarono alcune case, sopra una delle quali si pose un altarino coll'immagine della Santa.

In parrocchia di S. Marina abitava il celebre pittore Gian Bellino. Ciò è provato dalle «Mariegole» della Scuola Grande di San Marco, ove, all'anno 1484, leggiamo: «Zuane Bellin fo de ser Jacomo depentor, S. Marina». E' provato ancora dalle «Raspe» dell'«Avogaria», le quali registrano che venne assolto un Giovanni drappiere incolpato d'aver insultato e ferito un Federico di Nicolò, sensale, che, colla moglie Andriana, ritornava una sera del 1485 «e domo Ioanis Bellini pictoris in contracta S. Marinae». Gian Bellino venne a morte il 29 novembre 1516, come sotto tal data ricorda il Sanudo colle parole: «Se intese questa matina esser morto Zuan Belin, optimo pytor, havea anni... la cui fama è nota per il mondo, et cussì vecchio, come l'era, depenzeva per excellentia: fu sepulto a S. Zane Polo in la soa archa, dove etiam è sepulto Zentil Belin, suo fradelo, etiam optimo pytor». Questi, che abitava a S. Geminiano, aveva pagato il tributo alla natura fino dal 1506. L'arca poi dei Bellini ai SS. Giovanni e Paolo, ove con Gentile e Giovanni, vennero pure sepolti gli altri due loro fratelli Gabriele e Giorgio, apparteneva antecedentemente alla famiglia Abati fiorentina.

In parrocchia di S. Marina chiuse i suoi giorni, il 9 maggio 1552, Marcantonio Michiel, autore dei «Diarii», da noi alcune volte citati. Nota lo Stringa ch'egli fu il primo, dall'erezione della Scuola Grande di S. Teodoro, ad essere accompagnato alla sepoltura dai confratelli di questa scuola.

Avendo Taddeo Volpe il 17 luglio 1509, giorno dedicato a S. Marina, riacquistato, col provveditore Andrea Gritti, Padova dalle forze della famosa lega di Cambrai, decretò il Senato che un monumento sorgesse in chiesa di S. Marina al valoroso condottiere, e che ogni anno dovesse il doge colla Signoria visitare nei «peatoni dorati» la chiesa medesima. Siccome poi era sepolto anticamente in questo sacro recinto il doge Michele Steno, al cui sepolcro vennero appese le chiavi di Padova, perché sotto di lui per la prima volta essa passò in mano dei Veneziani, ciò accrebbe maggiormente la pia credenza che dall'intercessione della Santa dipendesse il nuovo prospero successo.

Splendore del clero addetto alla chiesa di S. Marina fu quel G. B. Cippelli, detto «Egnazio», uomo eruditissimo, il quale nel 1520 venne eletto pubblico lettore di belle lettere nella nostra città, e finì la sua mortale carriera nel 1553.

Nel Supplemento 25 giugno 1622 del «Giornale delle Cose del mondo avvenute negli anni 1621-1623» leggesi il seguente aneddoto successo in parrocchia di S. Marina: «Mercordì mattina, sendosi levato tempo strano, cadè una saetta in casa del Cl.mo S. Polo Zane fu de S. Pietro in contrà de Santa Marina, che colse nel letto il detto Cl.mo, restando però poco offeso, con haverli abbruciato li lenzuoli et coperte, come anco parte delli fornimenti de la camera, senza altro male».

UP

S. Marta (Punta di).
In questo estremo angolo della città Filippo Salamon, e Marco Sanudo Torsello, aderendo alle istanze di Giacomina Scorpioni, innalzarono nel 1315 una chiesa sacra a S. Marta e S. Andrea, ed un fabbricato che doveva servire ad ospitale pei poveri della parrocchia di S. Nicolò. La Scorpioni tuttavia, mutato consiglio, volle destinarlo nel 1318, anziché a poveri, a monache Benedettine, tratte dal chiostro di S. Lorenzo in Ammiana. Negli anni 1466-1468 la chiesa di S. Marta fu rifabbricata, e nel 1480 consecrata da Antonio Saracco arcidiacono di Castello. In questo frattempo avevasi ampliato anche il convento, nel quale papa Clemente VII, a mezzo del patriarca Antonio Contarini, sostituì la regola di S. Agostino a quella di S. Benedetto. Soppressa nel 1805 la religiosa comunità, se ne secolarizzarono gli edifici.

La spiaggia contermine, occupata oggidì dalle fabbriche del Cotonificio, inauguratosi nel 1883, appellavasi «Arzere di S. Marta» da un argine che colà anticamente si eresse contro le corrosioni dell'acque. Tali ripari originarono eziandio le non lontane denominazioni di «Arzere sopra Canal», «Ponte e Rio dell'Arzere», ed «Arzere S. Nicolò».

Verso S. Marta protendevasi un tempo dal continente, a guisa di penisola, un lungo banco formato dalle deposizioni del Brenta, e ricoperto di boscaglia, il quale chiamavasi «Ponte dei Lovi» pei molti lupi che vi si annidavano. Esso venne distrutto nel giugno 1509, epoca della guerra di Cambrai, temendosi un pericoloso avvicinamento dei nemici alla città.

Nel «sagrà» di S. Marta venne colta il 15 giugno 1510 quella Andriana Misani, moglie d'Andrea Massario banditore, che era stata complice dell'uccisione del proprio marito, operata da Francesco figlio di Magro barbitonsore da S. Ternita, col quale manteneva amorosa corrispondenza. Essa venne condannata al supplizio della «cheba», per sentenza 11 luglio dell'anno medesimo, ma nell'undici ottobre successivo fuggì, né altro si seppe de' suoi fatti.

Non si sa precisamente qual origine abbia avuto la «sagra» notturna, che soleva farsi nella vigilia di S. Marta. Alcuni vogliono che sia stata istituita in commemorazione del banchetto dato da S. Marta a Gesù Cristo, ed infatti, nota il Cicogna, la «sagra» nostra aveva per principale obbietto i banchetti e le cene. Secondo altri, nel tempo in cui essa cadeva solevano anticamente i pescatori portarsi a pescare in questa situazione il pesce «sogliola», comunemente detto «sfoglio», e quindi sbarcavano per cuocerlo sulla spiaggia. V'accorsero a poco a poco anche le persone di classe più elevata, le quali comperavano il pesce appena tratto dall'acqua, e fattolo cuocere al momento, il mangiavano. Al pesce s'aggiunsero in seguito altre vivande, e ne provennero le laute cene, che nella sera accennata s'imbandivano, parte sulla spiaggia, e parte sopra ben guarnite ed illuminate barchette, trascorrenti fra suoni e canti le acque vicine. Ora di detta «sagra», che rinnovavasi in tutti i lunedì successivi del mese d'agosto, più non rimane vestigio.

UP

S. Martino (Parrocchia, Campo, Rio, Piscina di).
La chiesa parrocchiale di S. Martino venne eretta nel principio del settimo secolo sopra una delle isole chiamate «Gemini», o «Gemelle», dai popoli di terraferma, che fuggivano l'invasione dei Longobardi. Fu poscia rifabbricata in epoca incerta principalmente dalla pietà delle famiglie Vallaressa, e Saloniga. Essa rimase soggetta al patriarcato di Grado finché la mensa di Grado passò nel patriarcato di Venezia. Nel 1540 si rinnovò sul modello del Sansovino, e consecrossi nel 1653. Il circondario di questa parrocchia ebbe qualche riforma nel 1810. Allora si aggregarono ad essa alcune frazioni delle soppresse parrocchie di S. Ternita e di S. Biagio, ma se le tolsero alcune altre per unirle alla parrocchia di San Giovanni in Bragora.

Scrive il Corner, nel suo compendio in lingua italiana delle «Chiese Venete e Torcellane», che la prima abitazione dei Domenicani fu «presso la chiesa parrocchiale di S. Martino, leggendosi in documenti pontifici, segnati negli anni 1226 e 1229, nominato il Priore della chiesa di S. Martin di Venezia dell'ordine dei predicatori, quale fu da Gregorio eletto fra i Visitatori Apostolici di alcune chiese».

In parrocchia di S. Martino abitava nel 1537, colla sorella Polissena, «Cassandra Fedel, fo de m. Anzolo», che noi abbiamo veduta decessa nel 1558 presso la chiesa di S. Domenico.

Nella stessa parrocchia possedeva tre casette, una delle quali faceva servire per uso proprio, l'architetto Antonio Da Ponte. Vedi la notifica ch'egli presentò ai X Savii nel 1566.

Presso la chiesa di S. Martino, il 4 gennaio 1726, il conte Domenico Althan di S. Vito del Friuli, figliuolo del conte Giacomo, d'anni 31, uccise a tradimento, con un colpo di trombone, Gaetano Marasso, soprannominato Rinaldo Sora, Sopraintendente all'Artiglierie. Non avendo ottemperato alla citazione di comparsa, fu il successivo 1° aprile bandito capitalmente. Poscia, lasciatosi catturare in «Piazza di S. Marco», venne il 6 novembre 1727 giustiziato. In quel giorno, come dice il Benigna, «era vestito in codegugno di drappo di seda, e parrucca in sacchetto, et andando al supplizio salutava li suoi amici. Sopra il palco ha parlato un quarto d'ora, et in fine, avendo il collo sopra il ceppo, disse: Popolo addio!»

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S. Marziale (Campo, Ponte, Rio).
Dicesi che la chiesa di S. Marziale, «vulgo S. Marcilian», sia stata eretta nel 1133 dalla famiglia Bocchi sopra un tratto di terreno asciugato fino dal secolo VIII dalla famiglia Dardani, e tosto costituita parrocchiale. Venne rinnovata nel 1693, e nel 1721 consecrata. Si rese celebre per un simulacro della Beata Vergine che, secondo la tradizione, fatto da un pastore di Rimini, e posto in una barca a discrezione dell'onde, pervenne nel 1286 alle rive di questa chiesa, e fu collocato in essa coll'intervento del principe e del Senato.

Questa chiesa ora cessò di essere parrocchiale, essendosi destinata a tale scopo l'altra chiesa della Madonna dell'Orto.

Il giorno di S. Marziale, per tre illustri vittorie in esso riportate, l'una alla bastia di Zara, la seconda nell'acque di Romania contro i Turchi, e la terza contro i Padovani, si pose, fino dal 1373, fra i solenni, chiamati ferie di palazzo.

Il «Ponte di S. Marziale» serviva per le lotte dei bastoni, e poscia dei pugni, al pari del prossimo «Ponte di S. Fosca». Ricorda la cronaca del Barbo che la domenica 17 ottobre 1545, mentre una di tali lotte ferveva sul «Ponte di S. Marcilian», e vincitori riuscivano i Castellani, alcuni Nicolotti incominciarono a scagliare le tegole dai tetti contro gli avversarii per cui nacque gran tumulto, si snudarono le spade, e molte persone perirono uccise, soffocate, ed annegate. Andarono scoperti, e meritamente puniti i primi autori del fatto. I quali erano un «pre' Paris, un Iseppo barbier, et un suo compagno».

In parrocchia di S. Marziale sviluppossi la terribile peste del 1575 nella casa d'un Vincenzo Franceschi, ove era stato ospitato un Trentino infetto dal morbo.

Al «Ponte di S. Marziale», la notte del 18 ottobre 1619, venne ucciso con un colpo di moschetto, a tradimento, Alvise q. Antonio Mocenigo «dalle Zogie».

Sulla «Fondamenta di S. Marziale», ora più conosciuta sotto il nome di «Fondamenta della Misericordia», Nicolò Morosini q. Leonardo q. Giovanni, avvocato, ammazzò nel 1622 un Ebreo che aveva negato di dargli denaro.

UP

S. Matteo (Calle di)
a Rialto. La chiesa parrocchiale di S. Matteo Apostolo sorse nel 1156 sopra un fondo donato da Leonardo Coronario al patriarca di Grado, ragione per cui venne a dipendere dalla mensa Gradense. Nel 1436 la confraternita dei Macellaj ottenne dal pontefice Eugenio IV il juspatronato della medesima, ed il diritto d'eleggerne i pievani. Questa chiesa ebbe un ristauro nel 1615, e nel 1735 fu del tutto rifabbricata. Si chiuse nel 1810, e più tardi si demolì cangiandosi in privata abitazione.

Avendo Francesco Massarini, il quale era solito a dipingere figure oscene in avorio sopra l'interno delle scatole da tabacco, e sopra i ventagli, che avidamente erano comperati in «Merceria» dai forestieri, accusato il pievano di S. Matteo di Rialto, Nicolò Palmerino, di carteggiare coi principi esteri in rilevanti materie di Stato, giunse al punto, contraffacendone il carattere, di farlo condannare a perpetua prigionia. Ma dopo tre anni, durante i quali il misero prete fu più volte messo alla tortura, venne a scoprirsi la frode per mezzo, dicesi, di confessione fatta ad un frate, fratello del pievano, per cui questi fu scarcerato, e ricompensato, mentre il calunniatore nell'agosto dell'anno 1714 condannossi al capestro.

La «Calle di S. Matteo» è detta anche del «Manganer». Vedi Manganer (Calle del).

In parrocchia di S. Matteo di Rialto, «in volta a Corona», cioè nell'osteria del nome medesimo, testò il 25 marzo 1546 il pittore Lorenzo Lotto. Egli dispose di venir sepolto ai SS. Giovanni e Paolo senza alcun dispendio, essendogli ciò stato concesso da quei padri con carta 12 maggio 1542, in benemerenza di aver loro dipinto la pala di S. Antonino.

UP

S. Maurizio (Campo, Rio, Ponte, Fondamenta del Traghetto).
La chiesa di S. Maurizio fu eretta dalla famiglia Candiana, detta Sanudo, in tempi assai antichi, e dedicata ai SS. Maurizio e compagni, ed al martire S. Adriano. Dopo l'incendio del 1105 fu rifatta, e durò fino al 1590, in cui fu riedificata dai fondamenti, e consecrata. Nel 1795 architettossi nuovamente sopra disegno del patrizio Pietro Zaguri, e si compì nel 1806. Dobbiamo però il frontespizio al Selva, le porte e le finestre laterali al Diedo, il maggiore dei tre bassi rilievi superiori a Bartolammeo Ferrari, ed i due minori a Luigi Zandomeneghi. La chiesa di S. Maurizio conservossi parrocchiale fino al 1810, in cui divenne oratorio di S. Stefano.

Il «Campo di S. Maurizio» soleva essere magnificamente addobbato, a cura della confraternita degli Albanesi, il 15 giugno di ogni anno, poiché in quel giorno vi passava il doge col suo seguito per avviarsi alla chiesa dei SS. Vito e Modesto. Vedi San Vito (Campo ecc.).

Leggesi che nel 1391 il pievano di S. Maurizio Giacomo Tanto, essendosi posto d'accordo con Tommaso Corner d'uccidere un prete Giovanni, mansionario della chiesa di S. Marco, lo condusse in una casa situata a S. Apollinare in «Carampane», sotto pretesto di dargli «quartas vini malvatici pro dicendis totidem missis», e colà, ajutato dal compagno, lo trucidò. Ambidue poscia recaronsi in «Canonica», ove il defunto abitava, e derubarono tutti i di lui effetti. Scoperto il delitto, Tommaso Corner, assente, venne con sentenza 28 settembre 1392 condannato a perpetuo bando, ed il pievano «ad finiendam vitam suam in cavea suspensa ad campanile S. Marci in pane et aqua». Avvenne che la matrigna di quest'ultimo, d'accordo coll'uffiziale di custodia, mandasse al condannato «fugacias fabricatas, et pensatas cum nucibus, mandulis et zucari pulvere, ac fritellas, et alias confetiones, quibus produxit vitam in longum contra sententiam». L'uffiziale perciò perdette l'impiego, e buscossi un anno di ritenzione nei Pozzi. Pel supplizio della «Cheba» vedi Campanile (Calle del).

In «Campo di S. Maurizio», e precisamente di faccia la chiesa, abitava quella Francesca Michieli, vedova di Bernardo Vielmi, la quale, con due suoi figliuoli e colla fantesca, venne trucidata nel 1539 dal di lei nipote Pietro Ramberti, che poscia ne pose a ruba la casa. Il Ramberti perciò fu condannato alla pena capitale, accompagnata dai soliti tormenti, ma nella vigilia del giorno fatale, Lodovico fratello del condannato, volendo risparmiargli una morte tanto infamante e dolorosa, ottenne in grazia di potergli dare l'ultimo addio, e fingendo di abbracciarlo, gli pose in bocca una nocciuola ripiena di veleno sì fiero che in poco d'ora lo fece cadere esanime al suolo. L'esecuzione, ciò non ostante, ebbe luogo sopra il cadavere. Per maggiori particolari vedi le cronache del Barbo e dell'Agostini nonché le nostre «Condanne Capitali», operetta altrove citata.

A S. Maurizio abitava pure quel patrizio Marco Muazzo, il quale avendo antica ruggine, per affari di famiglia, con un proprio nipote, lo invitò a casa propria, e gli diede d'un pugnale nel petto. Fuggì il misero giovane, e per la porta della riva gettossi nel prossimo canale, ma il Muazzo, infellonito sempre più, e gettatosi in acqua pur egli, finì il nipote con molte ferite. Perciò venne bandito con sentenza contumaciale 22 giugno 1545.

In «Campo di S. Maurizio», al N. A. 2760, scorgesi un palazzo, fondato nel secolo XVI da un «Dionisio Bellavite fo di m. Polo», mercadante d'olio e farine, il quale commise a Paolo Veronese di dipingergli sul prospetto quattro storie colorate, e due a chiaro oscuro della storia romana: «Nella cima», così scrive il Ridolfi, «sono fanciulli posti a sedere sopra a festoni, e sotto alle finestre fece cartelle colorite e camei, e tra quelle, altre a chiaro scuro con satiri intorno, e sotto quelle dei mezzati, corazze e bellici strumenti pur a chiaro scuro. A' piedi, sopra a' modiglioni, sono due singolari figure finte di bronzo, che rappresentano la Prudenza e Minerva con rami d'olivo, e gambi di spiche in mano, per dinotare che dagli avanzi fatti d'olio e di grano il padrone haveva murata la casa». Ora poche tracce rimangono dell'opera di Paolo. Sembra che sopra l'area di questo palazzo sorgesse antecedentemente il campanile della chiesa di S. Maurizio poiché nelle «Condizioni della Diocesi di Venezia e Dogado», presentate nel 1564 ai «Soprastanti alle Decime del Clero», ritroviamo che il Bellavite pagava un livello alla chiesa di S. Maurizio pel campanile disfatto. Nel palazzo Bellavite, venuto poscia in mano dei Giavarina, dei Sora, d'un marchese Cavriani, degli avvocati Terzi e Cromer, e d'altri proprietarii, abitò il poeta vernacolo Giorgio Baffo, e vi morì nel 1768.

In un sonetto diretto a questo poeta, è scritto:

Quel Baffo che sta in Campo S. Maurizio,

Tra la chiesa e il famoso Cordellina,

Int'un palazzo che col ciel confina,

Del Sansovin magnifico edifizio.

Quanto al Cordellina, era egli un celebre avvocato che abitava in uno dei due palazzi contigui a quello ove abitava il Baffo, posseduti dalla patrizia famiglia Molin.

In parrocchia di S. Maurizio chiuse la sua mortale carriera nel 1597 l'architetto Antonio Da Ponte, le varie abitazioni del quale abbiamo avuto occasione di notare più addietro.

Riporta il Fontanini nella «Biblioteca dell'Eloquenza Italiana», ed anche il Codice 482, Classe VII della Marciana, intitolato: «Anni Emortuali di diversi Personaggi Distinti», che nella contrada di S. Maurizio morì il celebre Guarini, autore del «Pastor Fido». Ma, come osserva lo Zeno nelle annotazioni all'opera del Fontanini, tal fatto successe invece nella contrada di S. Moisè, annoverando quel necrologio parrocchiale fra i decessi il 7 ottobre 1612 l'«Illustre sig. Zambattista Guarini, Cavalier di Ferrara, di anni 74, da febre già giorni 17, visitato dall'Eccellentissimo Giarca». Leggesi bensì nelle «Inscriptiones Sepulchrales» (Classe XIV, Cod. 26, 27 dei Latini, presso la Marciana) che il Guarini fu sepolto a S. Maurizio «vicino alla porta che passa nella casa del Piovano, et è quella sepoltura che è chiusa coi ferri impiombati dopo il contagio del 1630, nè fu dopo più aperta per esservi stati posti in quel tempo degli appestati». Tale sepoltura più non esiste, ed al certo venne distrutta rifabbricandosi la chiesa.

UP

S. Moisè (Parrocchia, Campo, Salizzada, Rio, Ponte, Piscina).
Per quanto scrivono i cronisti, la chiesa di S. Moisè venne edificata nel 797 dalle famiglie Artigera e Scoparia, sotto il titolo di S. Vittore. Essendo però di tavole, già nel 947 accennava di cadere, per cui fu rifabbricata a merito specialmente di Moisè Venier, che volle dedicarla al santo del suo nome. Altra rifabbrica ebbe dopo l'incendio del 1105, e l'ultima finalmente nel 1682 sul disegno di Alessandro Tremignon. La facciata, straricca di marmi, che costò 30 mila ducati alla patrizia famiglia Fini, mostra il decadimento dell'arte, e minacciando rovina, fu nel 1878 ristaurata col toglimento d'alcune statue, che soverchiamente la gravitavano. La chiesa di S. Moisè era parrocchiale, ma nel 1810 divenne sussidiaria di S. Marco.

In parrocchia di San Moisè abitò il celebre pittore Giacomo Dal Fiore, come si scorge dal suo testamento fatto il 2 ottobre 1439, in atti d'Ambrogio Baffo, pievano di S. Polo. Egli, come avea prescritto, fu sepolto nel chiostro del monastero dei Santi Giovanni e Paolo, probabilmente nell'arca ove prima erano stati sepolti Francesco e Livia suoi genitori.

Avendo Ercole, conte di Montenero, ucciso un certo Chiodo presso la chiesa di S. Moisè, venne appiccato con quattro suoi soldati nel 1549.

In questa parrocchia morì il 5 agosto 1552 il francescano Matteo da Bascio, primo generale dell'ordine dei Cappuccini, e riposto fra i beati. In tale circostanza nacque fiera contesa tra il pievano di San Moisè, Baldassare Martini, ed i frati di San Francesco della Vigna, volendo il primo seppellire il defunto nella sua chiesa, nella loro i secondi. La vinsero quest'ultimi. Leggesi nei «Casi Memorabili Veneziani, raccolti dal N. U. Pietro Gradenigo da S. Giustina» che Matteo da Bascio soleva percorrere la città predicando, e riempiendola di rumori, e che un giorno nell'«ora di terza, quando sogliono i nobili assistere ai loro tribunali, fu veduto con una lucerna, ed un pennello camminare per le sale, come se cercasse qualche cosa perduta. Interrogato che facesse, rispose ― cerco la giustizia! ―» Perciò fu bandito a Chioggia, ma, reduce dopo due anni, «un giorno che si era congregato il Consiglio di XL al Criminale, si fece avanti intrepidamente e con voce orrenda esclamò: ― All'inferno tutti quelli che giustamente non amministrano la giustizia! All'inferno tutti i potenti, che per forza opprimono i poverelli! All'inferno tutti quei giudici che condannano gl'innocenti a morte! ―» Questa volta venne cacciato dalla sala, e l'avrebbe al certo passata male se non si fosse interposto il di lui amico Sebastiano Venier. Circa i miracoli attribuiti al B. Matteo da Bascio, vedi gli «Annali dei Cappuccini» del Boverio, ed anche il libro presente, ove si parla del «Ponte dell'Angelo», presso S. Marco.

Ritroviamo nei «Necrologi Sanitari»: «1591, 22 Luglio. La signora Veronica Francha de anni 45 da febre già giorni 20. - San Moisé». Sembra fuor di dubbio che costei sia la celebre letterata e cortigiana Veronica Franco, di cui abbiamo due testamenti, l'uno del 10 agosto 1564 in atti Anton Maria Vincenti, e l'altro del 1° novembre 1570, in atti Baldassare Fiume. Da questi testamenti risulta che era figlia di Francesco Franco e di Paola Fracassa, che era stata congiunta in matrimonio con un Paolo Panizza, che aveva procreato un figlio per nome Achille con un Giacomo di Baballi Raguseo, ed un altro, per nome Enea, con Andrea Tron del cl.mo m. Polo. Nel secondo testamento benefica «due donzelle da bon per il suo maritar, ma se si ritrovasse due meretrici che volessino lassar la cativa vita, e maritarsi, o monacharsi, in questo caso sia abrazado dette due meretrici, et non le donzelle». Dalla surriferita annotazione mortuaria, nonché dal primo testamento in cui Veronica dichiara di esser gravida, risulterebbe l'errore in cui cadde il padre degli Agostini, seguito dal Cicogna, calcolando, sopra la fede d'un'iscrizione unita ad un ritratto di Veronica, che essa vedesse la luce nel 1553, ovvero 1554.

Per questa donna, che, rinsavita, promosse l'erezione della Casa del Soccorso, vedi la nostra monografia col titolo «Veronica Franco» ecc.

Leggesi in un codice di casa Mocenigo: «Avvenne in questi giorni» (1598), «che Paolo Flessi, piovano di S. Moisè, e canonico di S. Marco, fu d'ordine del patriarca trattenuto in casa d'una meretrice. Pretese il doge appartenesse a sé il punirlo, e passata la materia al Senato, restò deciso che avesse il doge la patronìa sopra i suoi canonici, sicché fattosi portare il processo, depose il piovano, ed in suo luogo elesse il piovano di S. Giuliano».

Morirono in parrocchia di S. Moisè nel 1601 Cesare Vecellio pittore, e nel 1620 Giacomo Franco intagliatore in rame.

In parrocchia di S. Moisè abitò Giovanni Contarini, buon pittore, nato nel 1549 da famiglia cittadinesca veneziana. Egli andò alla corte dell'imperatore Rodolfo II, da cui venne fatto cavaliere. Passò quindi ad Inspruck, ma incolpato d'aver goduto una dama di quella corte, dovette ritornare in patria. Qui lasciamo le parole al cav. Ridolfi, che così si esprime nella vita del pittore suddetto: «Presa casa di nuovo in Venezia a S. Moisè, si diede a dipingere, e vestendo l'abito corto con spada al fianco e cappello ripieno di piume e collana d'oro al collo donatagli dall'Imperadore, incontrossi una fiata in Marco Dolce, Capitan grande di giustizia, che volle intendere con quale autorità portasse le armi, a cui Giovanni rispose ch'era cavaliere e di casa Contarina. Ma, a persuasione del Dolce, si dispose poi a cangiar l'abito, ed a vestir la toga veneta, e divenutogli amico, fece il di lui ritratto in piedi così naturale, che portatolo a casa, vi corsero incontro i cani ed i gatti, facendogli festa, credendolo il suo vero padrone». Lasciando al Ridolfi la fede di quest'ultimo asserto, diremo che il Contarini diede in Venezia saggi non pochi del suo valente pennello. Egli, dopo aversi invaghito d'una giovanetta, ed aver sofferto per essa incomodi e prigionia, morì nel 1605, essendo nel cinquantesimosesto anno di età.

Quanto al cav. G. Battista Guarini, anch'egli decesso in parrocchia di S. Moisè, vedi S. Maurizio (Campo).

Della «Calle Lunga S. Moisè» fa cenno il Cod. 58, Classe XI della Marciana, col seguente racconto, posto sotto il 16 agosto 1743: «Jeri sera in Calle Lunga S. Moisè, dando braccio alla N. D. Catterina Barbarigo il N. U. Nicoletto Gambara dalla Carità, urtò un barcarolo, dicendogli che desse luogo. Il barcarolo, o che non lo conobbe, o altro che si fosse, tratto tosto un coltello, gli aventò due colpi, dei quali uno lo colse, benché leggerissimamente, in un braccio. Non si è ancora saputo chi sia costui».

Altro avvenimento, successo in parrocchia di S. Moisè, è così descritto dalla cronaca Molin: «Adì 15 marzo 1751, la mattina fu trovata trucidata nel proprio letto la N. D. Vittoria Basadonna fu de s. Alvise da S. Giacomo dall'Orio. Essa N. D. era in casa del N. U. Bernardo Gritti q. Marcantonio in Calle del Tagliapietra per andar al Ponte di Ca' Barozzi, né mai si è potuto venir in cognizione dell'interfettore, e li furono rubate quella notte diverse argenterie, et un sacchetto di cecchini, ma fu supposto questo furto esser stato commesso solo per poner la giustizia in dubbio, perché potevano rubare comodamente assai di più».

Il giorno 26 maggio dell'anno 1752, durante un fierissimo temporale, insorto verso le nove del mattino, un fulmine colpì la chiesa di S. Moisè, e scendendo per la catena di ferro, da cui pendeva la lampada ardente dinanzi all'altare di M. V. Addolorata, uccise il prete Valentino Piva, che a quell'altare diceva messa, e la persona che alla medesima rispondeva.

In «Piscina di S. Moisè», nel 1782, 10 giugno, si vide precipitare dai balconi del casino del N. U. Pietro Donà, un fabbro, che si ruppe le gambe, e poco dopo morì, non senza prima aver detto che il Donà l'aveva fatto gettare in istrada dai proprii servi. Sotto tale accusa, questi ed il loro padrone furono il 17 settembre seguente citati in giudizio, ma il prete Zilli, che nelle sue «Memorie» manoscritte al Civico Museo ci racconta l'avventura, non ci fa sapere l'esito del processo.

In «Piscina di S. Moisè» era domiciliato il celebre Cicognara, autore della «Storia della Scultura».

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S. Nicoletto (Calle)
ai Frari. Narrano gli scrittori che, aggravato da fiera malattia, il patrizio Nicolò Lion, procuratore di S. Marco, quel medesimo che scoprì la congiura di Marin Faliero desiderò una notte di mangiar della lattuga, e che, non trovandosene altrove, attesa l'ora assai tarda, poté averne dall'orto dei padri di S. Maria Gloriosa. Riavutosi in breve con questa singolar medicina, fece in segno di gratitudine erigere presso all'orto medesimo una chiesa, ed un piccolo monastero, che si dissero di «S. Nicolò» o «S. Nicoletto della Lattuga», costituendoli nel 1332 in juspatronato dei procuratori di S. Marco «de ultra», ed accordandone poscia col suo testamento, fatto il 13 febbraio 1353 M. V., l'assoluto possesso ai suddetti padri di Santa Maria Gloriosa. Nel 1582 la chiesa di San Nicolò della Lattuga fu consecrata da Marco Medici vescovo di Chioggia. Nel 1743 un incendio consunse quasi tutto il monastero, il quale in breve risorse più bello di prima. Oggidì queste fabbriche vengono abbracciate dal nostro Archivio.

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S. Pantaleone (Parrocchia, Ponte, Rio, Campo, Salizzada).

S'ignora quando veramente sia stata fondata la chiesa di S. Pantaleone. Si sa soltanto che nel 1009, sotto il doge Ottone Orseolo, essa venne riedificata dalla famiglia Giordani. Rinnovossi nel 1222 dal pievano Semitecolo, e consecrossi nel 1305 da Ramperto Polo, vescovo di Castello, coll'intervento di due arcivescovi, e di altri vescovi. Minacciando però di cadere, fu d'uopo atterrarla nel 1668, e rialzarla in più consistente struttura sul modello di Francesco Comino. Compiuta nel 1686, ricevette nuovamente consecrazione nel 1745 per mano d'Alvise Foscari patriarca di Venezia.

Questa chiesa fu parrocchiale, a quanto sembra, fino dal suo nascere, ed aveva un esteso cicondario, che le fu notabilmente scemato nel 1810 per formare le parrocchie dei Frati, e di S. Maria del Carmine, e per ampliare quella di San Nicolò dei Tolentini.

Varii sono i pareri circa l'origine del nome di «pantaloni» attribuito ai Veneziani. Alcuni vorrebbero che essi fossero così detti pei molti individui che da principio portavano il nome di Pantaleone. Altri per corruzione di «pianta leoni», solendo i nostri piantare il leone, loro insegna, sopra le città, e terre conquistate. Altri ancora dal «pantalon» maschera caratteristica veneziana. Aggiungono questi ultimi, che, rappresentando la maschera suddetta un mercadante onesto, ma bonario, e quindi soggetto talvolta agli inganni, si volse coll'andar del tempo il nome di «pantalon» a titolo di scherno. Perciò leggesi in una cronaca manoscritta che, all'epoca della Congiura degli Spagnuoli, nel 1618, i promotori di essa andavansi vantando di potere con trecento uomini prendere d'assalto la Piazza di San Marco, e mettere in fuga «tutti questi pantaloni di Veneziani». Perciò la nostra plebe dà del «pantalon» per ingiuria, ed è tuttora vivo il detto: «paga pantalon».

A piedi dell'antico portico della chiesa di San Pantaleone, ora distrutto, sulla cantonata, fra la chiesa medesima, ed il palazzo Signolo, che, per testimonio del cronista Magno, nel 1549 stava in mano dei Loredan, e tuttora s'appella da questa famiglia, scorgevasi innestata nel selciato la celebre pietra del forte Mongioja in S. Giovanni d'Acri, o Tolemaide, portata a Venezia da Lorenzo Tiepolo. Narrasi che, essendo questo generale nel 1256 mandato contro i Genovesi che avevano posto a sacco il quartiere dei Veneziani in Tolemaide e parendo egli poco atto all'intrapresa, anzi, secondo il Magno, uomo «indormenzado», uno di ca' Signolo gli disse per ischerzo, prima che partisse, le seguenti parole, riportate dallo Scivos: «Se tu scaccerai Genovesi da Acri, portami una pietra di quelle fondamente!» Altri narrano che furono i di lui parenti a beffarlo in tal guisa, e ben poteva la famiglia Signolo patrizia essere a' quei tempi unita col Tiepolo in parentela. Ritornato adunque in patria Lorenzo, dopo aver vinti i Genovesi, e distrutto il forte Mongioja, ne portò seco una pietra, e la fece porre, come abbiamo detto, fra il palazzo Signolo, ed il portico della chiesa, «sulla cantonà», acciocché, scrive Daniel Barbaro, «colui che haveva la sua casa là per mezzo non andasse mai in chiesa che non la vedesse, et gli sapasse sopra». Il Magno e lo Scivos dicono che il Tiepolo vi fece scolpir sopra il «tondo» d'una bombarda, ed altri la figura della sua nave ammiraglia. Questa pietra esisteva nel sito in cui fu posta anche alla metà del secolo XVI, ma dalle parole del Sansovino nella «Venezia», sembra che ciò non s'avverasse più sulla fine del secolo medesimo. Crediamo poi del tutto erronea la tradizione popolare, la quale vorrebbe riconoscere la pietra suddetta in un macigno rotto in due, visibile oggidì presso la gradinata della chiesa di San Pantaleone, che non ha alcun indizio di scultura operatavi sopra, e che è tanto consimile agli altri macigni circostanti da poter appena essere distinto.

In parrocchia di San Pantaleone, come ricorda il Salsi nei suoi «Cenni storico-critici» sopra i pievani di quella chiesa, possedette un palazzo nel secolo XV il famoso Giorgio Castrioto, detto Scanderbeg. Questo palazzo, che poscia fu dei Molin, e che sorgeva presso la «Salizzata di San Pantaleone», al «Ramo Molin», apparteneva, prima dello Scanderbeg, alla famiglia Bertaldi, ed in esso abitò Jacopo Bertaldi pievano di San Pantaleone, ed eletto nel 1314 vescovo di Veglia, che fu il primo a dar luce e forma allo statuto veneto col lavoro, tuttora manoscritto, intitolato: «Splendor Consuetudinum Venetae Civitatis» (Classe V, Cod. 122 della Marciana).

In parrocchia di S. Pantaleone morì il 21 luglio 1565 il pittore Polidoro Veneziano, discepolo di Tiziano.

In parrocchia di S. Pantaleone abitava nel 1572 Danese Cattaneo da Carrara, scultore ed architetto, degno discepolo e seguace del Sansovino.

Nella medesima parrocchia abitava, e venne a morte la celebre letterata Lugrezia Marinella. Vedi Squellini (Campiello dei).

Vi chiuse finalmente i suoi giorni il 3 maggio 1743 improvvisamente Giovanni Caraffa napoletano, generale degli eserciti dell'imperatore Carlo VI. Lasciò erede un suo nipote di grande facoltà in danaro ed argenterie, che erano sepolte, come corse fama, in un luogo del regno di Napoli. Beneficò la chiesa di San Pantaleone, ove venne sepolto con epigrafe dettata dai fratelli Girolamo ed Anton Maria Zanetti, ma che passò sotto il nome di Domenico Benedetti, medico del defunto, ed incaricato di dettarla.

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S. Paternian (Calle, Ponte, Salizzada, Rio Terrà).
Raccontasi che la famiglia Andrearda fondò nel IX secolo una chiesa di legno in onore del vescovo S. Paterniano, la cui immagine era stata trasportata a Venezia dalla Marca d'Ancona, e veneravasi in un piccolo tabernacolo nella pubblica via. Questa chiesa fu tosto fatta parrocchia e dotata di beni stabili dal doge Pietro Candiano IV nel 959. In seguito ebbe a patire varii incendi nel 976, nel 1105, nel 1168, e nel 1437, ma sempre rialzossi, e si mantenne aperta fino al 1810, epoca in cui venne soppressa, e ridotta a magazzino. Nel 1871 finalmente atterrossi col suo antichissimo campanile, costrutto l'ultimo anno avanti il mille da alcuni operai veneziani, scappati dalla schiavitù dei Saraceni. In questo campanile appiccossi nel 1562 il sacrista della chiesa medesima, come nota il codice Cicogna 1724 colle parole: «Die 26 Martii 1562 suspendit se laqueo in campanile, et periit sacrista S. Paterniani».

Avendosi il 10 luglio 1631 riportato vittoria contro l'armata navale dei Turchi, comandossi che in tal giorno, sacro a San Paterniano, dovessero i musici della ducal basilica portarsi annualmente alla chiesa di esso Santo per cantare una messa solenne in ringraziamento dell'ottenuto beneficio.

In contrada di S. Paterniano abitò, e vuolsi eziandio che venisse a morte, il dottissimo Aldo Manuzio, il quale aveva aperto in sua casa la celebre accademia da lui denominata Aldina. Una epigrafe posta recentemente in «Rio Terrà S. Paternian», sul muro laterale del nuovo edificio ad uso della Cassa di Risparmio, ricorda Aldo e la di lui famiglia.

In «Calle di S. Paternian» abitava, come da altra epigrafe, Daniele Manin.

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S. Pietro (Parrocchia, Campo, Ponte di).
In questa situazione sorgeva anticamente una piccola chiesa fondata nel 650 dai Sammacali, detti poscia Caotorta, e sacra ai SS. Sergio e Bacco. Nel 774 rialzavasi in più ampia dimensione a cura, dicesi, di San Magno, e dedicavasi a San Pietro Apostolo. Compiuta, avea consecrazione nell'841 per mano del vescovo Orso Partecipazio. Dopo varie rifabbriche e ristauri veniva ingrandita con due nuove cappelle dal 1508 al 1524. Quindi il patriarca Vincenzo Diedo (eletto nel 1556) stabiliva di rinnovarla dai fondamenti, e aveva ordinato al Palladio il disegno. Senonché venuto a morte, rimase sospeso il progetto, che fu incominciato ad eseguire soltanto nel 1594 dal patriarca Lorenzo Priuli. Sotto di lui l'architetto Francesco Smeraldi, soprannominato Fracà, eresse la facciata della chiesa con picciola parte dell'interno. Finalmente Giovanni Grapiglia, dal 1621 in poi, diede compimento alla fabbrica per ordine del patriarca Giovanni Tiepolo. Sembra che tanto lo Smeraldi quanto il Grapiglia s'attenessero al primitivo disegno del Palladio, facendovi però qualche piccola modificazione. La chiesa di S. Pietro rimase cattedrale fino al 1807, epoca in cui tale onore passò alla basilica di S. Marco. Esercitò sempre diritti parrocchiali, e nel 1810 vide aumentato il proprio territorio d'una frazione della soppressa parrocchia di S. Biagio.

Il campanile di S. Pietro ebbe principio nel 1463, e fine nel 1474. La cupola venne rifatta nel 1670, ma ora manca del cupolino incendiato da un fulmine il 17 ottobre 1822. Il Moschini sulla base rilevò il resto d'un'iscrizione romana: Ennia P. L. Venerea Sibi Et... Il prossimo palazzo vescovile, e poscia patriarcale, sorse nel secolo XIII, ma venne rifabbricato nel XVI sotto il patriarca Antonio Contarini, ed ebbe anche posteriori ristauri. Dal 1807 serve alle truppe di Marina.

Ricordano le cronache che in «Campo di San Pietro di Castello» la famiglia Mastelizia, poscia Basegio, assalì il doge Giovanni Partecipazio, salito al soglio ducale nell'829, e rasigli i capelli e la barba, lo condusse, vestito da monaco, a Grado, facendo eleggere a di lui successore Pietro Tradonico.

Ma di ben più importante avvenimento fu testimone la contrada di cui parliamo nel secolo susseguente. Era costume dei Veneziani di benedire in chiesa di S. Pietro di Castello il 31 gennaio, anniversario della traslazione del corpo di San Marco, tutti i loro matrimonii, oppure, secondo altre cronache, i matrimonii soltanto di dodici povere donzelle, dotate a spese del Comune. Celebrandosi tal solennità sotto il doge Candiano II, eletto nel 932, o sotto il doge Candiano III eletto nel 942, un'orda di pirati, venuti dalle coste d'Istria, gettossi sulle spose, ed, unitamente al loro corredo nuziale, rapille, guadagnando il mare con rapida fuga. Il doge, secondato dai più valorosi fra i Veneziani, s'accinse ad inseguire i rapitori e raggiuntili la vigilia, oppure il giorno della Purificazione di M. V. in un deserto porto dell'acque Caprulane, ricuperò, dopo sanguinosa zuffa, le spose, e gli effetti involati. A ricordo di tale splendido successo, si stabilì che quel porto appellar si dovesse «Porto delle Donzelle», e che nella vigilia e nel giorno della Purificazione di M. V., il doge con la Signoria visitasse la chiesa di S. M. Formosa il cui titolare è appunto la Purificazione della Madre di Dio. Vi si volle aggiungere però solenne festività. Dodici donzelle, dette le Marie, superbamente vestite e di gemme ornate, trascorrevano tutti gli otto giorni precedenti la Candelaia, in ben addobbati palischermi i canali della città, accompagnate da suoni e da canti. Venuto poi il 2 febbraio, portavansi al ducale palazzo, donde col doge muovevano alla cattedrale di S. Pietro. Udita ivi la messa, si riducevano alla basilica di San Marco affine di ricevere le candele benedette, e poscia andavano alla chiesa di S. Maria Formosa. Pell'offerta, che il doge in quella circostanza doveva fare al pievano di S. M. Formosa, e pel dono che ne riceveva, vedi Bande (Ponte ecc. delle) e Casselleria (Calle di). La festa delle Marie, in cui fuvvi tempo che, invece delle 12 donzelle, figurarono l2 figure di legno, laonde tuttora dicesi per ischerzo «Maria de tola», o «de legno», a donna maghera, fredda, ed insulsa, terminò nel 1379, epoca della guerra di Chioggia, conservandosi soltanto la visita del doge nella vigilia della Purificazione alla chiesa di S. M. Formosa, la qual visita trasportossi per decreto 30 gennaio 1762 M. V. alla mattina della Purificazione medesima.

Nel medesimo secolo X Stefano Caloprini uccise in «Campo di S. Pietro di Castello» Domenico Morosini. L'inimicizia fra queste due nobili famiglie ebbe origine, come riferiscono le cronache, per ragione di donne. Stefano Caloprini, dopo l'avvenuto, fuggì co' suoi da Venezia, ma poscia vi ritornò ad intercessione della imperatrice Adelaide. Allora si rinfocolarono gli odii, e l'anno 991 i Morosini uccisero tre Caloprini, mentre ritornavano in barca dal palazzo ducale. La debolezza dimostrata dal doge Tribuno Memmo nel reprimere i due partiti fece sì che i Veneziani lo deponessero, e l'obbligassero a farsi monaco a San Zaccaria.

In Parrocchia di S. Pietro di Castello morì nel 1585 Giulio Superchi, arcivescovo di Caorle.

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S. Polo (Sestiere, Campo, Salizzada, Ponte, Rio).
I dogi Pietro e Giovanni Tradonico fondarono la chiesa di S. Paolo, volgarmente «S. Polo», nell'837. Non si sa che chiesa tanto antica abbia avuto nei secoli trascorsi alcuna rinnovazione, o ristauro, ed è forse perciò, come scrive il Cornaro, che da certi scrittori se ne attribuisce la fondazione a famiglie diverse, le quali soltanto l'avranno rifabbricata. Essa fu ridotta alla forma presente da David Rossi nel 1805. Ebbe compimento nel 1838, e poco dopo consecrossi dal patriarca Monico.

Il suo campanile venne finito per opera di Filippo Dandolo, procuratore della fabbrica, e sopra di esso scorgonsi due leoni, l'uno dei quali ha il collo avvinchiato da un serpente, e l'altro tiene fra le zampe una testa umana tronca dal busto, allusione, giusta alcuni, alla trama ed alla punizione di Marin Faliero, e, giusta altri, di Francesco Carmagnola. Quest'ultimi però non s'accorgono che il carattere dello scarpello accenna ad un'epoca alquanto anteriore alla morte dell'infelice generale.

La chiesa di «S. Polo» era anticamente parrocchiale, ma nel 1810 si ridusse a succursale di S. M. Gloriosa dei Frari.

Essendo successo in Venezia nel 1343, il giorno di S. Paolo, un fiero terremoto, che durò quindici giorni, nella quale occasione, secondo il Sabellico, seccossi il «Canal Grande», e caddero mille case, sorse il costume di chiamare il povero santo «S. Paolo dal terremoto».

Abbiamo memoria che Stefano Pianigo, pievano di S. Polo, e notajo al magistrato del Proprio, venne il 7 settembre 1369 privato di tutti gli ufficii e benefici, nonché multato in lire duecento perché indusse certa Cristina a sposare Nicoletto d'Avanzo col patto di giacere seco lei la prima notte. Punita fu pure la Cristina, la quale, sciolta la promessa al pievano, continuò anche in seguito la tresca. E punito finalmente fu il d'Avanzo «qui tam faetentibus nuptiis assensum praestitit». Vedi Gallicciolli, libro II, cap. XII, N. 1773.

Relativamente ad un altro pievano di S. Polo, cognominato Antonio Gatto, abbiamo nei «Notatorii» del Gradenigo i seguenti curiosi particolari. Un povero neonato abbandonavasi nel cuor della notte in una cesta in «Campo S. Polo» dalla crudeltà dei genitori. La cesta fu rovesciata da un gatto, ed ai lamenti del bambino, essa venne, sullo spuntare dell'alba, raccolta per ordine d'un gentiluomo, che colà presso abitava, e che fece educare il bambino, finché questi, fattosi adulto, percorse la carriera ecclesiastica col nome d'Antonio Gatto, divenendo nel 1563 pievano di S. Polo.

Fino da tempi antichissimi tenevasi in «Campo S. Polo» mercato più dì per settimana, ma poscia si stabilì di tenerlo soltanto il mercoledì. Caduta la Repubblica, surrogossi al mercoledì il sabato, giorno in cui antecedentemente tenevasi mercato in «Piazza di S. Marco».

Rammenta la cronaca dell'Agostini che, venuto a Venezia il 26 luglio 1450 un Francesco, discepolo di S. Bernardino, nominato fra' Santo, il quale soleva attirare alle sue prediche ben duemila ascoltatori, si pose un giorno a bandire la parola di Dio in «Campo S. Polo», e scagliandosi contro le mondane vanità, fece accendere un gran fuoco e bruciarvi una gran quantità «di drezze, franze, e drappi».

In «Campo S. Polo» eravi un bersaglio d'arco e di balestra, che venne rimosso nel 1452, avendo ciò ottenuto i nobili colà domiciliati in compenso dell'ospizio prestato nelle loro case ad Alberto duca d'Austria, venuto a Venezia coll'imperatore Federico III e col re d'Ungheria. Questo Campo, secondo il Sanudo, venne per la prima volta ammattonato nel 1494, ed allora vi si fabbricò il pozzo nel mezzo.

In «Campo S. Polo» si fecero varii spettacoli, fra cui il 14 febbraio 1497 M. V. una festa dei mercadanti fiorentini, mascherati, con giostre; il 21 gennaio 1503 M. V. una festa data da una compagnia della Calza, essendone signore Francesco Venier, con caccia di tori, colazione, e ballo sopra un solajo, intervento di molte dame, e fuochi durante la sera; il 10 giugno 1507 un pubblico ballo per le nozze d'Andrea Vendramin q. Giovanni; il 14 ottobre dell'anno medesimo una festa sopra un solajo con la rappresentazione della momaria intitolata: «Giasone alla Conquista del Vello d'Oro», per le nozze di Luca da Lezze con una figlia di G. B. Foscarini; nel 1644 una mascherata con gran pompa di vestimenti e di gioje, la quale fu mandata a levare con molte torcie all'Orologio, dopo essersi recata ai monasteri di S. Lorenzo e di S. Zaccaria.

In «Campo S. Polo», secondo il codice Cicogna 270, si fece nel 1510 una splendida mostra di soldati.

In «Campo S. Polo», secondo i «Diari» del Sanudo, predicò il 2 aprile 1511 frate Ruffin Lovato, minor osservante, contro gli Israeliti, dicendo che «saria bon tuorli tutto quello che hanno, e ponerli a sacco, perché questa terra è piena di Zudei fuziti qui». A richiesta però dei banchieri Anselmo e Vivian, presentatisi innanzi ai capi del Consiglio dei X, si prese parte d'ammonire quel frate, ed anche l'altro frate che predicava nel senso medesimo in chiesa di S. Cassiano.

Qui sorgono varii palazzi. A destra di chi viene da S. Apollinare scorgesi il palazzo Bernardo, poscia Maffetti, che venne dipinto esternamente dal Salviati, e che nel secolo trascorso fu rifabbricato sul disegno forse di Giorgio Massari. Quindi il palazzo archiacuto Soranzo, arricchito un tempo dagli affreschi del Giorgione. Quindi un avanzo dell'antico palazzo Donà con gotica porta, il cui archivolto è scolpito a lemnischi ed animali, opera del secolo XIII. Finalmente, girando, il palazzo Corner, ove, prima della sua rifabbrica, operata dal Sammicheli, abitarono molti illustri personaggi, come altrove abbiamo notato.

Abbiamo altrove raccontato che il 26 febbraio 1548 venne ucciso in «Campo di S. Polo» Lorenzino de Medici col di lui zio materno Alessandro Soderini. Ora daremo la particolarità di questo tragico fatto. E' noto come Lorenzino togliesse di mezzo a tradimento Alessandro dei Medici, duca di Firenze, la vigilia di Epifania dell'anno 1537, e come poscia, fuggitosi da Firenze, andasse a Venezia, di là a Costantinopoli, quindi a Parigi, e finalmente a Venezia ancora, perseguitato con gravissima taglia dal duca Cosimo, successo nel principato ad Alessandro. Aveva costui, per finire la sua vittima, stipendiato e mandato a Venezia il capitano Francesco Bibboni ed un Bebo da Volterra, i quali presero alloggio accanto Lorenzino, domiciliato allora in «Campo S. Polo» sotto il finto nome di messer Dario. Più volte tentarono i due sicarii d'ucciderlo, e specialmente un dì ch'egli era stato invitato a desinare da monsignor Della Casa, ed un altro che era andato a visitare «la bella Barozza», sua innamorata. Finalmente il 26 febbraio 1548 il Bibboni dalla bottega d'un calzolaio, donde si «scopriva tutta la piazza di S. Pavolo, ed in particolare il palazzo di Lorenzo», vide quest'ultimo «con un asciugatoio al collo pettinandosi e preparandosi» ad uscire. Corre tosto a chiamar Bebo, e, fatto impeto sopra Lorenzino e sopra il di lui zio Alessandro Soderini, usciti insieme di casa, li ferisce mortalmente ambidue, dopo di che col compagno si ricovra prima dal conte Felice Collalto, e poscia dall'ambasciatore spagnuolo, il quale li tiene celati per molti giorni e finalmente li fa accompagnare per barca in luogo sicuro. Noi abbiamo tratto questo racconto dalla relazione che del suo operato scrisse al duca Cosimo lo stesso Bibboni, relazione pubblicata dal cav. Carlo Morbio in appendice al volume VI delle sue «Storie dei Municipi Italiani», e pubblicata con più esattezza dal Cantù nelle sue «Spigolature negli Archivi Toscani». Il Segni («Storie Fiorentine») aggiunge che al momento dell'uccisione di Lorenzo accorse in «Campo di San Polo» la madre e fu in tempo di raccoglierne l'estremo respiro. Altri ci regalarono le notizie di tutti gli onori, e di tutte le ricompense largheggiate dal duca Cosimo agli assassini. I cronisti veneziani in quella vece tacciono di tutto, forse perché la Repubblica, per un riguardo al duca Cosimo, oppure all'ambasciatore spagnuolo, voleva chiudere un occhio, e far sì che fosse posta in dimenticanza l'avventura.

In bocca del «Rio di S. Polo», in «Canal Grande», annegaronsi la notte del 9 settembre 1642 il patrizio Renier Foscarini q. Pietro q. Renier e Bianca Giunta, di lui moglie, a cagione di fierissimo vento che rovesciò la gondola ove si trovavano.

Lungo il «Campo di S. Polo» correva una volta un rivo che venne interrato nel secolo trascorso. Ricorda il codice Cicogna 264 in data 21 giugno 1761: «In Campo S. Polo atterrarono il canale e disfecero li muri ch'erano d'intorno al d.to, e così fecero il campo assai spaccioso».

Chiuderemo col notare che in «Campo S. Polo», al N. A. 2172, abitava Adriano Balbi, lustro e decoro della moderna scienza geografica. Una lapide, posta per cura municipale, ne indica la casa.

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S. Pròvolo (Salizzada, Ponte, Rio, Campiello, Campo, Calle).
La chiesa di S. Procolo, volgarmente «S. Provolo», si crede fondata dai Partecipazi nell'anno 809, ovvero 814. Era sotto il juspatronato delle monache di S. Zaccaria, le quali, per propria maggiore tranquillità, vi avevano trasferito nell'830, o, come altri vogliono, nel 1107, la cura delle anime, delegandovi due cappellani. L'incendio del 1105, fra le altre chiese, divorossi anche questa. Ebbe qualche ristauro nel 1389, e nel 1646 si rifabbricò di pianta. Nel 1808 venne chiusa, e nel 1814 ridotta a privata abitazione, recante oggidì il N. A. 4704.

Pell'edificazione in pietra del «Ponte di S. Provolo» vedi Rasse (Calle delle).

Presso questo ponte, sul prospetto d'un casamento, che attualmente porta i N. A. 4620-4625, e che era di proprietà dei Michiel da S. Angelo, scorgesi un'immagine in marmo di M. V. con sottoposta iscrizione, donde s'impara che Antonio Visetti fece quel lavoro al momento della rifabbrica dello stabile, avvenuta nel 1737 dopo un grande incendio. Esso avvenne il 12 luglio 1735, ed avendo incominciato nella casa d'Antonio Biondini «droghier» di faccia la «Calle delle Rasse», consunse in breve tutti i fabbricati vicini.

Nell'antica parrocchia di «S. Provolo» abitava G. Giacomo Caroldo, secretario dei X e scrittore d'una cronaca veneta. Egli sostenne varie ambascerie, e dall'imperatore Massimiliano venne creato cavaliere e conte palatino. Morì circa al 1539.

Vi abitavano pure nel 1564 i due fratelli musaicisti Francesco e Valerio Zuccato in una casa delle monache di S. Zaccaria. Esse pure in quell'anno appigionavano una casa nella medesima parrocchia a Paolo Ramusio, letterato, nipote di quell'altro Paolo Ramusio, celebre giureconsulto ariminese, che il primo trapiantò la famiglia a Venezia nel 1458, e nel 1503 persuase Pandolfo Malatesta a cedere Rimini alla Repubblica, onde fu regalato di 600 campi non lungi da Cittadella, ove tuttora havvi una situazione detta corrottamente la «Ramusa».

In parrocchia di S. Provolo fece pure il proprio testamento il 4 giugno 1590, in atti Antonio de Cavaneis, Apollonio Massa, celebre medico veneziano, nipote di Nicolò, da noi altrove rammentato.

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S. Rocco (Salizzada, Campo, Sottoportico, Campiello).
La chiesa di S. Rocco s'incominciò nel 1489 sul disegno di mastro Buono, e nel 1508 si compì, e fu solennemente consacrata da Alerio, vescovo di Chisamo. Minacciando però di cadere, fu riedificata quasi del tutto nel 1725, per opera dello Scalfarotto, a cui s'ingiunse di conservare le tre cupole superiori, innalzate da m. Buono. La facciata doveva sorgere sul modello di Giorgio Fossati, ma invece venne eseguita sopra quello di Bernardino Maccaruzzi dal 1765 al 1771.

Avendo attribuito la Repubblica all'intercessione di S. Rocco la liberazione della peste che negli anni 1575-1576 afflisse Venezia, decretò che il giorno di questo santo fosse dichiarato festivo, e che la di lui chiesa venisse in tal giorno visitata dal doge coll'accompagnamento della Signoria, del Senato e del corpo diplomatico. Le principali cariche della confraternita chiamate «la banca», erano destinate ad accogliere i visitatori. Il Guardian Grande presentava al doge un mazzetto di fiori e gli si collocava d'accanto; il Sottoguardiano ne presentava uno pure agli ambasciatori ed alla Signoria, mentre altri confratelli ne dispensavano al seguito. Entrato il doge in chiesa ed approssimatosi all'altare maggiore, il cappellano della confraternita aveva il privilegio di celebrare la messa, mentre in tutte le altre occasioni tale diritto spettava al cappellano ducale. Terminata la messa, i serventi portavano sopra argentei bacini candele di cera in copia, che venivano ad ognuno distribuite, cominciando dal doge. Di là questi passava con la comitiva in una sala della confraternita per adorarvi le sante reliquie, e finalmente dopo aver diretto al Guardian Grande cortesi parole, se ne partiva e, fatta breve visita alla prossima chiesa dei Frari, rimontava ne' suoi «peatoni» dorati, restituendosi al palazzo ducale.

S. Rocco (Sottoportico)
a S. Stin. Da alcune case che, come dice il Dezan, e come scorgesi dallo stemma scolpito sul muro, appartenevano all'arciconfraternita di S. Rocco. Essa ne aveva comperate 14 il 19 aprile 1532 al prezzo di 1100 ducati dal «Mag.co Andrea Diedo», ed era obbligata di levare dagli affitti delle medesime ducati 20 per maritare due donzelle, secondo la disposizione di «Marchiò de Zuane». Poscia il 16 gennaio 1534 M. V. ne comperò altre 4 dalle «NN. DD. Maria e Daria Balbi q. Francesco», spendendo 600 ducati del lascito di «Z. Antonio dal Orese». Queste case vennero rifabbricate dalla scuola nel 1745, comperando un'altra casa dal N. U. «Polo Michiel Morosini».

L'arciconfraternita di S. Rocco possedeva pure parecchi stabili in parrocchia dell'Angelo Raffaele per avviarsi a S. Maria Maggiore, i quali da principio si davano «amore Dei» ai confratelli poveri, ed in seguito s'affittavano. Erano stati eretti sopra 520 passi di terreno, acquistati nel 1511 dal «N. U. Alvise Pisani», e sopra altri passi 35 acquistati dalla ditta medesima nel 1536 coll'impiego di 832 ducati. Perciò anche in questa situazione esisteva, come leggesi sulla muraglia, una «Corte S. Rocco», attualmente ridotta ad orto. Tuttora sopra la prossima «Fondamenta dei Cereri» havvi un'iscrizione del 1709, trasportata dalla corte suddetta, con cui vi si proibivano le caccie dei tori.

Dell'arciconfraternita di San Rocco parleremo altrove. Vedi Scuola (Calle a fianco ecc.) a S. Rocco.

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S. Samuele (Salizzada, Campo, Piscina, Traghetto).
La chiesa di S. Samuele, sacra nei primordii anche a S. Matteo, sorse nell'anno 1000 per opera della famiglia Boldù. Tanto dopo l'incendio del 1105, quanto dopo quello del 1107, ebbe una rifabbrica. Dopo sei secoli, minacciando rovina, tornò ad essere rifatta quasi di pianta nel 1683. Era parrocchiale, ma nel 1810 fu convertita ad oratorio sacramentale della chiesa di S. Stefano.

Circa la «Piscina di S. Samuel» sorse una questione nel 1290 fra Marco e Tomaso Bando ed i vicini, pretendendo gli uni che fosse di loro privata ragione e gli altri che fosse pubblica. La vinsero i secondi. Vedi «Cod. Pub.»

Leggiamo nelle «Raspe» che un'«Orsa», moglie d'uno «Zanin Diedo», essendo partito il di lei marito per Corfù, fece bottino di quanto eravi in casa e, abbandonati i propri figli, riparò dal pievano di S. Samuele, Francesco Carello, col quale commise adulterio. Perciò venne condannata il 27 luglio 1389 a finir la vita in prigione, ma poscia l'8 aprile 1393 ottenne in grazia la libertà. Di questo pievano Francesco Carello parla un'altra sentenza del 6 settembre 1391 colla quale condannossi a due anni di carcere ed a perdere la dote Lucia, moglie del N. U. Marco Barbarigo q. Maffeo, perché, scoperta adultera del Carello, aveva dato un addio alle soglie maritali.

Prescrive una legge del 20 marzo 1468 che, succedendo varie risse a mano armata, «in la contrada di S. Samuel su la strada maistra che va a dretura da S. Samuel a S. Stephano, e ciò dipendendo da quelle meretrixi, le qual non sono contente de star dentro in el suo luogo consueto antigamente, ma sono vegnude ad habitar in alcune case su la dicta calle maistra», prescrive, diciamo, essa legge, sotto pena «de lire diexe e scuriade venticinque», che dette meretrici non potessero abitare, o giammai fermarsi insieme, o con qualche uomo, «comenzando da la testa della calle stricta va la chiesa de S. Samuel fin al spicier de S. Stephano». Il luogo, ove a San Samuele le meretrici avevano postribolo, era la calle poscia detta «delle Muneghette», postribolo che di là fu rimosso nel 1483, per concessione fatta alla Scuola di San Rocco.

La parrocchia di S. Samuele è celebre per le memorie di varii artisti. In essa, secondo il Cadorin, soggiornò l'architetto Bartolammeo Buono II, e nello stabile medesimo Tiziano Vecellio tenne i modelli delle proprie pitture. V'abitavano nel 1521 gli scultori Giulio, Tullio ed Antonio Lombardo. Vi nacque nel 1555 Modesta da Pozzo, letterata veneziana. Sante Lombardo vi morì il 16 maggio 1560. Vi tenevano soggiorno nel 1580 Girolamo Campagna, e nel 1583 Paolo Caliari, detto il «Veronese», in una casa dei cognati Lorenzo Zecchini e Giulio Girardi. Paolo vi cessò di vivere il 19 aprile 1588 per febbre acuta, presa nell'intervenire la seconda festa di Pasqua ad una solenne processione. In parrocchia di San Samuele cessarono pure di vivere Benedetto Caliari, fratello di Paolo, Carlo e Gabriele suoi figli, nonché Giuseppe, figlio di Gabriele, pittori tutti, l'ultimo dei quali, per attestato del Ridolfi, conservava nella sua abitazione di S. Samuele i dipinti dei propri ascendenti. V'abitava nel 1630, e precisamente nella «Salizzada», il pittore Girolamo Pilotto q. Andrea seguace del Palma. Vi morì Carlo Ridolfi pittore, e biografo dei pittori. Abbiamo nei necrologi sanitari: «5 settembre 1658: Il sig. Cavalier Carlo Ridolfi d'anni 64 amalato giorni 19 da febre dopia terzana contin.te medico Alberici, fa sepelir sua consorte - S. Samuel». Egli fu sepolto in S. Stefano. Aveva fatto testamento in atti Giorgio Stefani fino dal 1° aprile 1657. Nella medesima parrocchia finalmente chiuse i suoi giorni il 18 ottobre 1687 il pittore Pietro Liberi, che colà si aveva fatto erigere quel palazzo oggidì conosciuto sotto il nome di Morolin.

A S. Samuele vide la luce il famigerato Giacomo Casanova, il quale, fuggito dai «Piombi», in cui era stato rinchiuso il 25 luglio 1755, scrisse in Boemia nel 1787 il libro intitolato: «Histoire de ma fuite des Prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs». Vedi anche i «Mémoires de Jacques Casanova de Seingalt», da lui composti.

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S. Scolastica (Corte)
ai SS. Filippo e Giacomo. Sorgeva qui presso un'antica chiesa sacra a S. Scolastica, fondata dai Cacodrizzi, che bruciò, secondo il Dandolo, nel 1105, ma poscia venne rifabbricata, e sottoposta ai monaci di S. Felice d'Ammiana. Essa formava parte del monastero dei SS. Filippo e Giacomo, ed ignorasi quando fosse distrutta. Sopra la sua area edificossi in seguito un piccolo oratorio sacro alla medesima Santa, che nemmen esso al presente sussiste.

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S. Sebastiano (Ponte, Rio, Campazzo).
Fra' Angelo di Corsica ascritto alla Congregazione di San Girolamo, fondata dal beato Pietro Gambacorti da Pisa, venne poco dopo il 1393 con alquanti suoi compagni da Rimini a Venezia, e fabbricò nel sito di cui ora si favella un ospizio. Nel 1396 vi sorse accanto un oratorio sotto il titolo di «S. Maria piena di grazia e di giustizia», a merito specialmente di fra' Giovanni da Ravenna, e del sacerdote Leonardo Pisani, nobile veneto. Nel 1455 l'oratorio trasformossi in una chiesa più ampia, dedicata al martire S. Sebastiano, la quale ebbe il suo compimento nel 1468. Nel 1470 i padri istituirono anche una scuola sotto l'invocazione del medesimo santo. La chiesa attuale però non incominciossi che nel 1506 con disegno dello Scarpagnino, e venne terminata nel 1548, e consecrata nel 1562 da G. Francesco de' Rossi, vescovo di Aura, od Auria, in Tracia. Nei primi anni del secolo presente si concentrarono nel convento di S. Sebastiano i padri della Vittoria di Verona, e la chiesa ufficiossi da regolari fino al 1810, in cui, soppressa del tutto la Congregazione, divenne succursale dei SS. Gervasio e Protasio. Il convento venne in seguito in gran parte demolito, ma nel 1851 ebbe una rifabbrica per introdurvi la sezione femminile dell'Istituto Manin, sotto la direzione delle Figlie di S. Giuseppe.

Qui, secondo la tradizione, visse per alcun tempo prigione Paolo Caliari, detto il «Veronese», chi narra per aver offeso un potente, chi per aver ucciso un insultatore, chi per altra cagione. La storia però non offre alcun documento in proposito. Sappiamo soltanto che il «Veronese» decorò copiosamente col proprio pennello la chiesa di S. Sebastiano, e che, venuto a morte, in essa ebbe la tomba.

Racconta il Codice 80, Classe XI della Marciana: «1615 feb. S. Pietro Vitturi, q. s. Z. Batta, fu di notte a S. Sebastiano, mentre se ne andava a casa, con un'archibugiata ucciso, et fu detto esser stato un suo prete di casa». Il fatto è raccontato dal Codice 481, Classe VII, colle seguenti varianti: «1614. Pietro Vetturi, q. Z. Batta, amazzato di notte a S. Bastian con sospetto che fosse partecipe Cat.a Marcello sua moglie».

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S. Severo (Ponte, Rio, Fondamenta, Campo).
La chiesa di S. Severo vuolsi eretta dalla famiglia Partecipazia nell'820. Era sotto la dipendenza delle monache di S. Lorenzo ed indarno più fiate tentò di emanciparsi. Divorata dalle fiamme nel 1105, fu riedificata e più tardi ristaurata. Ufficiavasi da 4 cappellani, i quali aveano cura delle anime uno per settimana. Nel 1808 venne chiusa; servì per qualche tempo a ricovero dei lavoranti della Casa d'Industria di S. Lorenzo, e poscia ad officina di falegname. Finalmente nel 1829 atterrossi, e sopra la sua area si eressero le carceri politiche.

Assai nominata nell'antiche carte è la «Battuta di S. Severo», che, secondo alcuni, prese il nome dal battere che facevano le onde sopra un argine vicino, ma, secondo altri, dal concorso del popolo solito a frequentare questo sito per portarsi ai mercati di Olivòlo o Castello, essendo un tempo stretta ed incomoda la «Riva degli Schiavoni».

Narrano le cronache che presso la chiesa di S. Severo ritirossi, colla moglie, Giustiniano, figlio del doge Angelo Partecipazio, reduce da Costantinopoli, quando, sdegnato col padre, che aveva eletto per compagno al trono il figlio minore, non volle abitare nella ducale residenza.

Parlando il Magno del celebre incendio del 1105, dice che esso ebbe origine nella «caxa de cha Zancani da S. Severo, et brusò la contrà, andò a S. Lorenzo et passò a S. Provolo, et a sancta M. Formosa brusando, et scorse a S. Zuane Nuovo, a S. Zulian e S. Basso atorno la piaza fino a S. Zeminian, a S. Moisè, a S. Maria Zobenigo, dove per il gran vento passò il Canal le falive, et empiò fuoco a S. Gregorio, a santa Agnese, a S. Trovaso, a S. Barnaba, a S. Basegio, passò a S. Rafael, a S. Nicolò dei Mendigoli, et anchor da S. Maria Zobenigo, scorse a S. Moritio, a S. Paternian, a S. Lucha, S. Vidal, S. Samuel, in modo che, a parte a parte, si bruzò una gran parte de Venetia».

In parrocchia di S. Severo abitava (come da lapide posta recentemente presso il Ponte) Marino Sanudo «Torsello», storico e viaggiatore insigne del secolo XIV.

In parrocchia di S. Severo eravi pure la casa dell'architetto Calendario nella quale venne arrestato, avendosi reso complice del doge Marin Faliero.

Per una singolare coincidenza poi abitava nella medesima parrocchia la vedova del Falier. Ciò è provato dall'estimo del 1379, e dal testamento della Falier, fatto il 14 ottobre 1384, e consegnato il 18 marzo 1385 al notajo Pietro Spirito. Esso incomincia: «Io Aluyca Falier de qua indriedo dogaressa de Venexia, relicta de misser Marin Falier de qua indriedo doxe de Venexia, nasuda dal nobel homo misser Nicolò Gradenigo, al presente abitatrise in la contrada di S. Severo» ecc. Questo testamento (donde apprendiamo che la Falier non era uscita, come fin qui si stimava, da casa Contarini, ma da casa Gradenigo) è quello che credesi ritenuto valido e pubblicato, poiché gli «Avogadori di Comun», a petizione di Giorgio Giustinian, e di Nicolò Contarini, che si dichiararono danneggiati, annullarono un altro testamento posteriore, che la Falier, già scema di mente, aveva consegnato nel 1387 al notajo Leone, quantunque i medesimi Giustinian e Contarini avessero tentato di far annullare eziandio il testamento dello Spirito, e di far dichiarare valido soltanto un altro testamento anteriore del notajo Guglielmo de Chiarutis. Vedi quanto scrisse il ch. commendatore Bartolomeo Cecchetti nel Vol. I dell'«Archivio Veneto». Qui aggiungiamo che nel codice della raccolta Cicogna 2929, intitolato: «Registro di testamenti che si conservavano nella Cancelleria Inferiore», se ne trova registrato uno di «D. Alvisa Falier Ser.ma Dogaressa» in atti di Pietro Grifon coll'anno 1394.

In «Campo di S. Severo» sorge palazzo Priuli, fondato da Giovanni Priuli q. Costantino q. Lorenzo, morto nel 1456. Questo palazzo era decorato da molte pitture di Giacomo Palma «il vecchio», che, secondo il Sansovino, v'abitò lungamente, favorito, com'era, dalla nobile famiglia proprietaria.

In esso esisteva un simulacro di tutto tondo, rappresentante la Vergine col bambino in braccio, seduta sopra una cattedra avente sulla spalliera due angeli collo stemma Priuli nel mezzo. Questo simulacro venne disegnato dal Grevembroch nelle sue «Varie Venete Curiosità sacre e profane», ora nel Civico Museo.

In parrocchia di S. Severo morì Francesco Alunno da Ferrara, matematico, provvigionato dalla Veneta Signoria, ed autore della «Fabbrica del mondo», nonché d'altre opere. Leggesi nei Necrologi Sanitarii: «1556. XI novembre. M. Pre' Francesco Alunno dalla Scuola della Procuratia provvisionato, ammalato di febre, in nota ai 2 di ottobre - S. Severo». L'Alunno abitava in una casa delle monache di S. Lorenzo, che esse gli aveano dato a pigione il 12 ottobre 1553 per annui ducati venti.

In parrocchia di S. Severo, ove stanziava, pagò il tributo alla natura, il 17 febbraio 1585 M. V., Gio Batta. Peranda, filosofo e medico insigne. Eccone l'annotazione mortuaria: «Addì 17 feb. 1585. L'ecc.te M. Gio Batta. Peranda fisico da sette ferite già g.ni 22, d'anni 52 - S. Severo». Egli veramente aveva riportato tali ferite la sera del 22 gennaio 1585 M. V. mentre ritornava dalla visita d'un ammalato, al «Ponte della Madonna di S. Lorenzo» (ora dei «Greci») per opera di Alvise Foscarini q. Nicolò, che il 29 del mese medesimo venne bandito da Venezia. La moglie Laura Foscarini eresse al Peranda un monumento in chiesa del SS. Sepolcro, con busto, opera del Vittoria, oggidì trasportato nel chiostro del Seminario della Salute.

Vi morì pochi anni dopo Giuseppe Zarlino, maestro della Cappella di S. Marco, in un'altra casa delle monache di S. Lorenzo: «Adì 4 febraro 1590. è morto il R.do M.o p. Isepo Zarlin capelan de S. Severo, de età d'anni 69, ammalato de mal de gotta et catarro da tre mesi». Ed in margine: «M. de Cap. de S. Marco» (Necrologio parrocchiale). Lo Zarlino, nato a Chioggia nel 1517, passò nel 1531 a Venezia, ove percorse la carriera ecclesiastica. Discepolo dell'insigne Adriano Willaert, venne eletto nel 1565 a maestro della Cappella di S. Marco. Presiedeva ai concerti musicali che si davano in casa del Tintoretto, e Marietta, figliuola del Tintoretto, ne studiava ed eseguiva le composizioni. Il Caffi lo chiama «Apostolo della Musica». Se ne trova il testamento fra quelli rogati dal notajo Nicolò Doglioni, in data 3 febbrajo 1589 M. V.

In capo della «Fondamenta S. Severo», e precisamente nel palazzo al N. A. 5136, nacque nel 22 aprile 1610 il veneto patrizio Pietro Vito Ottobuono, che nel 6 ottobre 1689 venne assunto al soglio pontificio, e che morì nel 1° febbraio 1691. Di tutto ciò esiste tuttora una memoria incisa in pietra nera, a caratteri d'oro, in una stanza. Marco, padre del pontefice, unitamente ai propri fratelli Pietro ed Antonio, aveva comperato questo palazzo, con istrumento 23 giugno 1597, in atti Fabrizio Beaziano, da Troilo e Sertorio fratelli Altan, fabbricatori e negozianti di panni, i quali poco tempo prima, con istrumento 11 agosto 1594, in atti Federico e Giovanni Figolino, l'avevano acquistato dalla famiglia Donà, a cui, fino da tempi antichi, apparteneva, come poteva scorgersi dai due scudi gentilizi, fiancheggianti il bassorilievo della porta, che ora sono scarpellati, ma che rappresentavano lo stemma Donà, e che si scorgono incisi nelle «Curiosità» del Grevembroch, da noi altrove citate. L'edificio di cui trattiamo fu la sera del 2 settembre 1726, sì nell'interno che all'esterno, splendidamente illuminato per ordine del cardinale Pietro Ottobuoni, pronipote di papa Alessandro VIII, che, venuto a Venezia, fece cantare una Pastorale nel sottoposto «Rio di S. Severo». Estinta la famiglia Ottobuono, passò in varie altre ditte, e negli ultimi tempi era posseduto dalla chiesa di S. Zaccaria.

In questo palazzo morì il 5 marzo 1772 Giovanni Colombo Cancellier Grande.

In contrada di S. Severo, per ultimo, cessò di vivere Vincenzo Scamozzi il 7 agosto 1616. Egli nel principio del suo testamento disse di farlo «nel letto, in casa di mia abitazione, in contrà di S. Severo».

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S. Silvestro (Parrocchia, Campo, Rio Terrà, Fondamenta ora Rio Terrà, Sottoportico, Traghetto).
Il leggersi che Vittore, figlio del doge Orso I Partecipazio, salito nell'884 al patriarcato di Grado, era sacerdote di S. Silvestro, dà a divedere che questa chiesa esisteva anche prima di quell'epoca. Essa, giusta il Sansovino, venne fondata dalla famiglia Giulia, ossia Andrearda, e con altre chiese filiali obbediva ai patriarchi di Grado, i quali posero la loro sede in un prossimo palazzo quando nel secolo XII furono costretti, pell'insalubrità dell'aere, e lo scemamento degli abitanti, ad abbandonare Grado, e ricoverarsi a Venezia. La chiesa di S. Silvestro si rifabbricò, come scrive il Cornaro, nel 1422, e nel 1485 vi si incorporò il prossimo oratorio degli Ognissanti, consecrato nel 1177 da papa Alessandro III. Ebbe un altro ristauro nel secolo XVII, senonché, minacciando nuovamente di cadere, fu quasi rialzata di pianta dal 1837 al 1843 sul disegno degli architetti Santi e Meduna, riaprendosi il 24 decembre di quest'ultimo anno.

Benché manchino documenti intorno all'istituzione della parrocchia, essa è certo molto antica, e forse contemporanea alla chiesa. Nel 1810 si allargò la sua periferia, aggiungendovi i circondarii di S. Giovanni Elemosinario e di S. Matteo con parte di quelli di S. Apollinare e di S. Cassiano.

A S. Silvestro abitava quel Vendrame, o Beltrame, pellicciajo, che scoprì la congiura di Marin Faliero, ma che poscia, credendo d'essere male rimunerato, uscì in sediziose parole, ed in minacce contro il governo. Egli perciò venne confinato per anni 10 a Ragusi, ma fuggitosi in Ungheria, vi ritrovò la morte per mano, dicesi, d'alcuni complici di Marin Faliero che colà si ritrovavano.

Il palazzo dei Patriarchi di Grado, più sopra accennato, sorgeva presso il «Sottoportico di S. Silvestro» verso «Canal Grande». La precisa situazione di questo palazzo, ove abitò il Carmagnola prima che gli fosse donato il palazzo Leon a S. Eustachio, ci viene additata da una proposta fatta nel 1321 dai Capisestieri per iscavare il rivo, ora interrato, di S. Silvestro, ove è detto che esso faceva capo in «Canal Grande fra il Fontico del Frumento ed il Patriarcato».

In una casa sita in «Campo di S. Silvestro» abitava il celebre pittore Giorgio Barbarelli, detto il Giorgione. Per attestato del Ridolfi, egli dipinse il prospetto di questa sua casa con alcuni affreschi, ora perduti. E qui ci ricrediamo di quanto, sulla fede di altri scrittori, abbiamo detto nelle due prime edizioni delle «Curiosità Veneziane», che Giorgione cioè abitasse nel palazzo Valier di faccia la porta maggiore della chiesa di S. Silvestro, e che di lui sieno gli affreschi dei quali tuttora rimane qualche traccia sulle muraglie, mentre, come c'insegna il Boschini, essi furono opera di Taddeo Longhi.

Il Giorgione nacque nel 1478 a Castelfranco nella Trevigiana, e recatosi giovanetto a Venezia fu discepolo di Giovanni Bellino, condiscepolo di Tiziano, e maestro di Giovanni Antonio Regillo da Pordenone. Essendo ancora in fresca età, morì nel 1511 per sifilide contratta da una Cecilia sua amica, o, come altri dicono, pel dolore che l'amica medesima gli fosse stata rapita dal di lui scolaro Morto da Feltre. Tanto questa donna preoccupavalo, da ritrarla, come è fama, nella Vergine posta in mezzo della stupenda palina eseguita per Castelfranco, e da scrivere un giorno dietro la tavola mentre stava dipingendo:

Cara Cecilia

Vieni, t'affretta

Il tuo t'aspetta

Giorgio Barbarella

Nacque in parrocchia di S. Silvestro il 16 aprile 1703 la poetessa Luisa Bergalli, moglie del conte Gasparo Gozzi.

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S. Simeone Grande (Parrocchia, Campo).
La chiesa di S. Simeon Profeta appellasi volgarmente di «S. Simeon Grande» per distinguerla dall'altra, poco lontana, dedicata ai SS. Simeone e Giuda Apostoli, la quale anticamente era di più piccola dimensione, e perciò prese il nome di «San Simeone Piccolo». La chiesa di S. Simeone Profeta venne fabbricata nel 967 dalle famiglie Ghisi, Aoldo, e Briosi, ma ebbe nei tempi successivi più d'una rifabbrica. Avendosi in essa, durante il contagio del 1630, sepolto un appestato, il Magistrato alla Sanità condannò il parroco a ricoprire il vecchio pavimento con uno di nuovo. Questo però nel 1860 fu tolto, e ricomparve il pavimento antico co' suoi sigilli sepolcrali. Quindi si diede mano ad un ristauro della chiesa medesima col rinnovarne il prospetto, che porta in fronte l'anno 1861. Per questa chiesa vedi l'opuscolo del Cappelletti col titolo: «La chiesa di S. Simeone Profeta. Venezia, Fontana, 1860». La parrocchia, contemporanea alla fondazione della chiesa, dilatossi nel 1810 con altre finitime contrade.

In parrocchia di S. Simeone Profeta abitava quel Francesco Fontebon, o Fantebon, che, sebbene complice della congiura di Bajamonte Tiepolo, venne graziato. Non per questo egli cessò dallo sparlare contro il governo, dicendo che con 200 uomini gli bastava l'animo di prender la «Piazza», e che, se le cose si facessero due volte, s'avrebbero fatte bene. Soleva di più girare la notte chiedendo a quanti incontrava se fossero Guelfi o Ghibellini, ed alcuni, da lui odiati, ammazzava. Giunse finalmente a tale da rompere la colonna d'infamia posta per ordine pubblico ove sorgevano le case di Bajamonte. Per tali colpe fu punito col taglio d'una mano, coll'accecamento e col bando.

In «Campo di S. Simeon Grande» havvi tuttora un ospizio per povere, fondato dal N. U. «Pietro Morosini» fu di ser «Zuane». Sul prospetto scorgesi lo stemma Morosini «dalla tressa» con iscrizione.

Nel supplemento 27 novembre 1621 al «Giornale delle Cose del Mondo avvenute negli anni 1621-1623» leggiamo: «Questa notte a S. Simeon Grande seguì grand'incendio, sendosi abbruggiate 6 case di ragione del Capitolo di Santa Fosca ch'erano habitate da quei Tesseri di pani, sendosi abbrugiato un bambino di 5 anni».

Ci rende istrutti il Gallicciolli che il 18 marzo 1795 cadde un pezzo di soffitto della chiesa di S. Simeone Grande, accoppando quasi la N. D. Lucrezia Cappello.

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S. Simeone Piccolo (Fondamenta, Campo).
La ragione per cui la chiesa dei SS. Simeone e Giuda Apostoli chiamossi di S. Simeon piccolo si spiegò colà ove si parlò di S. Simeon Profeta, soprannominato «Grande». Essa sorse nel secolo IX a merito delle famiglie Aoldo e Brioso. Ebbe in seguito vari ristauri, come provarono tre pavimenti di forma e materia diverse, ritrovati allorquando nel 1718 si distrusse per rinnovarla dai fondamenti sul disegno di Giovanni Scalfarotto, che volle imitare il Panteon di Roma. La prima pietra della nuova fabbrica fu posta nel 1720, e n'ebbe gran merito il pievano G. Battista Molin, detto «Mamera», il quale, per coadiuvare all'intrapresa, fece un lotto, ad un «traro» al bollettino, coll'estrazione di 14 grazie all'anno. Questi è probabilmente quel pievano di S. Simeon Piccolo, che il Fontana, nel suo «Manuale ad uso del Forestiere in Venezia», credette inventore del pubblico lotto. La chiesa di S. Simeon Piccolo fu consecrata il 27 aprile 1738 ed era parrocchiale, ma nel 1810 divenne sussidiaria di S. Simeone Profeta.

Antichissime sono le memorie di casa Foscari in parrocchia di S. Simeone Piccolo, ed anzi vuolsi che vi sia nato il doge Francesco. Certamente un palazzo Foscari di stile archiacuto, collo stemma sopra la porta della riva, esiste tuttora prossimo al Caffè dell'«Altanella» sul «Canal Grande». Il palazzo però, che in questa parrocchia si conosce più comunemente sotto il nome di Foscari è quello sulla «Fondamenta» vicino alla «Calle Lunga». Il Priuli lo dice fondato da Marco Foscari, fratello del doge, che morì nel 1467. Fu celebre per le varie feste che, secondo il Sanudo, vi si celebrarono, in occasione delle quali soleva unirsi, mediante un ponte di legno, la «Fondamenta di S. Simeon Piccolo» coll'opposta di «S. Lucia». Ebbe poi una rifabbrica, e tuttora vi si scorgono sui muri esterni alcune tracce degli affreschi di Lattanzio Gambara, rappresentanti il Ratto delle Sabine ed altri fatti romani.

Accanto al palazzo Foscari si scorge un'altra casa, ai N. A. 711, 712. Sopra la prima porta di questo edificio, sorto nel secolo XVI, venendo dalla così detta «Calle Lunga», leggesi la seguente iscrizione:

has o lector aedes ex humili

jamque collabente domo col-

legio et fabricae divorum si-

monis et judae a lucia adolda

quondam legatas aere proprio

victor spera in ampliorem hac

quam vides formam reposuit.

huiusce rei nolui te ignarum. vale.

m d x x .

Tale iscrizione è scolpita sopra un marmoreo cartello, tenuto da due figurine in abito talare, rappresentanti i due apostoli Simeone e Giuda, la prima delle quali ha presso un'arma gentilizia, consistente in un uccello in mezzo ad una fascia, e la seconda una piccola nicchia, ora vuota. Dall'iscrizione apprendiamo come il fabbricato venne dato in dono da Lucia Adoldo alla chiesa dei Santi Simeone e Giuda, e come essendo esso cadente, venne riedificato in forma più ampia da Vittore Spiera nel 1520.

Di ambedue le nominate famiglie, che abitavano in questo circondario, parlano le cronache nostre. Gli Aoldi, Adoldi, ovvero Adoaldi, vennero dalla Grecia, ed ottennero il veneto patriziato. Erano padroni dell'isola d'Andro, e di metà di quella delle Sercine, la qual metà Nicolò, ultimo della famiglia, vendette ai Michiel. Egli morì nel 1432, e nel 1481, in premio delle sue beneficenze, ebbe una memoria in chiesa dei SS. Simeone e Giuda, oppure, come altri vogliono, in quella di S. Simeone Profeta, alla fabbrica di ambedue le quali avevano concorso i di lui antenati. Lo stemma degli Adoldi consisteva appunto in quella fascia caricata da un uccello, che, come abbiamo detto, scorgesi scolpita presso la prima delle due figurine rappresentanti gli apostoli Simeone e Giuda.

Quanto alla famiglia Spera, o Spiera, essa era d'origine germanica, e quantunque non arrivasse agli onori del patriziato, tenne posto distinto nella cittadinanza. Il Vittor Spiera dell'epigrafe aveva contratto matrimonio con una figlia di G. Francesco Foscarini, e costrusse nel 1525 una tomba per sé e suoi in chiesa dei SS. Simeone e Giuda. Né dubitiamo che la nicchia vuota, prossima alla seconda delle due figurine rappresentanti gli Apostoli, sia la situazione ove un tempo esisteva lo stemma della di lui famiglia.

Senza troppo soffermarci sopra il motto: In Deo Spera, visibile sopra un balcone di mezzo, veniamo ai distici seguenti onde è fregiata la terza porta:

nutrices fuimus pueri et pia cura relicti

qui vir mox nobis haec monumenta dedit.

indole de illius spes nobis creverat ingens,

hanc tamen excessit, nomen et inde tulit.

nam quia spem vicit victor cognomine spera est.

in nos, in divum templa benignus opum.

proin quicunque legis nobis gratare, polique

adscribas donis quae rata vota cadunt.

Anche questi distici sono scolpiti sopra un cartello di marmo tenuto da due figurine di sesso femminile, l'una delle quali ha in mano un compasso, e l'altra un orologio a polvere. Potrebbe sembrare, a prima vista, che esse rappresentino due donne reali, a cui si dovesse l'educazione dello Spiera, ma gli strumenti che hanno seco le farebbero credere in quella vece due donne simboliche, e probabilmente le arti educative.

Terminiamo col rammentare che, al basso dell'ultimo pilastro della casa, verso la chiesa, stavano nuovamente scolpiti i due apostoli con un angelo nel mezzo, e che sulla cima della facciata torreggia tuttora una colomba con sotto le parole: Bonum Est In Deo Sperare allusive, al pari dell'altre: In Deo Spera, al cognome della famiglia da cui venne rifabbricata la casa.

Sulla «Fondamenta di S. Simeon Piccolo» eravi la casa della famiglia Baldovino patrizia, un Simeone della quale entrò nella congiura del Tiepolo, ed un Francesco venne decapitato nel 1412, perché aveva tramato di «tagliare a pezzi i cittadini del Consiglio». Questa famiglia perciò venne privata per anni cento della patrizia nobiltà, comandandosi inoltre che la sua casa dovesse perpetuamente rimanere aperta di giorno e di notte coll'effigie di S. Marco affissa sopra la porta.

Sulla Fondamenta stessa, e precisamente nel palazzo al N. A. 561, poscia comperato dai Diedo, nacque il 3 gennaio 1731 M. V. l'ultimo celebre ammiraglio della Repubblica, Angelo Emo.

Narra il Sanudo che il 16 ottobre 1509 vennero citati a comparire innanzi la giustizia un figlio di Domenico Grimani, ed altri giovanotti perché, stando verso sera sulla «Fondamenta di Simeon Piccolo», fecero venire a riva una barca che passava per il Canal Grande, ove si trovavano alcune donne appartenenti alla famiglia Donà cittadinesca, e dopo aver gettato in acqua il barcaiuolo, abusarono delle medesime, rubando ad esse eziandio «certi tondini e robe».

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S. Sofia (Campo, Rio, Traghetto).
Riporta il Gallicciolli, sulla autorità di cronache antiche, che fino dall'866 esisteva la chiesa di S. Sofia, edificata da un Giorgio Trilimpolo. Tuttavolta se ne attribuisce comunemente la fondazione alla famiglia Gussoni, unita ad un cotal Giorgio Tribuno nel 1020, ovvero 1025. Questa chiesa ebbe due rifabbriche, la prima nel 1225, la seconda nel 1568, nonché un radicale ristauro nel 1698. Nel 1810 fu chiusa, e nel 1836 rinnovata e riaperta a merito di G. Battista Rebellini ed altri divoti, sotto l'antico titolare di S. Sofia, ovvero la «Divina Speranza», benché sostengano alcuni che in origine fosse sacra in quella vece a S. Sofia vergine e martire. All'epoca del suo riaprimento il Fontana pubblicò una «Illustrazione storico-critica».

Un Antonio «cultrarius», figlio del pievano di S. Sofia Pietro Negro, rese madre Catterina Bedotolo, abbadessa del convento di S. Giacomo di Paludo. Egli perciò, con sentenza 29 aprile 1422, venne condannato a due anni di carcere, donde fuggito il 27 giugno seguente, fu agli 8 di luglio bandito da tutto il dominio.

Dalle Raspe dell'«Avogaria di Comun» s'apprende pure che il suddetto Pietro Negro, pievano di S. Sofia, perdette il 20 decembre 1436 la carica di pubblico notaio perché, ad istanza di Francesco Rizzotto, pievano di S. Maria Nuova, rogò e pubblicò un testamento supposto, donde appariva che una «Cristina de Sana» aveva lasciato al Rizzotto tutte le sue facoltà.

Né maggior onore recò al clero di S. Sofia un'avventura di Vito Pugliese, prete della chiesa suddetta, accusato nel 1461 da una Lucia, moglie d'Agostino da Feltre lanaiuolo, d'averla voluta godere più volte a viva forza. Siccome però la cattivella aspettò che la tresca avesse durato quattro giorni prima di parlarne col marito e con un frate francescano, da cui venne consigliata di ricorrere alla curia patriarcale, così è lecito sospettare, come fece intravedere il reo, citato a scolparsi, che il consenso della donna non fosse mancato del tutto nel fatto, e che l'averle negata la chiesta mercede la spingesse, più che altro, a presentare l'accusa. Comunque siasi, pre' Vito venne condannato, per sentenza 22 giugno 1461, al carcere in vita, la qual pena, un anno dopo, ad istanza del principe di Taranto, commutossi in bando perpetuo. Vedi alcuni Atti della Cancelleria Patriarcale, raccolti nel codice 74, classe IX della Marciana.

Il «Campo di S. Sofia», verso il Canal Grande, è fiancheggiato da una parte da un palazzo Foscari, archiacuto, che ha lo stemma di questa famiglia sulla facciata, ove nel 1520 abitava l'ambasciatore di Mantova, e dall'altra dal palazzo pure archiacuto Morosini, che nel 1582 ospitò Roberto Strozzi. Tale palazzo fu nel principio del secolo XVIII comperato dai Sagredo, e dai suoi poggiuoli Leopoldo II imperatore, ed altri principi, ammirarono nel 1791 lo spettacolo della regata.

In «Campo di S. Sofia», e precisamente in una delle case della cittadinesca famiglia Longin, lo stemma della quale, consistente in un albero, scorgevasi, prima delle recenti rifabbriche, sopra le muraglie, domiciliava un fabbro ferraio, abbastanza provveduto di mezzi di fortuna, che amoreggiava con una vedova, nativa di Mirano. Essendosi una volta costei recata a ritrovarlo, e vedendolo posto a letto, fece bollire al focolare, sotto pretesto di sentirsi dolori al ventre, una pentola d'olio. Quando poi vide il suo drudo addormentato gli diede d'un coltello nel petto, ed avendosi egli risentito, gli gettò addosso l'olio bollente, terminando d'ammazzarlo con un colpo di candeliere sul capo. Allora portò via la borsa e due sacchetti di monete dell'ucciso, ma non poté aprire la cassa ove stava racchiuso il più del denaro, per lo che, indispettita, fuggì dopo aver appiccato fuoco alla casa. Non si scoprì in quel momento la di lei reità, e fu solo, quando essa, per sospetto d'altro ladrocinio, volle allontanarsi da Venezia, che tutto venne alla luce del giorno, laonde, dopo aver pienamente confessato, fu condannata il 28 gennaio 1505 M. V. ad essere condotta sopra una chiatta pel «Canal Grande» a S. Croce, a smontare al Corpus Domini, ed irsene per terra a S. Sofia, ove le venisse recisa la destra; a continuare finalmente il viaggio fino a S. Marco fra le colonne, per colà assoggettarsi alla mannaia del carnefice. Il suo corpo fu abbruciato, e la sua testa fu appesa ad una forca nell'isola di S. Giorgio Maggiore.

Presso la chiesa di S. Sofia, all'imboccare della «Calle Sporca» o «Priuli», eravi, come dagli stemmi tuttora sussistenti, la Scuola dei Pittori sacra a S. Luca. I pittori avevano eretto lo stabile coi danari a tal uopo lasciati dal pittore Vincenzo Catena nel 1532. Vedi S. Bartolomeo (Merceria ecc.).

La Mariegola della Scuola di «S. Cristoforo all'Orto», che va dal 1377 al 1546, fa testimonianza come il pittore Gentile da Fabriano, confratello di quel pio sodalizio, fosse domiciliato in parrocchia di S. Sofia. Gentile da Fabriano (città nella Marca d'Ancona) fece parecchi lavori in Roma sotto Martino V. Dipinse nel 1417 in Orvieto e nel 1422 e 1425 a Firenze. Venuto poscia a Venezia, lavorò, per commissione del Senato, nella sala del Maggior Consiglio il conflitto navale seguito fra il doge Ziani ed Ottone figlio di Federico imperatore, laonde ottenne annuale provvigione, vestendo la toga ad uso patrizio. Dicesi pure che in Venezia istruisse nella pittura Jacopo Bellini, il quale, in memoria del maestro, pose il nome di Gentile ad un proprio figliuolo, riuscito poscia artista famoso. Finalmente, sentendosi già vecchio, il Fabrianese ritirossi in patria, ove morì.

Curiosa è una determinazione della fraglia del «Traghetto di S. Sofia», presa nel 1355, per cui «de Nadal se debia far e dar pan benedetto a tuti li fradeli e soror di questa scola».

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S. Stae (Salizzada, Campo, Traghetto).
Attribuiscono alcuni la fondazione della chiesa di S. Eustachio, volgarmente «S. Stae», alla famiglia Dal Corno in epoca ignota. Il Savina nella sua cronaca la dice al contrario fondata dalle famiglie Tron, Giusto ed Adoaldo nel 966. Nulladimeno, come riporta Flaminio Corner, la prima memoria che troviamo di questa chiesa data soltanto dall'anno 1290. La fabbrica attuale sorse nel 1678 sul disegno di Giovanni Grassi, e la facciata, che guarda il «Canal Grande», fu eretta nel 1709 a spese del doge Alvise Mocenigo, e per opera dell'architetto Domenico Rossi.

La chiesa di S. Eustachio rimase parrocchiale fino ai primi anni di questo secolo, divenendo poscia oratorio dipendente da S. Cassiano.

Sembra che anticamente due fossero i pozzi in «Campo di S. Eustacchio», poiché leggesi nei «Notatori» del Gradenigo sotto il 3 ottobre 1771: «le due belle urne eguali, in altri tempi inservienti ad ornamento e comodo universale a due cisterne di acqua sul Campo di S. Eustachio, vengono trasportate nel cortile del moderno e famoso Ridotto giocoso a S. Moisè».

In un palazzo posto sul «Canal Grande» a S. Eustachio abitava il generale Francesco Carmagnola, che, caduto in sospetto d'aver tradito i Veneziani nelle guerre contro il duca di Milano, venne decapitato in «Piazzetta di S. Marco» fra le due colonne, il 5 maggio 1432. Questo palazzo apparteneva anticamente ai patrizi Lion, quindi ai Venier, e comperato nel 1415 dalla Repubblica, passò, per regalo, in proprietà di Pandolfo Malatesta. Nello stesso anno accolse nel proprio recinto il conte Jacopo di Murcia, figlio del re d'Aragona, e marito della regina Giovanna II di Napoli, nonché il conte di S. Polo che, col seguito di 40 inglesi, era avviato alla visita del S. Sepolcro. Tornato successivamente in comune, donossi nel 1427 al Carmagnola, appena giustiziato il quale, ospitò il marchese di Monferrato. Nel 1433 fu venduto dalla Repubblica ai Vitturi, cui apparteneva quando nel 1452 diede stanza all'imperatrice Leonora, venuta a Venezia coll'augusto consorte Federico III, ma ai tempi del Barbaro apparteneva ai Giustinian. Talento ci spinse ad indagare quale si fosse il palazzo medesimo, e se attualmente ancora sussista. In tale argomento ci porse aiuto il Coronelli, che nelle sue «Singolarità di Venezia» offre inciso sotto il nome di «palazzo Giustinian a S. Eustachio sul Canal Grande» quello che, per incendio patito, non conservava in questi ultimi anni che parte del prospetto del piano inferiore, e che oggidì è del tutto demolito, facendosi servire la sua area a giardino. Esso dai Giustinian, che lo rifabbricarono, era passato in progresso di tempo nei Contarini, e perciò palazzo Contarini veniva comunemente chiamato.

In parrocchia di S. Eustachio abitava pure nel 1523 il pittore Giacomo Palma «il Vecchio», e nel 1661 i pittori Pietro Bellotti e Pietro Ricchi. La casa, che quest'ultimo teneva a pigione dal N. U. Loredan, era situata precisamente nella «Salizzada».

Nella stessa parrocchia nacque nel 1755 Giustina Renier Michiel, che scrisse le «Origini delle Feste Veneziane».

In «Canal Grande» a S. Eustachio annegossi nel 1636 Andrea Donà q. Domenico colla propria moglie Cecilia Polani, mentre di notte partivano dalla festa di ballo mascherata datasi in ca' Pesaro.

La contrada di «S. Stae», finalmente, è ricordata dal codice Cicogna 264, intitolato «Memorie Venete», colla notizia che il 19 decembre 1760 s'appiccò fuoco ad una casa colà situata di ragione della famiglia Businello, ove abitava il principe Grillo, nonché coll'altra che il 25 novembre 1761, pell'elezione a cardinale di G. Molin vescovo di Brescia, si celebrarono feste con musica ed illuminazione sul campo.

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S. Stefano (Parrocchia, Campo, Campiello).
Gli eremiti agostiniani, che fino dal 1264, ovvero 1274, avevano comperato alcune case nella parrocchia di S. Angelo, fabbricarono colà un convento, ed una chiesa dedicati a S. Stefano protomartire, della quale nel 1294 si pose la prima pietra. Dopo ciò cessero la chiesa ed il convento di S. Anna di Castello, ove prima abitavano, alle monache benedettine. La chiesa di S. Stefano, di architettura tedesca, ebbe termine nel 1325, e, dopo la sua prima consecrazione, dovette essere riconciliata sei volte per ferimenti in essa commessi. La prima volta fu nel giorno di Pentecoste dell'anno 1348, avendovi Girolamo Bonifazio ferito il N. U. Marco Basadonna; la seconda il 24 maggio 1556; la terza il 15 aprile 1561; la quarta il 17 luglio 1567; la quinta il 17 maggio 1583; la sesta, finalmente, il 26 novembre 1594. Ebbe un ristauro nel 1743.

La parrocchia si fondò nel 1810 colle soppresse parrocchie di S. Vitale, S. Samuele, S. Maurizio, e con parte di quella, pur soppressa, di S. Michele Arcangelo (S. Angelo).

Secondo la cronaca del Savina, avendo una saetta, la sera del 7 agosto 1585, abbruciato la cella del campanile di S. Stefano, che cadde, recando gran danno, sopra le case dei Malatini, oltre il rivo, si liquefecero tutte le campane, compresa quella dell'orologio, e la Signoria concesse ai frati, col patto però di avere il bronzo liquefatto, ed il soprappiù del prezzo, altre 4 campane, le quali erano per fondersi in Arsenale, e provenivano dall'Inghilterra, ove la regina Elisabetta aveva fatto abbattere le chiese ed i campanili cattolici. Quanto all'orologio, esso «venne acconcio di nuovo a spese degli avvocati della città di Ven.a li quali stanno per lo più in quelle contrade per essere vicini al palazzo, et erano privi d'una grande comodità non vedendo le hore, et fu mandato a farlo fare a Seravalle».

Il convento di S. Stefano, dopo un altro incendio, successo nel 1530, venne ristaurato nel 1532 sopra disegno del frate Gabriele da Venezia. Attualmente è sede del «Comando del Presidio e Fortezza», e degli uffizii del «Genio Militare». Il chiostro, o cortile, di esso, che serve di pubblico transito, e sulle cui pareti si scorgono ancora alcune traccie degli affreschi operati dal Pordenone, sempre, come è fama, coll'armi a fianco per paura del rivale Tiziano, è celebre per memorie antiche e recenti. Imperciocché anticamente varii distinti uomini vi furono sepolti, fra cui Francesco Novello da Carrara, ultimo signore di Padova, fatto strozzare in carcere dalla Repubblica, co' suoi due figli Jacopo e Francesco III, nel 1406. Ove fu sepolto era scritto, secondo il Curti: «Sepultura strenui Viri ser Francisci Novelli et Heredum S.» Né mancava la credenza che il sepolcro del Novello fosse quello sopra cui scorgevasi la sigla |T\P| spiegata colle parole: «pro norma tyrannorum». Il Cicogna però vi scoprì invece la sigla commerciale del mercadante Paolo Tinti. Quantunque poi riferiscano alcune cronache che Marsilio da Carrara, altro figlio di Francesco Novello, giustiziato pur esso, per ordine della Repubblica, il 23 marzo 1435, sia stato sepolto alla Giudecca nella chiesa dei SS. Biagio e Cataldo, apparirebbe che ciò avvenisse veramente in S. Stefano, avendo letto il Curti nel giornale della sacrestia dell'anno 1435 le seguenti annotazioni: «24 marti etc. Pro uno sepulto in claustro supras. Pro Dno. Marsilio de Carraria nihil ― 27 ejusd. etc. Pro parte nostra de zona vendita Marsilii de Carraria etc. Et 6 aprilis. Pro parte nostra de vestimento vendito Marsilii de Carraria».

Nel chiostro di S. Stefano fu pure sepolto lo scultore Tullio Lombardo. Così egli si espresse nel suo testamento, fatto il 14 novembre 1532, in atti Angelo Canal: «El mio corpo vogio sia sepulto in linclaustro de s. Stefano in una mia archa che ho in casa fatta, qual archa sia messa alto o basso. Et lasso a detti frati per tal mio deposito diese duchati, sì che non me abbia a tuor più denaro de diese duchati». Ricorda il Curti che la sepoltura del Lombardo portava la data del 17 novembre 1532.

Nel chiostro medesimo, in epoca moderna, ebbe stanza da studio l'altro scultore Antonio Canova ancor giovanetto, anzi resta memoria che qui, di 18 anni, scolpì in pietra tenera l'«Orfeo».

Altrove abbiamo parlato del rialto, un tempo cimitero, che sorge quasi di faccia la chiesa di S. Stefano, ove dicesi aver menato vita penitente Paolo da Campo di Catania, fiero corsaro. Vedi Nuovo (Campiello).

Venendo al «Campo S. Stefano», non possiamo tacere d'una solenne predica fattavi da un frate in senso della riforma, poiché leggesi nel Sanudo, sotto la data 25 febbraio 1520 M. V.: «Et sul campo S. Stefano fo predicato per m. Andrea da Ferrara, qual ha gran concorso. Era il campo pien, e lui stava sul pozuolo della casa del Pontremolo, scrivan all'oficio dei dieci uffizii. El disse mal del papa et della corte Romana. Questo seguita la dottrina de fra Martin Luther, è in Alemagna homo doctissimo, qual seguita S. Paolo, et è contrario al papa molto, il quale è stà per il papa scomunicato». La casa del Pontremolo, o Bontremolo, situata in «Campo S. Stefano», al N. A. 2953-2956, era ricca un tempo di molte memorie. Sulla facciata, a destra del poggiuolo, leggevasi: Dicunt Susannam L. M. K. Martii, ed a sinistra: Perche' Percio' MDXIII. Sopra la porta: Ome Agens Agit Propter Finem. Nell'interno ti colpiva gli occhi lo stemma Bontremolo, circondato dalle parole: Petrus Bontr. MDXV X Julii Diu Felix. Lo stemma medesimo si ripeteva sotto un balcone in mezzo alle due lettere P. B. Il pozzo della corte, unitamente agli stemmi Bontremolo e Molin, presentava l'iscrizione Petrus Bontremolus MDXV X Julii Coniug. Marpexie Moline. Finalmente sulle scale eravi un'immagine della Beata Vergine, sotto cui: Petrus Bontremolus MDXXVI. F. Pietro Bontremolo, uscito da famiglia cittadinesca, venuta dalla Romagna, la quale fino dal 1211 lasciò ricordo di sé sopra un sepolcro nella chiesa di S. Maria della Misericordia, e fino dal 1236 apparteneva alla nostra cittadinanza, copriva la carica di «Scrivan all'Uffizio dei X Uffizii». Quantunque avesse sposato Adriana Negro, sposò in seguito suor Marpessia, figlia di Timoteo q. Tommaso Molin, tratta dal monastero di S. Giovanni di Torcello, allegando che il suo primo matrimonio era stato dichiarato nullo dalla curia patriarcale per affinità. Perciò subì un processo, e nel 1513, come narra il Sanudo, venne anche posto in prigione, ma ben presto ne uscì, essendo stato ritenuto valido il di lui secondo legame, colla condanna però di pagare 200 ducati alla Negro. Da Marpessia Molin ebbe i figliuoli Giulia, Molina, che fu sposa di Marcantonio Dolfin, e Bontremola, che accasossi con Benedetto Boldù. Del resto, alcune delle iscrizioni di casa Bontremolo, come quella: Dicunt Susannam, oppure quella: Perche' Percio', o sono capricciose, o si riferiscono a fatti noti soltanto a chi le fece scolpire. Imperciocché non crediamo d'abbracciare l'opinione del Cicogna, il quale sospetta che quel Dicunt Susannam abbia qualche relazione colla prossima chiesa dei SS. Rocco e Margherita, fabbricata ove sorgeva anticamente un oratorio sacro a S. Susanna. Attualmente delle riportate antichità resta soltanto il pozzo cogli stemmi, e coll'iscrizione, nonché l'immagine della Beata Vergine, però della sua iscrizione mancante. Fu nei passati ristauri che varie delle lapidi si trasportarono altrove, e lasciò scritto il Cicogna d'aver veduto nel 1852 quella del Diu Felix collo stemma Bontremolo nel giardino Volpi a S. Barnaba.

Tra le giostre fatte in «Campo S. Stefano» va ricordata quella in cui oprò belle prove di valore l'infelice Antonio Castrioto, duca di Ferrandina, il 17 febbraio 1548 M. V., la domenica stessa nella quale venne ucciso in una festa da ballo a Murano. Lasciamo le parole al cronista Agostino: «Nel detto millesimo» (1548) «ai 17 febbraro, in giorno di Domenica, si fece una bella e superbissima festa sopra il Campo di S. Stefano di giostre e bagordi, e furono ms. Alvise Pisani, vescovo di Padova, l'abate Bibiena Fiorentino, et il duca di Ferrandina, figliuolo che fu del marchese della Tripalda, il quale è disceso per linea retta dal signor Giorgio di Scanderbech, et era valoroso cavaliero nel giostrare, et era amico e capitano dell'imperatore Carlo V, il quale, finita la festa sopra il Campo di S. Stefano, nella quale fece cose meravigliose e degne d'ogni illustre cavaliere, sì nel giostrare, come negli ornamenti di maschere, con trar ovi pieni di acqua rosata e moscata alle finestre, dove vi era concorso un grandissimo numero di gentildonne per vedere questi torneamenti, andò la sera medesima a Murano con il vescovo di Padova, ch'era de ca' Veniero Sanguinè» (Marco conte di Sanguinetto) «dove si faceva una bellissima festa, e per causa d'havere invitato una gentildonna, nominata Modesta Veniero» (Modesta Michiel, moglie di Daniele Veniero) «venne a romore, sendo egli mascherato, con ms. Marco Giustinian e ms. Zorzi Contarini, e non conosciuto da questi zentilomeni, di maniera che si venne alle armi, e l'infelice duca fu ferito dal Giustiniano sopra la testa, e cadette in terra, e così mezzo morto messe mano ad uno stocco, e per mala ventura ferì nella gamba ms. Fantino Diedo, suo carissimo amico, a non pensando, per metterse di mezzo. Il duca di Ferrandina visse un giorno et hore 20 ché passò di questa vita, e fu sepolto in sagrestia delli padri di San Pietro Martire di Murano, et il Diedo da poi alquanti giorni morì ancor lui, sendogli entrato lo spasimo nella gamba».

Né sole giostre propriamente dette, ma altre feste celebravansi in «Campo S. Stefano». Ricorda il Sanudo al mese di febbraio 1520 M.V.: «Facendosi una festa sul Campo di S. Stefano di corer l'anello, fo la domenega di carnoval, uno corendo a cavallo il trasportò, et dete in s. Pietro Mocenigo di s. Lunardo, e li ruppe la testa». Ed il codice 184, Classe VII della Marciana, racconta al mese di gennaio 1599 M. V.: «Fernando Cosazza, q. Ferrante, mentre si attrovava mascherato sul Campo di S. Stefano, fu dal conte Mattio Collalto ucciso».

Circa al così detto «Listone di S. Stefano», diremo che ebbe tal nome questo pubblico passeggio perché facevasi sopra una lista di lastricato, posta nel mezzo del campo, ancora nell'altre parti ricoperto dall'erba. Abbiamo una stampa incisa in rame da Giacomo Franco, nato in Venezia nel 1550, e morto nel 1620, sotto la quale leggonsi le seguenti parole: «In questa guisa si veggono le maschere in Vinegia nel carnovale, d'ogni qualità di persone, le quali sogliono quasi tutte alle ore 23 ridursi in piazza di S. Stefano, e quivi passeggiando trattenersi fino a quasi due hore di notte. Giacomo Franco forma con privilegio». Il «Listone», per godere del quale disponevansi alcuni ordini di sedili, aveasi trasportato negli ultimi tempi della Repubblica in «Piazza di San Marco».

La caccia dei tori, poi, che si godette in «Campo di San Stefano» il 22 febbraio 1802, fu l'ultima per Venezia. Imperciocché essendo caduto durante la medesima, dalla parte del palazzo Morosini, il palco sopra cui stavano gli spettatori, ne seguirono danni non pochi, e le caccie dei tori vennero per sempre proibite fra noi.

Nel 1807 venne trasferito in «Campo S. Stefano» il settimanale mercato, che ogni sabato soleva tenersi in «Piazza S. Marco». In tale occasione si demolirono due botteghe di legno, l'una inserviente a ricevitoria del lotto, e l'altra ad uso di caffè. Il mercato durò in questa situazione fino a tutto febbraio 1809, epoca in cui trasportossi in «Campo S. Polo».

In «Campo S. Stefano» fu nel 1882 innalzato un monumento a Niccolò Tommaseo, esimio letterato e patriota.

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S. Stin (Campo, Ponte, Rio).
La chiesa parrocchiale di S. Stefano confessore, si denominò di San Stefanino, e quindi corrottamente di «S. Stin», perché era picciola in confronto dell'altra grandiosa, sacra a S. Stefano protomartire. E' probabile che sia stata fabbricata nel secolo X, ovvero XI. Rovinata nel 1105 venne rifabbricata nel 1295 da Giorgio Zancani, patrizio veneto della colonia cretense. Si chiuse nel 1810, e pochi anni dopo si demolì.

Sembra che presso la chiesa di S. Stefano confessore (vulgo «S. Stin») abitasse Carlo Zeno. Nella sua vita, scritta latinamente da Jacopo Zeno, vescovo di Feltre, e volgarizzata dal Querini, si legge che il prode capitano negli ultimi anni della sua vita «ciascuno dì andava nella chiesa di S. Stephano, presso alla casa sua, ai divini uffici». Egli probabilmente avrà abitato nel palazzo Zeno, che ha la facciata archiacuta sul «Rio di S. Stin», e che tuttora è posseduto, ed abitato dalla stessa patrizia famiglia.

Riferisce il Sanudo, in data 22 marzo 1506, che uno studente ungherese ebreo, di nome Isacco, accusato d'avere in una calle presso S. Stin nascosto sotto le vesti un fanciullo cristiano di due anni e mezzo per ucciderlo, venne imprigionato, mentre stava per gettarsi in canale affine di fuggire dalla furia del popolo. Avvenne che la mattina seguente alcuni Ebrei a Rialto furono percossi e quasi lapidati, ma l'accusato il giorno 24 venne rimesso in libertà, nulla risultando a di lui carico.

Il Codice 482, Classe VII della Marciana, col titolo: «Anni Emortuali di diversi personaggi distinti» ecc. riferisce che in parrocchia di «S. Stin» morì l'8 novembre 1768, in età di anni 94, Luigi Gonzaga, già principe sovrano di Castiglione e Bozzolo, privato de' suoi stati. Egli venne sepolto ai Frari con epigrafe.

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S. Teodoro (Salizzada)
a S. Salvatore. Si ritiene che la confraternita di S. Teodoro sia stata contemporanea all'erezione della chiesa di S. Salvatore. Essa però coll'andar del tempo andò disciolta, e solo ripristinossi dopoché nel secolo XIII il corpo di S. Teodoro fu portato a Venezia. Questa confraternita raccoglievasi da principio in un locale «sopra el portego della porta granda» della chiesa di S. Salvatore.

Nel 1530 eresse un apposito albergo, e nel 1552 fu dichiarata dal Consiglio dei X sesta ed ultima delle Scuole Grandi. Componevasi specialmente di mercadanti, e fu un Giacomo Galli q. Antonio, negoziante di merci all'insegna della Campana in «Merceria», che, col suo testamento 13 febbraio 1648 M. V., in atti di G. Battista Coderta, non contento d'aver disposto 60 mila ducati pel prospetto della chiesa di S. Salvatore, nonché 30 mila per quello della chiesa de' Mendicanti, disponeva altri 30 mila ducati pel prospetto della Scuola di San Teodoro. L'opera affidavasi al Sardi, e tuttora s'ammira, quantunque la confraternita, fino dal 1810, sia stata soppressa, ed il locale da quell'epoca in poi abbia servito ad usi profani.

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S. Tèrnita (Campo, Ponte, Rio).
La chiesa parrocchiale della SS. Trinità, detta volgarmente «S. Tèrnita», venne innalzata dalle famiglie Celsi e Sagredo sotto il doge Pietro Barbolano, o Centranico, nell'XI secolo. Fu poi rifabbricata nel XVI, ed anche nel XVIII ebbe ristauri. Si chiuse nel 1810, e nel 1832 andò demolita. Ne restava in piedi il campanile, che serviva d'abitazione a qualche povera famiglia, ma esso improvvisamente precipitò il 13 decembre 1880, seppellendo fra le macerie un Giovanni Baratelli, macchinista, che non senza fatica venne poscia diseppellito.

In parrocchia di S. Ternita abitava nel secolo XIV il patrizio Giovanni dalle Boccole. Una bella mattina si videro attaccate presso la di lui porta due teste di caprone con una scritta obbrobriosa alla moglie, alla sorella, ed alla suocera del medesimo. Autore del fatto si scoprì il figlio del doge Antonio Venier, per nome Luigi, che amante della moglie del Dalle Boccole, e corrucciatosi con essa, fu, insieme ad un Marco Loredan, la vigilia della SS. Trinità di notte, «in contracta S. Trinitae, et super ponte de cha Bocholis affixit duos magnos mazios charichatos cornibus cum aliquibus brevibus sup. quibus scripta erant quamplurima turpia inhonesta verba, quor. narratio obmittitur propter inhonestissimam turpitudinem eor., q. quidem brevia continebant nomina uxoris et sororis, ac socerae nob. viri s. Johanis de Bocholis, cujus domus et habitatio est sup. dicto ponte» ecc. (Sentenza della «Quarantia Criminale» 1° giugno 1388). Pell'imparziale severità dimostrata dal doge nella circostanza dell'avvenuta prigionia del figlio, vedi Venier (Calle).

A S. Ternita, nel palazzo Donà, che in origine apparteneva alla succitata famiglia Dalle Boccole, abitò m. Francesco Berni quando venne a Venezia, come si può rilevare dai versi seguenti diretti a messer Francesco da Milano:

Stiamo in una contrada et in un rio

Presso alla Trinità e all'Arsenale,

Incontro a certe monache di Dio,

Che fan la pasqua come il carnovale,

Idest che non son troppo scrupolose,

Che voi non intendeste qualche male.

Le monache suddette erano quelle della Celestia, della cui sregolatezza abbiamo altrove parlato. Vedi Celestia (Campo, Rio della).

Francesco Marcolini da Forlì, celebre stampatore del secolo XVI, aveva trasportato nel novembre del 1536 presso la chiesa di S. Ternita la propria tipografia dalla contrada dei SS. Apostoli ove prima esisteva. Vedi Padiglion (Calle del). Nel «Petrarca» di Girolamo Malipiero è leggibile la seguente annotazione: «Stampato per Francesco Marcolini da Forì in Venezia appresso la chiesa de la Trinità gli anni del Signore MDXXXVI del mese di Novembre». Francesco Marcolini era anche letterato, antiquario, intagliatore, orologiaio, ed architetto, come lo prova il «Ponte Lungo» di Murano, che costrusse nel 1545. Aveva poi l'onore di essere compare di Pietro Aretino, il quale di sovente andavalo a visitare, ed anzi, per quanto si legge nella «Vita di Pietro Aretino» attribuita al Berni, e nel «Terremoto» del Doni godeva i favori della di lui moglie Isabella, donna tanto impudica da darsi in preda perfino ai lavoranti della stamperia. Senonché, segue a raccontare il Doni, sorti in progresso di tempo alcuni dissapori fra i due amici, eccoti l'Aretino, colla solita maldicenza, vantarsi delle corna fatte al Marcolini, sparger voce che questi, in vendetta dei cattivi costumi della moglie, l'aveva condotta in Cipro, ed attossicata, asseverare finalmente che il Marcolini aveva rubato ad un tedesco il disegno del «Ponte Lungo» di Murano.

Era prete di S. Ternita quel Michele Viti bergamasco, che con altri attentò alla vita di fra' Paolo Sarpi, e che perciò fu bandito nel 1607 con decreto del Consiglio dei X; ed era prete della chiesa stessa quel G. Battista Buogo, detto «Chebba», che, non avendo potuto condurre alle sue voglie la fanciulla Orsetta, figlia d'Agostino Tuffo, «peater», domiciliato nella contrada medesima, la fece sfregiare sul viso con un coltello mentre usciva dalla chiesa di S. Ternita il primo giorno di quaresima dell'anno 1752, e perciò, assentatosi da Venezia, venne colpito da bando.

Nel 1751 si rifabbricò il «Ponte di S. Ternita», che va alla Celestia, trasportandolo sei braccia più a sinistra del sito ove esso prima sorgeva, e facendosi una sola riva inserviente alle due case Sagredo e Zorzi, mentre prima le rive erano due.

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S. Tomà (Ponte, Rio, Fondamenta, Campiello, Campo, Traghetto, Rio Terrà).
La chiesa di S. Tommaso Apostolo, volgarmente «S. Tomà» fu eretta nel 917 sopra un fondo appartenente alla famiglia Tonisto per opera, secondo alcuni, dei Miani, secondo altri, di Coriolano Tribuno. Nel 1395 venne riedificata, aggrandita nel 1508, e poco dopo ristaurata. Abbellivasi dal 1666 al 1672 con prospetto di marmo disegnato dal Longhena, ma, minacciando in seguito di ricadere, rinnovavasi dai fondamenti nel 1742 sopra modello dell'architetto Bognolo, e compiuta, consecravasi il giorno 11 settembre 1803. Cessò di essere parrocchiale nel 1807. Poco appresso tuttavia tornò ad esserlo coll'aggiunta del circondario di S. Stin, e tale rimase fino al 1810 in cui divenne oratorio. La chiesa di S. Tomà, dal 1835 al 1867, venne uffiziata dai Minori Conventuali, che abitavano in un vicino ospizio, figliale a quello di S. Antonio di Padova.

Narra il Caroldo, che allorquando nel 1240 i Veneziani fecero prigioniero Salinguerra, signore di Ferrara, gli assegnarono per abitazione una casa in parrocchia di S. Tomà, che apparteneva all'antica famiglia patrizia Bosco, o Bosso, ove egli, dopo pochi anni, venne a morte. E' noto come con solenne pompa funebre venisse sepolto in S. Nicolò del Lido.

Spaventato il doge Alvise Mocenigo dall'incendio, che nel 1574 appiccossi al palazzo ducale, ritirossi in parrocchia di S. Tomà nelle case di suo fratello Giovanni, ma in quella sera medesima i consiglieri gli fecero intendere che dovesse ritornare nella propria residenza.

Nel medesimo anno 1574, in una sera del mese di novembre videro le guardie un Nadalin da Trento, «garbelador» e «ligador» al Fontico dei Tedeschi, aggirarsi furtivamente, con un sacco in ispalla, intorno la chiesa di S. Tomà. Dopo che gli ebbero trovato nel sacco tenaglie, scalpelli, leve, ecc., e dopo aver scoperto nella di lui abitazione alquanti preziosi arredi sacri, nonché buona quantità d'oro ed argento colati, lo trassero in carcere unitamente alla moglie Cassandra. Questa fu la prima a far rivelazioni, sicché anche Nadalin, vedendosi scoperto, e sperando con una piena confessione di ritrovare nei giudici minore severità, depose che in quella sera era sua intenzione d'entrare nella chiesa di S. Tomà per impadronirsi degli arredi ond'era fornita per la prossima festa di S. Aniano, e palesò altri suoi furti commessi nella Scuola Grande di S. Marco, ed in quella di S. Rocco. Ciò tuttavia nulla gli valse, ché il Consiglio dei X, con sentenza 3 decembre 1574, condannollo ad essere appiccato, ed abbruciato in «Piazzetta» dopo i tormenti consueti.

Il 7 settembre dell'anno 1600 «Zuane orese in Campo S. Tomà», unitamente ad «Anzolo strazarol in Campo dei Frari», venne citato a comparire innanzi ai Capi del Consiglio dei X sotto l'incolpazione d'aver tenuto compagnia a «Catte da Cattaro», rifugiatasi in chiesa dei Frari, e poscia d'averla condotta a casa di «Antonio Verghezin già campaner dei Frari», ajutandola a travestirsi da uomo, e promettendole di condurla in salvo fuori di Venezia. «Catte da Cattaro» era stata accusata dell'uccisione del marito Florian, d'accordo col proprio drudo Daniele d'Hanna, e del seppellimento dell'ucciso nella propria abitazione a S. Geremia.

Leggiamo nel Cod. 184, Classe XI della Marciana: «1610, dicembre. S. Andrea Contarini di Z. Battista fu in Calle di S. Tomà da un figliuolo d. Z. Batta Moretto, che era in sua compagnia, con un pistone ucciso».

In parrocchia di S. Tomà nacque, come si è detto, il celebre commediografo Carlo Goldoni. Eccone la fede di nascita: «Primo marzo 1707. Carlo Sgualdo, fio de d. Giulio q. m. Carlo Goldoni e della sig. Margherita, giugali, nato li 25 febbraio passato. Compare l'ill. sig. Zuanne Calichiopolo avvocato, abita a S. Anzolo, comare la Bazzatta da S. Polo. Battezzò il sig. Piovan». Pel sito preciso della nascita vedi Centani (Calle ecc.).

Circa il «Traghetto di S. Tomà» troviamo che la «fraglia» del medesimo venne eretta nel 1505 sotto gli auspici della B. V., e che più tardi le fu concesso un altare in chiesa di S. Tomà, antichissimamente fabbricato dai Falier, passato quindi in proprietà dei Morosini, e dei Dandolo.

Il «Rio Terrà di S. Tomà», sebbene lontano dalla chiesa, ed aderente all'Archivio dei Frari, ha questo nome perché un tempo segnava i limiti della parrocchia, come si può vedere nel Pivoto: «Vetera ac nova ecclesiae S. Thomae Apostoli Monumenta».

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S. Trovaso .
Vedi SS. Gervasio e Protasio.

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S. Vidal (Campiello, Campo, Traghetto, Rio di).
Il doge Vitale Falier eresse la chiesa di San Vitale nel 1084. Dopo l'incendio del 1105 essa venne rialzata, e riedificata un'altra volta sul finire del secolo XVII per cura del pievano Teodoro Tessari. Il prospetto s'innalzò per legato del doge Carlo Contarini sul disegno d'Andrea Tirali. Lo adornarono i busti del doge Contarini, della dogaressa sua moglie, e del pievano Tessari scolpiti da Giuseppe Gnoccola. Nel 1810 questa chiesa, per lo innanzi parrocchiale, divenne succursale di S. Stefano.

Al basso della sua torre esistono due lapidi romane, che, secondo il Sansovino, si trasportarono da Pola, e che, come vuolsi, formavano ambedue un sol pezzo.

Il clero della chiesa di S. Vitale nel giorno del santo titolare andava annualmente in processione al vicino traghetto per incontrare il capitolo dei SS. Gerasio e Protasio, al quale presentava un mazzetto di fiori, conducendolo poscia a cantar messa nella propria chiesa. Tali formalità praticava vicendevolmente verso il clero di S. Vitale quello dei SS. Gervasio e Protasio quando celebrava la propria festa, e ciò perché S. Vitale fu padre dei SS. Gervasio e Protasio.

In «Campo di S. Vitale» eravi il bersaglio pel sestiere di S. Marco, e di esso fa menzione una sentenza del 4 agosto 1335, colla quale condannossi in lire 700 un «Thomadus de Thomado», che incontrò colà una fanciulla di nome Soprana, figlia di Bartolammeo da Pirano, e condottala sotto il portico della chiesa della Carità, ebbe seco lei per forza copula carnale. Delle lire 700, duecento dovevano servire per maritare o monacare la mal capitata.

Leggiamo nel Giornale della sacrestia di S. Stefano che nel 2 aprile 1556 una donna partorì in parrocchia di S. Vitale sette bambini ad un punto, i quali furono sepolti nel cimitero dei padri di S. Stefano.

Presso S. Vitale, in «Canal Grande», ritrovossi nel 1584 una fontana d'acqua dolce. Vedi la «Canzone fatta nel tempo che si ritrovò una fontana in Canal Grande presso S. Vitale del 1584», stampata dopo il «Panegirico del Signor Mutio Sforza detto a Venetia sotto il nome di Reina. In Venetia, appresso Domenico e Gio. Battista Guerra fratelli, MDLXXXV».

Abitava in parrocchia di S. Vitale quel Nicola Faragone, figliuolo d'un contadino d'Ariano in Puglia. Costui si era messo da principio in pratica appresso un avvocato della sua patria, ma, avendolo derubato, e poscia avendo commesso altro grosso furto a danno di D. Costanzo della Noce, nella cui casa praticava come maestro dei figliuoli, era stato scoperto, e messo in prigione. Di là fuggito, venne a Venezia, ove si fece amico di due meretrici napoletane, madre e figlia, l'una Fortunata, e l'altra Leonora appellate. Allo scopo d'appropriarsi quanto esse possedevano, una notte le uccise, e fattele a pezzi, le nascose in un baule, al quale, per mezzo d'una corda, legò una grossa pietra che copriva la pila del pozzo di casa. Poscia, avendo preso barca, si condusse al Canale della Giudecca, e colà giunto, gettò in acqua il baule, e la pietra. Ma essendo troppo lunga la corda, onde l'uno all'altro erano raccomandati questi arnesi, volle il caso che essa andasse a traverso della gomena d'un naviglio colà stanziato. Ciò fece sì che, restando a cavalcioni da una parte il baule, e dall'altra la pietra, si scoprisse ben presto il delitto, ed il reo venisse condannato il 12 settembre 1729 ad aver tagliata la testa, e ad essere poscia diviso in quattro parti da affiggersi nei soliti luoghi.

In parrocchia di San Vitale abitava il poeta satirico Bartolammeo Dotti, il quale, ferito il 27 gennaio 1713 (1712 M. V.) in «Calle della Madonna» a S. Angelo, venne a morte il giorno successivo. Così nel Necrologio parrocchiale: «Adì 28 genaro 1712 M. V. Il Signor Cav. Bartolomio Dotti, d'anni 64 in circa, noncio del territorio di Brescia, ferito in tre luochi non si sa da chi, a quattr'hore incirca, sarà fatto sepelir da suoi germani con cap.»

A San Vitale venne a morte il 2 gennaio 1784 M. V. il celebre compositore di musica Baldassarre Galuppi, detto il Buranello.

Era domiciliato a S. Vitale, e precisamente nel palazzo Cavalli, più anticamente Gussoni (palazzo oggidì splendidamente ristaurato dal barone Franchetti), il celebre conte Alessandro Pepoli, autore di tragedie, e traduttore di poemi, che nella sua abitazione dava rappresentazioni teatrali, ed accademie di canto. Qui raccoglievasi del pari l'accademia dei Rinnovati, primo ornamento della quale era il suddetto Alessandro Pepoli. Questo palazzo fu sede pur anche dell'arciduca d'Austria Federico, decesso nel 1846, e per vari anni appartenne al conte di Chambord.

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S. Vio (Rio terrà, Campo, Ponte).
La ex chiesa parrocchiale dei SS. Vito e Modesto, volgarmente «S. Vio», fu eretta nel 912, come vogliono alcuni, dalle famiglie Magno e Vido, o, come vogliono altri, dalle famiglie Vido e Balbi. Sprofondatosi in seguito il terreno della medesima, assegnò il Senato, a riattarla, sussidii, ed alcuni marmi tratti dalle case atterrate di Bajamonte Tiepolo, sopra il quale il giorno di S. Vito del 1310 aveasi riportato vittoria. Stabilì ancora, in segno di gratitudine, che ogni anno, nel giorno dedicato a detto santo, questa chiesa venisse processionalmente visitata dal doge e dalla Signoria colle sei Scuole Grandi, i regolari, le congregazioni del clero, ed il capitolo dei canonici di Castello, e che fosse dato poscia uno dei solenni banchetti a quanti aveano seguito il doge nella visita. La chiesa di S. Vito si chiuse nel 1808, e nel 1813 si demolì del tutto. Il proprietario del fondo ov'essa sorgeva, sig. Gaspare Biondetti Crovato, prese ad innalzare colà nel 1864 nuova cappella sopra disegno di Giovanni Pividor, nella porta della quale volle posti in opera alcuni frammenti marmorei della chiesa antica, già appartenenti alle case del Tiepolo. Questa cappella venne aperta il 25 giugno 1865.

In «Campo di S. Vito» nacque nel 1288 ed, abitò fino alla morte, la beata Contessa Tagliapietra, patrizia veneta. Narrano gli scrittori ecclesiastici che, non volendo la di lei famiglia che ella si recasse da un sacerdote della chiesa di San Maurizio, con cui diceva d'intrattenersi in ispirituali colloquii, proibì una fiata alle barche appostate alla riva di S. Vito di traghettarla oltre il canale, ma che la beata, steso un lino sopra l'acque, miracolosamente passò, a piede asciutto, all'altra sponda. La casa di Contessa atterrossi nel 1354 «per far più bella veduta», dice il Barbaro, «al dose et alla signoria», i quali si recavano, come dicemmo più sopra, a visitare annualmente la chiesa di S. Vito.

Presso la chiesa di S. Vito esisteva un romitaggio di donne, chiamate le «Pinzochere della Madonna di S. Vio». Col loro abito volle essere sepolta nel 1533 Maria Loredan nella chiesa di S. Michele di Murano, lasciando un pio legato di dieci ducati annui ad esse pinzochere.

Badiale, e quasi passata in proverbio, fu l'ignoranza d'un Pietro Paolo Lupo, o Lovo, che nel 1557 fu eletto pievano di S. Vito, ma che perciò venne rifiutato. Costui negli esami lesse: «ut exhibeatis corpora vestra», ed interrogato che cosa significasse «exhibeatis», dopo molta esitanza, rispose: «che sie beati», soggiungendo poscia: «monsignore, sono vecchio de anni 78; el q.m magnifico ser Girolamo Marcello me ha menato in qua e in là per molto tempo digando messa; quel poco che sapeva me ho desmentegao!» Vedi Gallicciolli: «Memorie Venete».

Leggiamo nella cronaca Molina: «In Venezia nacque una fanciulla il mese d'aprile 1740 con la faccia di capra, et il resto forma umana, e battezzata morì nella contrada di San Vito».

In questa contrada morirono nel 1684 l'architetto Giuseppe Benoni, e nel 1757 la pittrice Rosalba Carriera. Vedi S. Basegio (Campo).

Almorò Contarini, pievano di S. Vito, e canonico di S. Marco, accusato nel 1749 da alcuni suoi preti di chiesa d'eresia, e da tre femmine di sollecitazione, non che di falsi insegnamenti dati ad una Maria Pisani, neofita ebrea, venne, dopo 14 mesi di prigionia, sospeso e confinato per tre anni nell'isola di S. Spirito. Nel 1767 però il processo fu lacerato dal S. Uffizio, e rimesso il Contarini nelle sue parrocchiali mansioni.

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S. Vitale .
Vedi S. Vidal.

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S. Zaccaria (Parrocchia, Campo, Calle, Sottoportico).
La chiesa di S. Zaccaria dicesi fondata da S. Magno nel VII secolo sopra un'isoletta chiamata «Ombriola», e subito fatta parrocchiale. I dogi Angelo e Giustiniano Partecipazio vi aggiunsero un monastero di Benedettine quando ricevettero in dono dall'imperatore d'Oriente Leone V il corpo di S. Zaccaria. Questo monastero venne riedificato sotto il doge Orso Partecipazio, eletto nell'864, dall'abbadessa Giovanna, figliuola di esso doge. Ebbe un'altra rifabbrica, insieme alla chiesa, dopo il terribile incendio del 1105, incendio in cui vuolsi che perissero soffocate 100 monache, rifugiatesi nel sotterraneo sussistente ancora a destra dell'altar maggiore. Negli anni 1456-1457 si diede mano ad innalzare la chiesa attuale, che fu compiuta nel 1515 sullo stile dei Lombardi. Il monastero fu soppresso nel 1810, e nel 1815 ridotto agli Uffizi della Ragionateria Centrale. Ora è caserma. A bella prima si chiuse anche la chiesa, ma poco dopo si ridonò al divin culto come sede di più ampia parrocchia, formata colle contrade delle circonvicine parrocchie allora soppresse.

Papa Benedetto III, essendo stato accolto, allorché nell'855 fuggiva la violenza dell'antipapa Anastasio, dalle monache di S. Zaccaria, fece dono alla loro chiesa di molte reliquie. Allora si stabilì che ogni anno, ai 13 del mese di settembre, anniversario della vigilia del giorno in cui ebbe luogo la consecrazione della chiesa predetta, essa venisse visitata dal doge e dalla Signoria. Nella prima visita il doge Pietro Tradonico ebbe in regalo dall'abbadessa Morosini un corno ducale tutto d'oro, e superbamente gemmato, col quale in seguito s'incoronarono i dogi; nella visita poi che fece l'anno 864 trovò la morte sotto i pugnali della fazione Barbolana. Ad inquisire sopra questo assassinio si formò una commissione che in seguito si rese permanente, formando il magistrato degli «Avogadori di Comun». La visita della chiesa di S. Zaccaria dal 13 settembre venne nei secoli successivi trasportata al giorno di Pasqua, e si mantenne fino alla caduta della Repubblica. In quest'occasione un altro doge, cioè Vitale Michiel II, venne ucciso da Marco Cassolo, come abbiamo narrato. Vedi Rasse (Calle delle).

Racconta il Sanudo che, regnando anche nel convento di S. Zaccaria il mal costume, ed avendosi preso il partito il 1° luglio 1514 di «serar il parlatorio di S. Zacharia per più honestà, andò el vicario dil patriarcha domino Zuan di Anzolo di Santo Severino, vicentino, dotor, a far questo efecto con alcuni capitani e oficiali; unde, visto questo le monache si meseno a uno con saxi, e li feno levarsi essi oficiali e vicario de lì per forza, ancora che non volesseno, unde hanno terminato luni di andar il patriarcha in persona a far questo efecto. Or poi di hordene del Consejo di X fo mandato a far le fenestre». Anche nei secoli XVII e XVIII grande era la libertà e la gajezza dei parlatorii delle monache, e specialmente di quello di S. Zaccaria. Colà convenivano persone d'ambi i sessi, avevano luogo brillanti conversazioni, si davano festini e mascherate, e v'era tutto quello che avesse potuto divertire le monache, non esclusi i casotti dei burattini, uno dei quali scorgesi dipinto dal Longhi in un suo quadro, che rappresenta appunto il parlatorio di S. Zaccaria, e che può ammirarsi nel Civico Museo.

Abitava a S. Zaccaria nel 1484, prima di trasferire il proprio domicilio in parrocchia di S. Angelo, Vittor Camelio, o Gambello, che in quell'anno col nome di «Vettor di mastro Antonio da S. Zaccaria», venne assunto a maestro di stampe nella nostra zecca.

All'ingresso, che dal «Campo di S. Provolo» guida a quello di S. Zaccaria, s'ammira un leggiadro bassorilievo, rappresentante la Vergine fra S. Giovanni Battista e S. Marco con sopra S. Zaccaria.

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S. Zan Degolà (Fondamenta, Rio, Campo, Traghetto).
«S. Zan Degolà» è corruzione di S. Giovanni Decollato. Questa chiesa fu eretta nel principio del secolo XI dalla famiglia Venier sopra un'isola, che alcuni erroneamente credono una delle «Pullarie», nominate da Strabone. Fu rinnovata nel secolo XIII dai Pesaro, e nel 1703 ridotta alla forma presente. Era anticamente parrocchia, ma, chiusa, si riaprì nel 1818 come oratorio sacramentale.

Celebre per santità si rese un Giovanni, che, circa il 1265, era pievano di questa chiesa. Alcuni lo fanno di cognome Olini, ma dice il Cicogna che questo equivoco fu prodotto dal trovarsi esso nominato negli antichi documenti «beato Zuane olim piovan de S. Zuan Degolado».

Avendo la flotta veneta superato nel 1358 quella dei Genovesi presso Negroponte, ed essendo tale vittoria accaduta il giorno di S. Giovanni Decollato, decretò il governo di celebrarne l'anniversario. Siccome però la chiesa del Santo parve alquanto angusta fu disposto che, alla ricorrenza del giorno suddetto, il doge colla Signoria visitasse invece la basilica di S. Marco.

In parrocchia di S. Giovanni Decollato morì il 13 novembre 1582 Pietro Lando arcivescovo di Candia, il quale venne sepolto a S. Sebastiano, ed era nipote di quell'altro arcivescovo di Candia per nome Giovanni Lando, accusato come falsario nel 1519. Vedi Carmine (Campo, Rio del).

Antichissima è la scultura innestata nel muro d'una casa in «Campo S. Zan Degolà» presso il ponte, la quale rappresenta la testa recisa del Santo sopra un bacino.

Scrive il Sanudo: «Adì 21 novembre 1500. In questa mattina è da saper fo discoperto un strano caxo in la contrà de S. Zuane di Golao ad uno ser Beneto Morexini quondam ser Jacomo, di anni 50, qual stava in caxa za 4 ani per mal franzoso e in leto; or havia un fiol bastardo di ani 9, et una saraxina; par siano sta trovati morti eri sera ditto ser Beneto in letto, et il puto su le legna, et la saraxina quasi morta, et non parlava per do ferite su la testa havia, et le casse tutte era aperte, et la roba dentro; fo incolpado pre Francesco oficiava in la chiesa, et ita fuit». In effetto il Sanudo medesimo così continua in data 19 decembre 1500: «In questo zorno fo exeguito la sententia del prete amazò s.r Benedetto Morexini. Fo portato per Canal fino a Santa Croxe, et davanti la porta del morto taiatoli la man destra, e menato a coa di cavallo fino a S. Marco, dove fo discopato, qual stentò assà a morir, et poi squartato in quatro parti».

Essendo i patrizii Giovanni Bragadin q. Vettor cav., Daniel Venier q. Giovanni, e Francesco Bon q. Alessandro proc. andati di conserva il sabato santo del 1590 alla casa d'Adriana Formento, meretrice «a S. Zuan Degolà al traghetto per mezo S. Marcuola», ed avendola ritrovata a desinare, la condussero in una camera, ed ivi, spogliatala per forza, la vollero, l'uno dopo l'altro, «etiam con modi stravaganti», usare contro natura, ad onta della «continua renitentia di detta donna così di pianto come di resistentia». Citati perciò, e non comparsi, furono banditi dal Consiglio dei X con sentenza 21 aprile 1590.

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S. Zorzi (Corte)
a S. Gallo. Sino dal 1161 Buonafante, già moglie di Giovanni Foscari, donò al monastero di S. Giorgio Maggiore alcune case di legno poste in questa situazione, che in seguito furono fatte di pietra, e fruttavano circa mille ducati di rendita. L'abate Jacopo Milanese le fece ricostruire nel 1542. La Descrizione della contrada di S. Geminiano pel 1661, parlando di queste case, le chiama: «Case delli R.di padri di S. Giorgio Maggiore, parte delle quali sono in campo Rusolo, parte in calle fuori del campo Rusolo, et il rimanente in Corte detta di S. Zorzi». Tuttora sopra l'ingresso della «Corte di S. Zorzi», nonché sopra una casa di fianco, scorgesi scolpito il cavaliere S. Giorgio.

Il monastero di S. Giorgio Maggiore apparteneva ai seguaci di S. Benedetto, e venne fondato da Giovanni Morosini sopra una isola posta di facciata alla «Piazzetta di S. Marco», donatagli nel 982 dal doge Tribuno Memmo, la quale anticamente chiamavasi «isola dei Cipressi» pei molti alberi di questa specie, ma poscia prese il nome di «S. Giorgio» per una chiesa sacra a questo santo, eretta dai Partecipazii nel 790, e di «maggiore» per contraddistinguerla dall'altra isoletta di S. Giorgio in Alga. Tanto il monastero, quanto la chiesa di S. Giorgio Maggiore vennero in seguito più volte ristaurati, e nel secolo XVI rinnovati dal Palladio, e successivamente compiuti da altri architetti. Alla soppressione degli ordini religiosi, ambidue gli edifici rimasero secolarizzati, ma poco dopo il secondo fu ridonato al divin culto per merito del patriarca Saverio Gamboni. L'isola frattanto convertivasi a luogo di franchigia pel commercio, e vi si costruiva il bacino, terminato da due torricelle. Quando poi nel 1829 si estese la franchigia all'intera città, diveniva emporeo delle merci nazionali con particolare dogana. Succeduti finalmente gli sconvolgimenti del 1848, qui tornava ad essere ristretta la franchigia, estesa la quale nuovamente nel 1851 a tutta la città, veniva l'isola occupata dal militare. Tale franchigia, detta volgarmente «Porto Franco», ora è abolita. Il tempio di S. Giorgio Maggiore si mantiene uffiziato da alcuni Benedettini.

Nel cenobio si radunò nel 1800 il conclave di cardinali donde uscì papa Barnaba Chiaramonti col nome di Pio VII.

Si ha memoria che il campanile di S. Giorgio Maggiore precipitò improvvisamente il 27 febbraio 1773 M. V. fracassando il dormitorio del chiostro, la sacrestia, ed il coro della chiesa, ove restarono feriti gravemente tre monaci, mentre stavano uffiziando, uno dei quali morì sull'istante.

S. Zorzi (Calle)
a S. Giovanni Decollato. E' detta negli Estimi «Calle di S. Martino», e così va letto, poiché l'immagine scolpita sul muro, appena imboccato il sottoportico, non è di S. Giorgio, ma di S. Martino. Derivò forse lo cambio del nome dalla circostanza che ambidue i santi si rappresentano a cavallo. Quell'immagine è forse lo stemma di qualche confraternita, o corporazione religiosa, sacra a S. Martino.

S. Zorzi (Calle, Corte Prima, Corte Seconda)
in «Frezzeria». Nella Descrizione della contrada di S. Moisè pel 1661 vengono appellate queste strade non di «S. Zorzi», ma di S. Nicolò per le case che vi possedeva il monastero di S. Nicolò del Lido. Le case suddette vennero vendute il 22 agosto 1778 dai «NN. UU. Aggiunti sopra Monasteri», a «Domenico Maria Gobbi», essendo già stati soppressi fino dal 1770 i Benedettini di S. Nicolò. L'origine dell'attuale denominazione ci è ignota, se pur essa non dipende da qualche «capitello», od altarino, sacro a S. Giorgio.

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S. Zuane (Calle)
in «Rio Marin», a S. Simeone Profeta. «Tommaso Bogieti sartor» donò alla Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista, con istrumento 5 febbraio 1474 M. V., in atti di Francesco Rossi N. V., «una casa de statio con case da sazenti, corte, pozzo, et orto, in Rio Marin, al Ponte della Latte». In seguito la Scuola di S. Giovanni Evangelista comperò colà, con istrumento 13 marzo 1605 in atti di G. Paolo Dario N. V., un'«altra casa de statio con corte, orto, sive teren vacuo, da Zuane Cavazeni». Avendo poi bisogno «d'impiegar li denari cavati dall'affrancatura del Monte», operò, secondo il catastico, una rifabbrica nel 1608, e ne sorsero le nove case che nelle Descrizioni della contrada di S. Simeone Grande figurano come possedute dalla scuola di S. Giovanni Evangelista nella «Calle di S. Zuane», presso il «Ponte della Latte». Di questa scuola abbiamo altrove parlato. Vedi Scuola (Calle della) a S. Giovanni Evangelista.

S. Zuane .
Vedi anche S. Giovanni.

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Sacca (Ponte della)
alla Misericordia. Questo ponte, da cui si gode un'incantevole veduta dell'isole di S. Michele e di Murano, ebbe il nome dalla vicina «Sacca della Misericordia». Per «sacca» noi intendiamo un luogo ove l'acqua s'insinua e forma quasi una rada. Molte di tali sacche avevamo anticamente in Venezia, ma la maggior parte di esse si andò a poco a poco interrando. Tale operazione fu permessa dal Senato con decreto 3 decembre 1460, e si continuò in tempi posteriori, poiché leggesi che anche nel 1675 vennero interrate 12 sacche.

La Sacca della Misericordia, ove si scorgono le zattere di legname, è così descritta da Nicandro Jasseo:

........ stagnat

Planities quadrata undis; pars quarta lacunae

Iungitur, et latere ex triplici tecta ardua surgunt.

Orta procul quae ligna vides, ac vimine nexa,

In molem congesta gravem, ratis ipsa simulque

Grande onus extiterant; hic solvunt more tributum

Postquam praecipiti superant declivia cursu

Flumina .......

In punta della «Sacca della Misericordia» esiste il «Casino degli Spiriti», così detto a cagione degli arcani rumori che in esso è fama ascoltarsi, prodotti forse dal vento, oppure a cagione dell'eco, il quale rimanda distintamente dal casino tutte le voci pronunziate all'estremità delle «Fondamente Nuove», fenomeno ritenuto altre volte dalla superstizione popolare come un prestigio diabolico. Vuole invece il Zanotto che il casino acquistasse tale denominazione perché era il ritrovo de' più begli spiriti e talenti del secolo XVI, quali l'Aretino, il Tiziano ecc. Non sappiamo donde il Zanotto abbia tratto la surriferita notizia.

Il «Ponte della Sacca» alla Misericordia fu per la prima volta eretto in legno dalla famiglia Contarini, che ha palazzo di fronte, e ciò per concessione 14 aprile 1505 dei Procuratori «de Citra», proprietarii delle case al lato opposto situate.

Sacca (Calle)
a S. Francesco della Vigna. Le case di questa calle, che non ha sfogo, si dicono dagli estimi poste «in Sacca». Ed è noto che tanto in Venezia, quanto altrove, le strade senza sfogo chiamansi «sacche».

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San Giovanni (Ruga Vecchia).
Tramandano gli scrittori che la chiesa di S. Giovanni Elemosinario, detta «San Zuane de Rialto», venne fondata dalla famiglia Trevisan, ma tacciono sul quando. Si può arguire che ciò avvenisse in epoca antica, sapendosi che nel 1071 precipitò il campanile. Esso avrà avuto allora una rifabbrica, benché nella forma presente sia stato costrutto soltanto nel secolo XV. In effetto, l'«Index Librorum Consilii Rogatorum» (ms. nella Marciana) ha sotto la data 13 settembre 1408: «Campanile S. Johannis Rivoalti struitur». E si sa poi che andò compiuto nel 1410. Dopo l'incendio del 1514 fu rinnovata anche la chiesa dall'architetto Scarpagnino, sotto il governo del parroco Nicolò Martini (an. 1527-1539), e consecrata il 28 settembre 1572 per mano di Daniel Vocazio vescovo Dalmaziense. Era parrocchiale, dipendendo immediatamente dal doge, che ne eleggeva il pievano, i tre preti titolati, il diacono, ed il suddiacono, dai quali, unitamente ad altri 28, tra sacerdoti e chierici, veniva decorosamente ufficiata. Nel 1808 divenne succursale di S. Silvestro.

In «Ruga Vecchia» di San Giovanni di Rialto arse il 28 aprile 1773 un grave incendio nella bottega d'uno speziale, della quale erano proprietari i frati di S. Nicolò del Lido.

Chi brama di sapere perché la «Ruga San Giovanni» si chiami «Vecchia», vegga Vecchia (Calle). Anticamente chiamavasi anche «Ruga dei Oresi», al par dell'altro tratto di strada presso S. Giacomo.

Appresso la chiesa di San Giovanni di Rialto eravi un istituto, ove, mattina e dopopranzo, tenevansi pubbliche letture di teologia e filosofia da professori stipendiati dal governo, fra cui alla fine del secolo XV si distinse il patrizio Antonio Corner.

San Giovanni (Campiello, Fondamenta)
alla Giudecca. Per disposizione testamentaria, fatta nell'anno 1333, non da Bonacorso Bonacorsi, oppure da Bonacorso Benedetti, come erroneamente dicono le cronache, ma bensì da Bonacorso Moriconi, soprannominato Boneta, mercadante di seta lucchese, morto nel 1339, si eresse alla Giudecca una chiesa dedicata alla B. V., San Giovanni, e S. Francesco con annesso monastero di monaci Camaldolesi. Ciò si deduce dalla seguente iscrizione posta sopra la sepoltura d'esso Moriconi: S. Bonacursi Moriconi Dicti Boneta De Luca Civis Venetiar. Obiit Anno Domini mcccxxxviv Mensis Madii Pro Anima Cuj. De Bonis Suis Factum Est Istud Monast. Mariae Et Sanctorum Iohannis Baptistae et Francisci Confessoris Quorum Precibus Anima Ipsius Bonacursi Requiescat In Pace. Amen. Pro Anima Cuius Et Suorum Eredum Nos Tenemur Exorare Dominum. A queste fabbriche, che volgarmente si denominarono dal solo San Giovanni, si aggiunse pure un ospitale per venti poveri. Quanto al monastero, esso venne compiuto nel 1344 e nel 1369 dilatato. L'Ordine dei Camaldolesi restò soppresso nel 1767 dalla Repubblica Veneta. Ciò nonostante, alcuni di quei religiosi continuarono ad uffiziare la chiesa, che però nel principio di questo secolo fu, insieme al monastero, demolita.

Sulla «Fondamenta di San Giovanni» scorgesi un palazzo che apparteneva alla famiglia Barbaro, in cui Ermolao Barbaro instituì nel 1484 un'accademia di filosofia. Passato questo palazzo alla famiglia Nani, si diede la stessa ad abitarlo, e colà l'istoriografo Nani raccolse l'accademia dei «Filareti». Una lapide affissa alla parete serba memoria della celebre istituzione.

In ca' Nani alla Giudecca si diede nell'8 settembre 1755 una brillantissima cena, con cento e ventinove convitati, in onore del principe Clemente Augusto di Baviera, elettore ed arcivescovo di Colonia, venuto il 29 agosto di quell'anno a visitar Venezia.

Essendo sorta rissa, per cagione di giuoco, nel casino di San Felice fra i NN. UU. Emilio Arnaldi di Vincenzo, e G. Alvise Barzizza q. Antonio, deliberarono i contendenti di venire alla prova dell'armi. Il duello successe a S. Giovanni della Giudecca il 22 gennaio 1738 M. V. facendo da padrino il conte Vincenzo Silva, cugino del Barzizza. Tutto finì con una leggera ferita riportata dall'Arnaldi, che venne assolto, e col bando del Barzizza e del Silva. Il fatto tuttavia destò rumore, essendo esso uno dei pochi di tal genere successi fin allora in Venezia.

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San Giuliano (Piscina, Campo, Rio, Merceria).
La chiesa di S. Giuliano fu edificata verso l'829 da Giovanni Marturio, che, al tempo dell'esiglio del doge Giovanni Partecipazio I, reggeva lo stato con Orso vescovo di Castello, e Basilio Trasimondo. Dopo l'incendio del 1105, venne rifabbricata a spese forse della famiglia Balbi. Si rifabbricò nuovamente nel 1553 sul modello del Sansovino, coadiuvato dal Vittoria. Largì a tal uopo una grossa somma di danaro quel Tommaso Rangone da Ravenna, cavaliere, filologo, e medico insigne, la cui statua, fusa in bronzo dal Vittoria, scorgesi seduta sulla porta, essendovi negli intercolunnii scolpite due iscrizioni dettate dallo stesso Tommaso, ebrea l'una, greca l'altra, che dicono pomposamente: aver egli composto molti libri in varia scienza; aver trovato il modo di protrarre l'umana vita oltre ai 120 anni; avere eretto del suo quella fabbrica; avere colla sapienza sua reso illustri i ginnasi di Roma, Bologna, e Padova.

Tommaso Rangone fece sorgere eziandio a sue spese, sopra disegno del Vittoria la porta del convento del Sepolcro, sopra la quale scorgevasi una statua ed un'epigrafe in di lui onore, ora trasportate nel Seminario della Salute. Egli beneficò eziandio la chiesa di S. Geminiano, sua parrocchia, ove ammiravasi un di lui busto in bronzo, oggidì esistente nel Veneto Ateneo. A Padova poi, presso il «Ponte Molin», fondò il collegio Ravenna per trentadue scolari.

Quantunque munifico, era uomo bizzarro ed assai vanaglorioso, il che manifestossi specialmente nel suo testamento, fatto il 10 agosto 1577, in atti Baldassare Fiume. Ordinò con esso un pomposissimo funerale che dalla «Piazza di San Marco», ove abitava, dovesse, prima di giungere alla chiesa di S. Giuliano, destinata alla sepoltura, percorrere un lungo giro per la città, mentre suonassero le campane d'ogni chiesa per cui passasse la salma, ed il clero uscisse sulla porta colla croce e l'acqua santa per benedirla. Volle tre laudazioni funebri, e che si portassero in processione i modelli della chiesa di San Giuliano, i libri da lui composti, additando anche le pagine alle quali dovevano stare aperti, nonché altre preziose suppellettili di casa. Prescrisse quali anelli dovessero essergli posti nelle dita, e come dovesse essere vestito il di lui bibliotecario precedente il feretro. Il Rangone morì il 13 settembre 1577 in età di 94 anni, e, come aveva ordinato, venne sepolto in chiesa di San Giuliano nel coro, con epigrafe posta dai di lui commissarii. Senonché, avendosi disposto nel 1823 che fossero interrate le sepolture della chiesa predetta, levossi anche la lapide del Rangone, e sotto di essa ritrovossi una cassa di marmo carrarese, fatta in modo particolare poiché v'era l'incastro per la testa, per le spalle, per le coscie ecc. del cadavere. Questa cassa rimase in potere dell'assuntore dei lavori che la donò al Lapidario della Salute, e l'ossa, che in essa ritrovaronsi, furono trasportate a Sant'Arian. Anche la lapide trasportossi all'ingresso della porta maggiore.

La chiesa di San Giuliano, consecrata nel 1580, era parrocchiale, ma nel 1810 divenne succursale di San Marco.

Il campanile, per essere cadente, fu atterrato nel 1775.

Secondo alcuni, presso la chiesa di S. Giuliano venne a morte Pietro, figlio di Giovanni Marturio, patriarca di Grado, prelato ben noto per le sue contese giurisdizionali col doge Orso Partecipazio.

In parrocchia di San Giuliano abitò e venne a morte Tomasina Morosini, regina d'Ungheria. Vedi Pignoli (Fondamenta ecc. dei).

V'abitò e vi venne a morte Giacomo Surian, celebre medico ariminese. Vedi Banchetto (Sottoportico e Corte ecc. del).

V'abitava pure nel 1582, probabilmente prima del suo matrimonio, la celebre letterata Modesta da Pozzo del q. Girolamo, che abbiamo veduto decessa, dieci anni dopo, in parrocchia di S. Basso. Essa, notificando nel 1582 ai X Savii case a S. Geremia e campi nella villa di Borgoricco, sotto Campo S. Piero, «pro indiviso» con Leonardo da Pozzo, di lei fratello, dichiarò di domiciliare in quell'anno a S. Giuliano in casa col proprio zio Nicolò Doglioni, notaio di Venezia.

Pre' Francesco Fabrizio, titolato di San Giuliano, già cappellano della Scuola di San Rocco, e maestro del Sestier di San Marco, venne decapitato ed abbruciato per sodomia l'8 maggio del 1545.

Essendo altri preti di S. Giuliano venuti a male parole l'11 decembre 1621, e dalle parole ai fatti con effusione di sangue, la chiesa, ove nacque la zuffa, dovette restar chiusa per tre giorni, e quindi fu ribenedetta e riaperta per mano del patriarca. Vedi il «Giornale delle Cose del Mondo dal 1621 al 1623» (Codice Cicogna 983).

In parrocchia di San Giuliano terminò i suoi giorni il 14 giugno 1789, in età d'anni 84, l'architetto Tommaso Temanza. Racconta il Benigna che, durante il funerale, nacque rissa fra il nunzio della scuola del Santissimo di San Giuliano, e quello della scuola del Santissimo di San Giobbe con istrappo del manto dalla cassa mortuaria.

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San Gregorio (Campo, Calle, Calle del Traghetto, Ponte).
Non consta in qual anno sorgesse la chiesa di S. Gregorio, ma è certo, per testimonianza del Dandolo, che essa esisteva fino dall'897. Ebbe una rifabbrica dopo l'incendio del 1105, e verso il 1140 passò sotto la giurisdizione degli abati Benedettini di S. Ilario. Allorché questa famosa abazia restò distrutta nel 1247 dal tiranno Ezzelino, gli abati coi monaci si ritirarono a Venezia presso l'accennata loro chiesa, e Fridiano, uno di essi, la ristaurò, come si crede, nel 1342, contemporaneamente al monastero. Dopo il 1450, gli abati regolari furono sostituiti dagli abati commendatarii, il primo dei quali, Bartolammeo Paruta, tornò a ristaurare la chiesa di S. Gregorio, che venne uffiziata non più da monaci, ma da un cappellano ed altri sacerdoti, eletti dagli abati, ed aventi la cura spirituale del circondario. Finalmente nel 1775 fu soppresso il titolo abaziale, ed istituito quello di pievano. La chiesa di S. Gregorio fu secolarizzata nel 1808.

In capo al «Rio di S. Gregorio» solevasi celebrare, come in altri punti di terra e di acqua della città, le così dette «Forze d'Ercole» dalle due opposte fazioni dei Castellani e dei Nicolotti. Così descrive il Mutinelli nel suo «Lessico Veneto» questo divertimento: «Steso un tavolato sopra alcune botti, se il giuoco era fatto in terra, e sopra due chiatte se veniva fatto in un canale, ciò che era più in uso ed avveniva più spesso, vi si innalzava sopra un edifizio vivente perché composto tutto di uomini. La base in gergo fazionario detta saorna era formata da più individui stretti ed uniti fra loro mediante alcuni regoli sostenuti dalle loro spalle. Sopra questi regoli, e per conseguenza sugli omeri di chi li reggeva, saliva un'altra mano di uomini, quindi una terza, una quarta, ed una quinta, le quali, rinnovando il maneggio dei primi ed alle volte accosciandosi senza regoli (posizione che dicevasi i banchetti) si venivano a formare diversi piani appellati ageri. Ad ogni piano però andava gradatamente a diminuire la massa delle persone, di guisa che l'ultimo, il quale diveniva quasi il comignolo della fabbrica, ed era il sesto, il settimo, o l'ottavo, finiva con un solo fanciullo appellato cimiereto, non mancando colui, in situazione tanto elevata e rischiosa, di fare un caporovescio. Abbenché questo giuoco necessariamente, per legge di gravità, non potesse offrire una forma diversa dalla piramidale, pure, alcun poco variando alle volte in conseguenza delle arrischiate modificazioni che vi si introducevano sempre dai giuocatori affine di soprastare la fazione avversaria, e che stavano soltanto nel maggiore o minor numero degli ageri, dei banchetti, e nella diversità di altri scorci o positure, accadde che ogni giuoco avesse una particolare denominazione. Quindi, come ho veduto in una matricola, che aveva appartenuto ad una delle due fazioni, vi erano, a modo d'esempio, i giuochi nominati l'Unione, la Cassa di Maometto, la Bella Venezia, il Colosso di Rodi, la Verginella, la Gloria, la Fama ecc., giungendo poi in questi giuochi l'ardimento a tanto che un uomo eseguiva un caporovescio sopra la testa d'un altro, che era ritto sulle spalle d'un terzo, i cui piedi poggiavano soltanto sopra i ferri d'una gondola».

Le «Forze d'Ercole» si diedero in «Rio di S. Gregorio» anche il 31 maggio 1810 per festeggiare l'anniversario della coronazione a re d'Italia di Napoleone I, e del di lui matrimonio con Maria Luigia. Scrive il Cicogna, nei suoi «Diarii manoscritti», che i Nicolotti fecero bene il primo giuoco, ma poco bene il secondo, poiché il «sottocimiero» sporse una spalla, laonde cadde il «cimiero» prima del compimento. Subentrarono i Castellani, che ebbero da prima fortuna, ma mentre s'apprestavano al secondo giuoco, persone corrotte dai Nicolotti sollevarono rumore, fingendo che loro fossero stati involati i fazzoletti e le tabacchiere. A sedare il tumulto, le guardie sguainarono le daghe, sicché nacque confusione indicibile, alcuni si gettarono nelle barche, che, pel soverchio peso, si capovolsero, altri restarono soffocati dalla folla sulle Fondamente; un individuo, che ammirava lo spettacolo dal tetto d'una casa, protendendo la persona, cadde, e morì di colpo; si ebbero dieci altri morti, con vari feriti, ed andò perduta roba non poca.

In parrocchia di S. Gregorio abitava e morì quel Bartolammeo Bozza, autore di varii mosaici che adornano la basilica di S. Marco. Nei Necrologi Sanitarii: «1594. A dì 17 ottobre. M. Bortolo Boza dallo musaicho, d'anni 74, da febbre mesi 2. S. Gregorio».

A quanto abbiamo detto circa la chiesa di S. Gregorio aggiungeremo che in un pilastro della medesima, entro una cassetta di larice, fu deposta nel 1576 la pelle di Marcantonio Bragadin, l'intrepido difensore di Famagosta, scorticato vivo dai Turchi nel 1571. Vedi Bragadin (Calle). Chi la sottrasse dall'Arsenale di Costantinopoli, ove custodivasi, fu, circa all'anno 1575, uno schiavo di nome Girolamo Polidoro da Verona, il quale, liberato coll'oro dei Bragadin, presentò il 1° dicembre 1587, una supplica per ottenere in premio sedici ducati mensili, ma non potè ottenerne che cinque soltanto, per decreto del Senato 13 febbraio 1587 M. V. La pelle del Bragadin fu il 18 maggio 1596 trasferita in apposita urna nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. «Essa», dice una cronaca già dai Bragadin posseduta, «era piegata in ampiezza d'un foglio di carta, salda, e palpabile come fosse un pannolino; vi si vedevano i peli del petto ancora attaccati, et alla mano destra, che era scorticata, le dita non compiute di scorticare con l'unghie che sembravano ancora vive» ecc. Nel 1762 i frati dei SS. Giovanni e Paolo s'accinsero a visitare l'urna, e la trovarono con un foro nella parte risguardante il muro, donde scorsero una cassetta, la quale, appunto per essere l'urna suddetta col foro al muro, non poteva estrarsi.

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Santissimo (Corte e Sottoportico del)
a S. Maurizio. Dalla immagine del Santissimo, scolpita in pietra sul prospetto di una casa con sopra le parole: sia laudato il santis. sacramento, ed all'intorno e sotto, le altre: regi saeculorum immortali et invisibili domus et om.ia p.ri caimi m.ci viii 7bris die nativitatis virg.s mariae anno domini mdclxv, che noi interpretiamo: al re dei secoli immortale ed invisibile le case e tutte le proprieta' di pietro caimo medico (vengono offerte) viii settembre, giorno della nativita' di maria vergine, anno del signore mdclxv. Ritroviamo infatti che «l'Ecc. Pietro Caimo Medico q. Azino da Udine» comperò il 16 luglio 1658 dai Procuratori «de Supra», quali commissari di Marcantonio Morosini «una casa posta in contrà di S. Mauritio», e rileviamo dalla Descrizione della parrocchia di San Maurizio pel 1661 che la casa suddetta, in quel tempo appigionata al «sig. Co. Paolo Conti Padovano», sorgeva precisamente nella corte fin d'allora detta «del Santissimo». Crediamo poi che l'anno 1665 dell'iscrizione segni l'epoca nella quale Pietro Caimo riedificò il proprio stabile, e rinnovò insieme l'immagine del Santissimo colà prima esistente. Pietro Caimo nel 1661 abitava in parrocchia di San Giuliano, giù del «Ponte dei Ferali», in una casa di «D.o Biasio e Marco fratelli Donati», possedendo in quelle vicinanze altre due case comperate dalla procuratia «de Citra».

Santissimo (Rio del)
a S. Stefano. O dall'avere l'imboccatura dietro la «Corte del Santissimo», per la quale vedi l'articolo antecedente, o, meglio, dallo scorrere che fa sotto la cappella del Santissimo venerato nella chiesa di Santo Stefano.

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Scala Matta (Corte)
in «Ghetto Vecchio». Confessiamo d'ignorare l'origine di siffatta denominazione, se pur essa non sia corruzione di «Calamatta», cognome di famiglia.

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Scimia (Calle, Ramo della)
a S. Salvatore. Da un'osteria all'insegna della «Scimia». Lo stabile nel 1661 era della famiglia Nani.

Scimia (Calle della)
o delle Spade, a Rialto, presso la «Pescheria Grande». Troviamo che, fino dal 1498, questa calle porta la sua denominazione, derivante da un'altra osteria all'insegna della «Scimia», che esisteva in un fabbricato donato alle monache di S. Lorenzo da Giovanni Venier, con istrumento 5 settembre 1227, in atti del prete e notajo Pietro Bonvicini. Fino dal 1381, 27 febbraio M. V., le monache avevano appigionato ad uso di osteria, coll'insegna della «Scimia», il fabbricato medesimo, di cui parla il Sanudo nei «Diarii», raccontando che nel terribile incendio del 10 gennaio 1513 M. V. andò in fiamme l'«hostaria de la Scimia che è di le muneghe di S. Lorenzo, et era nova».

Questo fabbricato serviva ad eguale destinazione anche nel secolo trascorso, mentre la Descrizione della parrocchia di S. Giovanni Elemosinario pel 1713 pone in «Calle della Scimia», a Rialto, uno stabile delle monache di S. Lorenzo, per cui pagava pigione «Simon Mascaroni hosto alla Scimia».

Per quanto sembra, fuvvi eziandio in questa calle un'osteria all'insegna «delle Spade», che diede il nome anche alla prossima «Calle dietro le Spade», e che era ben diversa dall'osteria all'insegna medesima, respiciente il «Rio delle Beccherie».

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Scuola (Corte della)
a San Giovanni Evangelista. La Scuola di San Giovanni Evangelista dà il nome a questa località.

Usavano i Veneziani di raccogliersi in alcune pie confraternite, appellate «scuole», vocabolo proveniente dal greco, e dinotante unione di persone che danno opera, od attendono a qualche cosa. Dicesi che questo costume sia stato portato in Italia nel secolo VII dalla Germania per mezzo di S. Bonifacio. Le scuole si dividevano in grandi e minori, conosciute anche sotto il nome di «fraglie». Le scuole grandi, così chiamate per la loro magnificenza, dovizie e privilegi, erano sei: di S. Teodoro, di S. Maria della Carità, di S. Gio. Evangelista, di S. Marco, della Misericordia e di S. Rocco. Assai più numerose erano le minori, composte per la maggior parte dai varii corpi delle arti e mestieri. Ogni scuola grande aveva il suo edificio ove raccoglievasi; il suo edificio avea pure, od almeno il suo altare in qualche chiesa, ogni scuola minore, o «fraglia». Sì le une che le altre facevan molte opere di carità dotando annualmente povere donzelle, e dispensando in dono case, danari, e mantelli. Talvolta fornivano eziandio militi allo Stato. Erano rette da speciali statuti, raccolti in alcuni libri chiamati «mariegole» (quasi «madri regole»), con un guardiano, un vicario, ed uno scrivano per ciascheduna.

Venendo ora a parlare della Scuola di S. Giovanni Evangelista, diremo come una delle confraternite suddette, stabilita fino dal 1261 in chiesa di S. Apollinare, si trasferì nel 1307 in quella di S. Giovanni Evangelista, allora sottoposta al juspatronato della familia Badoer, che colà possedeva pure un ospizio per povere donne da essa fondato. I Badoer nel 1340 concessero alla confraternita un prossimo terreno vacuo ove incominciò ad innalzare un edificio per le proprie radunanze, che compì del tutto soltanto nel 1453, avendo fino dal 1414 ottenuto di poter disporre anche dell'ospizio, a patto di fabbricarne uno di nuovo in vicinanza. Il bell'arco di ingresso al cortile, lavoro di Pietro Lombardo, data dal 1481. La suddetta confraternita contava di rendita 18mila ducati, e personaggi altissimi vi erano ascritti, fra cui Filippo II re di Spagna. Nemmen essa però potè resistere alla comune soppressione, avvenuta nel principio del secolo presente. D'allora in poi il magnifico locale ove raccoglievasi servì da magazzino erariale, finché l'appaltatore Gaspare Biondetti, sorretto da molti soci, comperollo e, ristaurati i guasti recatigli dal tempo, lo ridonò al divin culto il 27 decembre 1857 per uso della «Società di mutuo soccorso fra gli operai dell'arti edificatorie», da lui istituita.

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Scuola (Calle a fianco, Sottoportico, Ponte, Ramo della)
a S. Rocco. Fino dai primordi del secolo XV esisteva presso la chiesa dei Frari una confraternita sotto l'invocazione di S. Rocco. Unitasi ad un'altra confraternita, che in onore del medesimo Santo esisteva in S. Giuliano, edificò nel 1478 un tempio sacro a San Rocco, e nel 1481 fu ascritta dal Consiglio dei X fra le scuole grandi della città. A mezzo di due monaci Camaldolesi, riuscì eziandio nel 1484 di trafugare da Voghera il corpo del suo Santo protettore. Senonché, per ignoti motivi, si allontanò nello stesso anno dai Frari, atterrò la chiesa innalzata, e trasferissi in un sito nella parrocchia di S. Samuele, ove sorgeva un antico oratorio dedicato a S. Susanna. Colà stava per erigere una nuova chiesa, quando, mutato consiglio, stabilì la sua dimora nel palazzo dei patriarchi di Grado a San Silvestro. Poscia, insorti alcuni litigi, ritornò a S. Maria Gloriosa dei Frari e, fatti nuovi accordi coi padri Minori, rialzò nel 1489 la chiesa in onore di San Rocco, e traslatovvi il corpo del Santo. Tre anni dopo costrusse la prima scuola, che in seguito ampliò e ristaurò. Essa sussiste ancora col nome di «Ragionateria Vecchia», o «Vecchia Scuola». Circa poi il 1516, giunti i devoti confratelli al numero di 500, vollero erigere un più ampio e magnifico edificio per le loro adunanze. Sembra che, sopra un modello preesistente, lo incominciasse maestro Bartolammeo Buono, a cui si sostituì Sante Lombardo, e finalmente lo Scarpagnino. La fabbrica ebbe compimento nel 1549, e costò 47.000 ducati d'oro. La confraternita di S. Rocco contava nel passato secolo circa 60.000 ducati di rendite, buona parte dei quali erogava a sollievo dei poveri. In premio di tali beneficenze, il Pontefice Pio VI nel 1789 innalzolla sopra le altre, concedendole, con molte spirituali prerogative, il titolo di Arciconfraternita. Nella generale soppressione del 1806, per cui non si lasciarono sussistere che le fraternite del SS. Sacramento, l'arciconfraternita di S. Rocco fu l'unica rispettata. Il demanio avocò le sue rendite, ma vi sostituì un conveniente assegno pell'uffiziatura della chiesa. Questo sodalizio tuttodì fiorisce, e conta molti confratelli specialmente nel ceto dei mercadanti.

Nella scuola di S. Rocco si esponevano pubblicamente il giorno del Santo le opere di pittura dei giovani maestri veneziani.

Scuola (Campiello dietro la)
a S. Fantino. Apresi dietro quell'edificio che era un tempo sede d'una confraternita intitolata a Nostra Donna, la quale, avendo assunto l'incarico di accompagnare i rei al patibolo ed alla tomba, chiamavasi di S. Maria della Giustizia o della Buona Morte. Nel 1458 essa si congiunse alla scuola di S. Girolamo, istituita nella chiesa di S. Fantino, onde si disse anche di S. Girolamo. Nel principio del secolo XVII prese a ristaurare il locale ove radunavasi, sul disegno di Alessandro Vittoria, che alzò la facciata respiciente il «Campo di S. Fantino» in due ordini, ionico e corinzio, non sapendosi però guardare dai difetti dell'epoca, volta al corrompimento. Soppressa la confraternita di S. Maria di Giustizia, accolse questo locale nel 1810 la Società di Medicina e poscia varie altre accademie donde formossi l'Ateneo Veneto, il quale vi ha stanza tuttora.

Dietro la Scuola di S. Maria della Giustizia, in una notte del mese di giugno 1622, venne uccisa con 12 ferite nella testa Angela Celsi, cortigiana, per rubarle quanto possedeva (Codice Cicogna 2454).

Uno scherzoso aneddoto fu inserito nell'«Archivio Veneto» riguardo la Scuola medesima. Litigando essa negli ultimi tempi della Repubblica per ragioni possessorie con le sorelle Bettina ed Anna Vidoni, note cortigiane, domiciliate in una loro casa propinqua, ed avendosi un giorno svolto il piato presso la Quarantia Civile, si sparse per la città il seguente epigramma:

Gran sussuro, gran schiamazzo

Xe sta fato ancuo a Palazzo

Tra la scola dei Picai

E la casa dei Pecai.

Scuola (Calle della)
a S. Maria del Carmine. La confraternita di S. Maria del Carmine incominciossi ad unire nel 1594. Nel secolo XVII innalzò l'edificio che tuttora si scorge presso la chiesa. Altre volte dispensava questa scuola 125 grazie all'anno, di 10 ducati l'una, affine di collocare donzelle in matrimonio, o far loro vestire l'abito monacale. Soppressa nel 1806, venne poscia ripristinata.

Scuola (Calle della)
allo Spirito Santo. Nel 1492, sotto il doge Agostino Barbarigo, fu istituita la Scuola dello Spirito Santo nella chiesa del medesimo nome, e poscia confermata nel 1496 con ispeciale autorità di formare le proprie leggi. Nello stesso anno venne aggregata all'Archiospitale di S. Spirito di Saxia in Roma. Nel 1506, 27 agosto, il Consiglio dei X decretò il fondo perché si erigesse il locale di riduzione pei confratelli, locale che tuttora vediamo in piedi, e che diede il nome alla calle di cui stiamo parlando. La Scuola dello Spirito Santo, che al dir del Coronelli, componevasi di 400 confratelli, cioè 200 preti e 200 secolari, fra i quali molti patrizi, restò soppressa nel 1807. Per maggiori notizie vedi l'opuscolo: «Archiconfraternita e Suffragio dello Spirito Santo. Venezia, per Giacomo Tommasini, MDCCXLVIII».

Scuola (Calle della)
a S. Gregorio. Alcuni uomini caritatevoli, essendo promotori Negrin di Ronchi ed Antonio Tirabosco, presero a pigione nel 1575 da Giacomo Saloni, cittadino veneziano dal confine di S. Gregorio, un terreno vacuo, e vi costrussero un oratorio sacro alla B. V., nel quale piantarono una scuola di Dottrina Cristiana. Essa componevasi da una pia unione di ecclesiastici e secolari, presieduta dal patriarca, e dicevasi Scuola Maggiore, perché fino dal 1592 avea avuto l'incarico di regolare tutte le scuole maschili di Dottrina Cristiana della città. Nell'edificio ove raccoglievansi erano chiamati nei giorni prescritti i fanciulli di più parrocchie per volta a recitare tutta la dottrina, in cui se venivano riconosciuti abbastanza periti, si eleggevano a maestri delle rispettive chiese parrocchiali, e riportavano una ricompensa divota. La Scuola Maggiore ebbe termine nel 1807. Vedi: «Storica narrazione sull'origine delle Scuole di Cristiana Dottrina. Venezia, Tip. Tasso, 1830».

Scuola (Calle della)
alla Maddalena. Dalla scuola dei «Finestreri» (finestraj), che un tempo era dedicata a S. Maria Maddalena. Nelle «Condizioni della Diocesi di Venezia e Dogado», presentate nel 1564 ai «Sopraintendenti alle Decime del Clero», troviamo che alla Maddalena esisteva una «casetta appo la chiesa, sopra la Sagrestia, la qual tien ad affitto la Scola dei Finestreri». Ciò prima che la chiesa di S. Maria Maddalena venisse rifabbricata quale presentemente si vede.

L'arte «dei Finestreri» fu chiusa nel 1474. Essendosi in essa, come in altre parecchie, introdotto nel secolo passato gran numero di Grigioni, professanti la religione protestante, e ciò dando luogo a questioni, decretò il Senato, che niuno potesse essere eletto per Capo Maestro nelle arti dei Finestrai, Acquavitai, Arrotini, e Pestrinai se i votanti della Banca e Capitolo non fossero almeno per due terzi appartenenti al Cattolicismo.

Scuola dei Fabbri (Calle della)
a S. Moisè. Vedi Fabbri.

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Soranzo (Corte)
a S. Martino. Da un antico palazzo, che apparteneva ad un ramo della patrizia famiglia Soranzo. Si fa discendere questa famiglia dalla gente Superanzia di Roma, e si dice venuta da Altino o da Burano nel 456. Si dice pure fregiata della potestà tribunizia, ed ammessa al Consiglio fino dal 747. Un Giovanni Soranzo, spedito generale di venticinque galere contro i Genovesi nel 1295, prese Caffa nel Chersoneso Taurico. Poscia nel 1310 ebbe l'incarico di persuadere Bajamonte Tiepolo ad abbandonare Venezia, e finalmente nel 1312 ascese al soglio ducale, che tenne con gloria per sedici anni e mezzo. Aspro ed incomposto nell'esteriore ci viene dipinto dai cronisti come gentile e cortese ne' fatti. L'agone ove la famiglia Soranzo, al pari di quasi tutte le patrizie famiglie veneziane, maggiormente rifulse, furono le guerre contro i Turchi. Noi, per istudio di brevità, staremo contenti a nominare soltanto quel Benedetto Soranzo, sopraccomito della galera intitolata il «Cristo Risuscitato» nella grande giornata delle Curzolari, il quale, essendo ferito da tre colpi di freccia, e vedendosi uccisi all'intorno tutti i suoi commilitoni, appiccò fuoco alle munizioni, e saltò in aria col naviglio, e coi nemici, che già se n'erano fatti padroni. I Soranzo produssero pure alcuni vescovi, e fabbricarono la chiesa di S. Samuele, nonché la facciata di quella di S. Giustina. Parecchie strade furono da loro denominate.

Soranzo (Calle)
detta Correr ai SS. Ermagora e Fortunato. Per la prima famiglia vedi l'articolo antecedente. Per la seconda vedi Correr (Ponte ecc.). Questo ramo dei Correr era domiciliato in un prossimo palazzo risguardante il «Canal Grande», ove nel 1687 alloggiò il duca di Savoja. Il ramo Correr da S. Marcuola andò estinto nel 1771 in un Gregorio, al secolo Giulio, monaco cassinense. Allora il palazzo venne ereditato dai Contarini. Da ultimo fu comperato dal celebre generale garibaldino Cristiano Lobbia, la cui vedova lo possiede tuttora.

Soranzo (Fondamenta)
detta Fornace a S. Gregorio. Della famiglia Soranzo, un ramo della quale abitava e possedeva stabili sopra questa fondamenta fino al cadere della Repubblica, abbiamo favellato più sopra. Essa fondamenta poi, che oggidì è chiamata «Fornace», o «della Fornace», trovasi nominata nelle antiche carte, insieme al contiguo rivo di S. Gregorio, «delle Fornaci», segno che le fornaci erano più d'una. D'una fornace, situata in fondo al rivo di S. Gregorio, parla il Codice del «Piòvego» fino dal 1292. Il Sabellico in quella vece usa del numero plurale, ed indica che presso lo Spirito Santo, ed in faccia l'emporio dei Sali, vale a dire sulla fondamenta di cui si tratta, eranvi «lateritiae fornaces». Sembra bensì che esse in tempi a noi più vicini si riducessero ad una sola, la quale era propriamente situata in «Calle della Crea», presso la «Fondamenta Soranzo detta Fornace». Infatti la Descrizione della contrada di S. Gregorio pel 1661, nominando la «Calle della Crea», fa l'annotazione: «Carlo Prandi tiene fornasa con casa, et ariva sopra Canal Grande, nella qual fornasa cucina calcina e piere con terreno di rimpetto».

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Sottoportico Scuro (Calle del).
Vedi Portico Scuro.

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Spade (Ponte, Ramo delle)
a S. Matteo di Rialto. L'osteria all'insegna delle «Spade», che qui presso esisteva, era molto antica, poiché leggesi che un «Carlo de Zuane hosto all'insegna delle Spade» era nel 1488 gastaldo della confraternita degli osti, solita allora a radunarsi nella chiesa di S. Matteo. Anche Marin Sanudo nomina l'osteria «della Spada», o «delle Spade», a Rialto, «sul rio delle Beccherie». Ed il catasto del 1566 insegna che l'«osteria delle do Spade a S. Matteo», con due botteghe sottoposte, apparteneva allora alla famiglia Foscari, ed era appigionata ad un ostiere di nome «Battista».

Il «Ponte delle Spade» era di legno, ma fu rifatto in ferro nel 1886.

Una sera di carnevale del 1745 un gentiluomo di casa Balbi e quel Giacomo Casanova, altre volte in quest'opera menzionato, adocchiarono una bella popolana da S. Giobbe che stava bevendo col marito e con altri due amici in un magazzino alla Croce. Idearono tosto di averla ai loro voleri, e, sotto colore d'essere pubblici funzionari, imposero al marito ed agli amici di seguirli, in nome del Consiglio dei X, fino all'isola di S. Giorgio. Piantati colà quei poveri gonzi, ritornarono a Venezia, e ritrovarono a Rialto la donna, che avevano lasciato a guardia d'alcuni loro compagni. Allora la condussero all'osteria delle «Spade» ove cenarono, e si diedero buon tempo con essa tutta la notte, dopo che la rimandarono a casa. Ciò vienci raccontato nei suoi «Mémoires» dallo stesso Casanova, al quale lasciamo tutta la fede del racconto, quantunque il fatto non ci sembri improbabile, né sia stato il primo di tal genere avvenuto nella corruzione generale, serpeggiata in tutte le classi sociali negli ultimi tempi della Repubblica.

Spade (Calle dietro le)
a Rialto, presso la «Pescheria Grande». Vedi Scimia (Calle della) o delle Spade.

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Specchiera (Corte)
a S. Marina. Qui stanziavano nel 1661 «Matteo Roder spechier e Menego Marin spechier». Il primo di essi appartenne probabilmente alla famiglia di quel Vincenzo Roder, che, per aver inventato gli specchi cristallini, ebbe dal Senato un privilegio per anni 25, ma poscia insegnò ad altri il segreto. Se ne fa onorevole menzione nella «Mariegola» dei «Marzeri», esistente nello Archivio Generale.

Specchiera (Corte della)
ai SS. Ermagora e Fortunato, presso la «Calle dei Ormesini». Venne forse così detta dalla proprietaria di qualche laboratorio di specchi. E veramente dai Necrologi Sanitari si ricava che il 23 ottobre 1630, anno della pestilenza, morì nella parrocchia indicata una «Betta specchiera, de ani 39, di sospeto».

Pell'arte degli «Specchieri» vedi l'articolo susseguente.

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Spezier (Ramo, Calle del)
ai SS. Filippo e Giacomo. La prossima bottega da speziale, o farmacista, che si vede tuttora aperta all'insegna del «Lupo Coronato», è alquanto antica, poiché fino dal 1554 troviamo un «Santo Locatello, specier al Lovo», in «Campo dei SS. Filippo e Giacomo». Apprendesi dall'opera del Grevembroch («Abiti dei veneziani di quasi ogni età») che un Nicolò Corradi, conduttore di questa farmacia, fu l'ultimo, intorno al 1720, a vestire il vecchio costume dei farmacisti, simile a quello che portavano i fanti dell'avogaria. I farmacisti nei primordii erano uniti agli «Spezieri da grosso», ma poscia se ne staccarono, continuando però a pagare le gravezze coi medesimi. L'erudito comm. Cesare Foucard pubblicò lo statuto dei Medici e dei Farmacisti, scritto nel 1258. Questi ultimi, ridotti in collegio per decreto del doge Girolamo Priuli 5 marzo 1565, avevansi scelto per titolare la Trasfigurazione di N. S. ovvero il SS. Salvatore, e nel giorno della festa assistevano in corpo ad una messa cantata nella chiesa dei Frari. Nel convento dei Frari facevano pure le loro riduzioni. Distinguevansi specialmente nel comporre la teriaca, o «triaca», di cui facevano smercio coi più lontani paesi. I Veneziani appresero la ricetta della teriaca dai Greci e dagli Arabi, ma, mediante la finezza ed il riconoscimento degli aromi e delle altre sostanze, l'esattezza ed uniformità della composizione, e le cure del Magistrato alla Sanità, poterono giungere ad alta rinomanza in modo che gli stessi popoli d'Oriente, un tempo i soli manipolatori del secreto d'Andromaco, non prestarono più fede ad altra teriaca che alla veneziana. Essa, secondo i «Notatòri» del Gradenigo, fabbricavasi nella Farmacia della «Testa d'Oro» a Rialto fino dal 1603, anno il quale era notato sui recipienti. Gran voga acquistò fra noi questo rimedio dopoché (sempre a detta del Gradenigo) Orazio Guargante da Soncino guarì per tal mezzo Lodovico Taverna, legato apostolico presso la Repubblica. Vigeva il costume che nelle farmacie di Venezia, dette «triacanti», si tenessero in dati tempi dell'anno esposti in bell'ordine per tre giorni nella mostra gli ingredienti della teriaca, parte dei quali venivano battuti al di fuori da una schiera di facchini in mortai di bronzo, situati sopra alcuni circoli del selciato, che tuttora esistono innanzi a qualche farmacia. Quei facchini vestivano una giubba di colore bianchiccio, brache rosse con sciarpa gialla, e portavano in testa un berretto celeste circondato di giallo, e sormontato da una piuma. Durante il lavoro, cantavano per solito le strofe seguenti, alternandole coi colpi di mazza:

Per veleni, per flati, ed altri mali

La triaca gh'à el primo in sti canali!

Talvolta però la loro allegria trasmodava in licenza, tanto da lanciare frizzi e motti osceni verso le donne passanti, come specialmente praticavasi, secondo la «Gazzetta Urbana» del 1788, alla farmacia dei «Due Mori» in «Calle dei Stagneri», oggidì più non esistente. I Farmacisti, in occasione del solenne ingresso che fece in Venezia nel 1574 Enrico III re di Francia e di Polonia, prepararono una fusta turchesca di dodici banchi colla coperta di panno d'oro. La poppa era di dentro ornata di bellissimi tappeti, ed ai quattro lati di essa sorgevano quattro piramidi di color celeste, contenenti fuochi artificiali, mentre alla base sedevano quattro ninfe. A prora poi ammiravasi altra piramide colla «Testa d'Oro», insegna della farmacia più sopra nominata, e col simbolo del pellicano, intorno a cui giravano le parole: «Respice Domine». Essendo la farmaceutica calcolata arte nobile, dava diritto a chi l'esercitava di sposare una gentildonna veneziana. Essa nel 1773 contava in Venezia 90 botteghe e 90 inviamenti, con 90 professori, 60 giovani e 30 garzoni.

Altre strade sono dette «del Spezier», non tutte però dai prossimi farmacisti, mentre alcuna ebbe tal nome anche dai prossimi speziali da droghe, o da confetture.

Spezier (Calle)
a S. Stin. Vedi Donà.

Spezier (Calle del)
detta della Chiesa a S. Pantaleone. In principio di questa calle, che guida alla chiesa di S. Pantaleone, esiste tuttora uno speziale da confetture.

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Spirito Santo (Campo dello, Fondamenta delle Zattere allo).
Maria Caroldo, monaca di S. Catterina in Venezia, coll'appoggio del proprio fratello Girolamo, e del sacerdote Giacomo Zamboni, fondò in questa situazione nel 1483 un convento di monache agostiniane. Essa però, dieci anni dopo, venne accusata dalla monaca Cecilia Vacca di mantenere amorosa tresca, oltreché col soprannominato Zamboni, con un giovinastro greco, altre volte processato, nonché con un medico, con cui, fingendosi ammalata, serravasi spesso nella propria cella. Venne accusata inoltre di sperperare i beni della comunità, d'impegnare gli oggetti sacri della chiesa, e di permettere che alcune monache, sue amiche, uscissero di notte travestite dal convento mentre tiranneggiava le altre in modo da costringerle a fuggire. Il patriarca pertanto condannò la Caroldo ad essere deposta dal grado di abbadessa, e rinchiusa in più stretto monastero, ma essa appellossi, sicché nel 1494 pendeva ancora il processo, senza che se ne sappia la sentenza definitiva. Degli scandali, che sotto il di lei regime succedevano allo Spirito Santo, ne abbiamo una prova nella condanna inflitta il 12 settembre 1491 a ser Francesco Tagliapietra e a ser Marco Balbi, che avevano avuto carnale commercio con due di quelle claustrali. Tali scandali però non cessarono anche in epoca posteriore, poiché nel 1563 Girolamo Fenaruolo, avvocato, rapì suor Cristina Dolfin, monaca allo Spirito Santo, e nel 1567 suor Camilla Rota, amante di Gerolamo Corner, e suor Clemenza Foscarini, amante di Bernardo Contarini, da cui era stata resa madre, fuggirono dal medesimo convento, né s'ignora che poscia la Rota passò per concubina in casa d'un Guido Antonio Pizzamano il quale, a cagione di queste ed altre accuse, ebbe nel 1572 un processo per parte della Santa Inquisizione.

La chiesa dello Spirito Santo, eretta insieme al convento, si rinnovò nel secolo XVI, sul disegno, dice il Sansovino, d'un Santo Verde. Quando nel 1806 fu soppresso il cenobio, e le monache si concentrarono con quelle di S. Giustina, anch'essa venne chiusa per essere due anni dopo riaperta come succursale della chiesa di S. Maria del Rosario.

Quanto alla «Zattere», vedi Zattere (Fondamenta ecc. delle).

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Spiron d'oro (Sottoportico).
Vedi Speron.

Sporca o Vallaressa (Calle)
a S. Luca. Questa calle giustifica tuttora col suo aspetto il nome che porta. Esso è proprio di qualche altra via della città, e malamente il Fontana lo vuole originato all'epoca in cui si distrussero le così dette «scoazzere», o «casselle delle squazze», e l'immondezze incominciaronsi a gettare per le strade, poiché anche prima esistevano le così dette «calli sporche».

La mattina del 10 novembre 1601 in «Calle Sporca» a S. Luca venne ferito in faccia da alcuni sconosciuti «Bernardin Briseghella», sindaco ed agente della città di Crema.

L'altra appellazione dipende dalla patrizia famiglia Vallaresso, un «Zaccaria» della quale, come si legge nell'estimo del 1661, possedeva alcuni stabili in «Calle Sporca» a S. Luca. Per questa famiglia vedi Vallaressa (Calle).

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Squero (Calle, Ramo del)
a S. Moisè. Deve sembrar naturale che varie strade di Venezia portino tale denominazione qualora si consideri che, innanzi all'erezione dell'Arsenale, c'erano vari «squeri», o cantieri, ove la Repubblica faceva costruire i proprii navigli, e che, ai tempi del maggiore commercio, «squeri», o cantieri, avevano pure molti privati, donde uscivano le galere di secondo rango, destinate alle tratte commerciali. Il Gallicciolli fa provenire la voce «squero» da squadra, strumento necessario ai fabbricatori di barche, come a molte altre specie di artefici, e che nel nostro dialetto viene appellato «squara», o «squera». L'arte degli «Squeraroli», che comprendeva anche quelli dell'Arsenale, si eresse in corpo nel 1610, ed aveva scuola di divozione nella chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, sotto l'invocazione di S. Elisabetta.

Trovasi pure qualche località denominata dello «Squero Vecchio» pell'antichità dello squero che colà esisteva.

Squero (Calle del)
o dei Nicolosi a S. Barnaba. Per la prima denominazione vedi l'articolo antecedente. La seconda deriva dalla famiglia Nicolosi. Un «Neri» (che malamente i raccoglitori delle epigrafi scambiano con «Zero») «q. Francesco Nicolosi» da Firenze ottenne, fino dal 1386, un privilegio di cittadinanza veneziana. Egli nel 1398 ebbe tomba nel chiostro dei SS. Giovanni e Paolo coll'iscrizione seguente: Neri Q. Francisci Nicolosi De Florentia Civis Venetiarum Et Mercatoris Et Suorum Heredum De Confinio Sancti Benedicti mcccxcviii Die xxx Augusti. Un «Anzolo Nicolosi», discendente dal citato Neri, notificò nel 1740 di possedere in Venezia, in «Calle longa S. Barnaba», una «casa da statio», ove abitava, con altre casette vicine, «le quali», trascriviamo le di lui identiche parole, «sono state fabbricate nelli squeri che s'attrovano nella Cond.e del S.r Ipolito Trevisan et Andrea Giac.mo fratelli Trevisan, descritti al N. 249 Ossoduro, in me pervenuti g.ta li miei titoli et traslato 10 maggio 1718». Anche nella Descrizione della contrada di S. Barnaba pell'anno medesimo 1740 si scorge che «allo squero, in Calle Longa», domiciliavano in casa propria li «Circospetti Anzolo e Zuane Nicolosi». Essi coprivano la carica di secretari del Senato, ed erano nipoti di quel G. Battista Nicolosi, eletto nel 1713 Cancellier Grande.

Il palazzo Nicolosi a S. Barnaba passò più tardi, per via d'eredità, in mano dei Querini.

Squero vecchio (Calle del)
ai SS. Giovanni e Paolo, presso la «Calle della Testa». Per questa, ed altre località di egual nome, vedi Squero (Calle, Ramo del).

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SS. Apostoli (Parrocchia, Campo, Rio, Ponte, Sottoportico, Rio terrà).
Corre tradizione che nel VII secolo apparissero i dodici Apostoli a S. Magno, e gli prescrivessero d'innalzare un tempio a loro onore ove avesse ritrovate unite dodici gru. Cooperarono alla fondazione del sacro edificio i fedeli, e segnatamente un Gardoco Gardolico. La chiesa dei SS. Apostoli ebbe anticamente qualche ristauro, e nel 1575 venne rinnovata e consecrata dal vescovo di Traù, Antonio Guido. Più tardi, cioè alla metà del secolo XVIII, l'architetto Giuseppe Pedolo le diede forma moderna, lasciando intatta però la cappella Cornara. Anche negli ultimi tempi s'aggiunsero alla chiesa dei SS. Apostoli nuovi ristauri e decorazioni.

La parrocchia, probabilmente antica quanto la chiesa, ebbe ampliazione nel 1810 pell'aggiunta di parte della soppressa parrocchia di S. Sofia, e di altre vicine contrade. In essa sviluppossi nel 1105 un fierissimo incendio, di cui nel Sanudo («Vite dei duchi di Venezia») troviamo i cenni seguenti: «In quest'anno, 1105, di gennajo, uscì fuoco dalla casa d'Arrigo Dandolo, ovvero Zeno, a SS. Apostoli, e fu sì grande che abbruciò molte contrade et abbruciò tutta la detta contrada, e con furia di vento passò il Canal grande, et abbruciò S. Cassano, S. Maria Mater Domini, S. Agata, S. Agostino, e S. Stefano Confessore».

Al «Ponte dei Ss. Apostoli» scorgesi il palazzo del doge Marin Faliero, che, avendo tramato di rendersi assoluto signore di Venezia, andò mozzo del capo il 16 aprile 1355. La congiura fu scoperta da un Vendrame, o Beltrame, pellicciajo, ed a costui, dice la cronaca del Savina, (Classe VII, Cod. 134 della Marciana) venne donata «la casa grande de Ss. Apostoli in colonne, appié del ponte, che fu de Marin Falier, olim indegno dose». Anche un'altra cronaca dice che la casa di Marino era quella «dalle colonne al Ponte Ss. Apostoli». Scrive però il Sanudo che questa casa non fu donata a Beltrame, ma bensì alla chiesa dei SS. Apostoli, e che probabilmente venne ricomperata in seguito dalla famiglia Falier, poiché, ai tempi in cui egli scriveva, era posseduta dalla famiglia stessa, il che verificossi anche in tempi posteriori. Essa conserva di antico i due veroni del centro, alquante «patere» simboliche, e l'arma dei Falier.

Predicando in chiesa dei SS. Apostoli nel 1542 il celebre Bernardino Ochino, generale dei Cappuccini, apostatò dalla fede cattolica, laonde accusato, come dicesi, da S. Gaetano da Thiene, e chiamato a Roma, credette bene di salvarsi a Ginevra. Nella medesima chiesa predicando, un altro cappuccino nel 1579 giunse a sradicare l'abuso che il bel sesso andasse per Venezia scollacciato, ed a mamme scoperte.

Ai SS. Apostoli, in quella casa che sta in punta del «Rio di S. Giovanni Crisostomo», ed a cui si accede pel «Sottoportico Dolfin», abitava Pietro Aretino prima di trasferirsi sopra la «Riva del Carbon», ove venne a morte.

Ricorderemo, per ultimo, che, presiedendo alla costruzione del campanile dei SS. Apostoli un Domenico Longo, detto Bachetin, vecchio prete di chiesa, sdrucciolò nel 1672 giù dalla cella delle campane, e nella caduta attaccossi colle vesti alle sfere dell'orologio. Colà rimase per buona sorte sospeso quanto bastò perché si potesse accorrere in suo aiuto, e salvarlo. La cupola del campanile dei SS. Apostoli venne colta ed assai danneggiata da una saetta il 28 ottobre 1779.

Quell'edificio, situato in «Campo dei Ss. Apostoli», che fino dal 1813 serve di chiesa alla Confessione Augustana, venne architettato dal Tirali, e serviva un tempo alle riduzioni dei fratelli ascritti al Suffragio dell'Angelo, istituito nell'11 gennaio 1557 m. v.

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SS. Ermagora e Fortunato (Parrocchia dei).
Vedi S. Marcuola (Parrocchia ecc.).

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SS. Filippo e Giacomo (Campo).
La chiesa dei SS. Filippo e Giacomo sorse, a quanto sembra, nel 900. Alla fine del secolo XIV, oppure al principio del secolo XV, la occuparono i monaci d'Ammiana, e vi fabbricarono appresso un monastero, che nel 1472 fu unito alla Ducale basilica, ed assegnato ai primiceri di San Marco. Nel 1579 vi si stabilì il Seminario della chiesa di San Marco, e nel 1591 vi ritornarono di bel nuovo i primicerii. Tanto la chiesa quanto il monastero dei SS. Filippo e Giacomo si rifabbricarono nel 1683. Giunto il 1807, il primo di questi edificii venne secolarizzato, ed anche il secondo, dopo la morte dell'ultimo primicerio, avvenuta nel 1813, si fece servire ad altre destinazioni, finché nel 1828 divenne residenza del Tribunale Criminale.

Ai SS. Filippo e Giacomo, e propriamente intorno al «Rio di Palazzo», sorgevano le case degli Orseolo, dal tetto delle quali il popolo, sdegnato contro Candiano IV, gettò il fuoco per incendiare la ducale residenza. Ciò avvenne per consiglio d'un Pietro Orseolo, creduto quel medesimo, che nel 976 fu eletto doge in sostituzione del trucidato Candiano, e dopo morte annoverossi fra i Santi. Ci assicurano le cronache che in queste case de' SS. Filippo e Giacomo il doge Pietro Orseolo ebbe stanza mentre riedificavasi il palazzo ducale, distrutto nell'accennata congiura.

In «Campo dei SS. Filippo e Giacomo», era domiciliato, secondo la cronaca Magno, Stamati Crassioti da Candia, che nascostosi di notte in chiesa di San Marco, ne derubò a varie riprese il tesoro. Volendo egli trovar modo di fuggire da Venezia cogli oggetti involati, ricorse al N. U. Zaccaria Grioni, suo compaesano, donandogli un balascio, e facendosi giurare il silenzio. Il Grioni invece svelò il fatto al governo, e lo Stamati fu, per ordine del Consiglio dei X, il 21 marzo 1449, appeso alle forche. «El qual Stamati», dice il Magno, «stava a S. Philippo e Jac. in una corte per mezzo al pozo dil campo, in una chaxa de le done de S. Zacharia». Con queste parole viene accennata la «Corte Sabbionera», sopra l'ingresso della quale si scorgono le sigle S.Z. indicanti che quelle case appartenevano alle monache di S. Zaccaria. Notisi però che il Sanudo vuole per lo contrario che lo Stamati abitasse in «Calle di Ca' Salomon» a S. Maria Formosa, ed i «Registri dei Giustiziati» in «Calle dei Pignoli» a S. Giuliano, raccontando con qualche divario l'avventura.

Ai SS. Filippo e Giacomo, presso il «Rio di Palazzo», trovavasi pure la casa dei Duodo, ove rifuggivasi il doge Giovanni Mocenigo dopo l'incendio appiccatosi la notte del 14 settembre 1479 alla ducale residenza. Fuvvi chi allora propose, benché invano, di comperare tal casa con quella dei Tron, ed altre vicine, per costruire colà un nuovo palazzo ducale, il quale da un punto dovesse giungere al «Canal Grande», e dall'altro al «Campo dei SS. Filippo e Giacomo».

Ai SS. Filippo e Giacomo avevano bottega «da disegni da dona et altro» i due famosi musaicisti, fratelli, Francesco e Valerio Zuccato, come si espresse Tiziano, chiamato per testimonio nel processo già noto per la storia ed anche pel romanzo di Giorgio Sand, a cui furono sottoposti i Zuccato riguardo i mosaici della basilica. Essi forse nella medesima situazione abitavano, notando i registri del convento di S. Zaccaria che i due fratelli tenevano a pigione una casa in parrocchia di S. Procolo, alla quale era sottoposto il circondario dei SS. Filippo e Giacomo. Vedi S. Provolo (Campo ecc.).

In «Campo dei SS. Filippo e Giacomo» abitava finalmente il letterato Antonio Brucioli fiorentino, il quale, per aver stampato libri dichiarati eretici, venne, con sentenza 21 novembre 1548, condannato ad avere que' libri abbruciati, e pagare una ammenda in danaro nonché ad essere bandito per due anni da Venezia.

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SS. Gervasio e Protasio (Parrocchia, Campo, Rio).
Sembra che la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, «vulgo S. Trovaso», sia stata fondata nei primordi di Venezia, e subito dichiarata parrocchiale. Nel 1028 stava per cadere, laonde nello stesso anno venne rifabbricata dalle famiglie Barbarigo e Caravella. Fino dai più rimoti tempi era soggetta a due superiori ecclesiastici, cioè al patriarca di Grado, ed al vescovo Olivolense. I litigi che nascevano diedero origine nel 1041 ad un concordato, per cui l'elezione e l'investitura del vicario (così allora chiamavasi il pievano) doveva appartenere ad ambidue i prelati, e ad ambidue parimente doveva l'eletto prestar giuramento di fedeltà, ed obbedienza. Perì poscia la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio nell'incendio del 1105, e rinnovossi tosto dopo splendidamente. Senonché nella notte fra l'11 e il 12 settembre del 1583 improvvisamente precipitò. Fu collocata la prima pietra del nuovo tempio nel giorno 26 luglio 1584, e nel breve giro di sette anni si condusse a termine la fabbrica, che venne poi consecrata il 22 luglio 1657 da Pietro Rossi vescovo d'Ossero. Comunemente se ne crede architetto il Palladio, quantunque alcuni, non senza fondamento, abbiano qualche dubbio sulla verità di questa asserzione.

Il circondario della parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio acquistò maggior estensione nel 1810 coll'aggiunta di quasi tutto quello della parrocchia di San Basilio, allora soppressa, e d'alcune contrade dell'altra ancor superstite dell'Angelo Raffaele.

In parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio abitava nel 1355 quel Bertuccio Israello, «paron de nave», e suocero dell'architetto Calendario, che, sdegnato contro Giovanni Dandolo, pagatore alla Camera dell'Armamento, si rese complice di Marin Faliero. Egli era Bertuccio di nome, ed Israello, od Isdraello, di cognome, e non viceversa, come finsero i romanzieri, i quali, a soprassello, hanno scritto falsamente che il medesimo fungesse la carica di Ammiraglio dell'Arsenale, e che in un alterco con un patrizio riportasse uno schiaffo, laonde ricorresse al doge Marino, avendone la risposta: «Che vuoi che ti faccia? A me pure venne resa sì poca giustizia!». Quest'avventura si riferisce invece, secondo la maggior parte delle cronache, a Stefano Giazza, detto Girello, che allora veramente era Ammiraglio dell'Arsenale, e che, pell'onta sofferta, entrò pur egli nella nota congiura.

Nella parrocchia medesima morì nel 1554 la celebre poetessa Gaspara Stampa. «1554, 23 Aprilis. M.a Gasparina Stampa za 15 zorni am.a - S. Trovaso». Così sta scritto nei Necrologi del Magistrato alla Sanità. Gaspara Stampa nacque in Padova da nobile famiglia milanese nel 1523. Tradottasi a Venezia, arse d'amore per Collaltino dei conti di Collalto, e dapprincipio fu corrisposta, ma poscia, da lui negletta, cessò di vivere, straziata, come suona più concorde la fama, dall'angoscia, nell'anno 31° della sua età. Essa ci lasciò un canzoniere il quale, se cede in eleganza a quelli degli altri poeti contemporanei, li supera tutti nel candore e nell'affetto. Per questa poetessa vedi specialmente l'«Anello di Sette Gemme» di Luigi Carrer.

Ai Santi Gervasio e Protasio venne pure, secondo il Boschini, fondata nel 1670 l'Accademia dei «Filateti» da un gentiluomo Veneziano, il quale destinò il piano terreno della propria casa affinché gli artisti colà si radunassero a disegnare il nudo, e le plastiche, ch'egli faceva gettare sulle statue antiche. Vi concorrevano eziandio nei giorni festivi i professori delle scienze e dell'arti per ragionare di pittura, prospettiva, ottica, architettura e geometria.

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SS. Giovanni e Paolo (Parrocchia, Campo, Rio, Salizzada).
Giacomo Tiepolo, doge, regalò nel 1234 ai pp. Domenicani una palude qui posta perché vi fabbricassero un tempio ed un convento. Vorrebbero alcuni che anche prima sorgesse in questa situazione un oratorio ottenuto pe' suoi frati da S. Domenico, e sacro a S. Daniele, e spiegano la donazione del Tiepolo raccontando com'egli nel 1226 scorse in visione il suddetto oratorio, e la piazza vicina ripieni d'olezzanti fiori con alcune bianche colombe che vi svolazzavano sopra, mentre due angeli profumavano l'aere con turiboli d'oro, e si sentivano dal cielo le seguenti parole: «Questo è il luogo che scelsi a' miei predicatori». Diedero forse causa a tale racconto, come osserva il Corner, i due angeli che con profumieri in mano veggonsi scolpiti sul sepolcro del Tiepolo, addossato alla facciata della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, nonché un antico marmo, a lavoro di mezzo rilievo, rappresentante il profeta Daniele fra i leoni. Ottenuta la palude, i domenicani si misero tosto all'opera, ed il nuovo convento era già compiuto intieramente nel 1293, epoca nella quale potè albergare tutti i religiosi dell'ordine, raccolti a celebrarvi un capitolo generale. Il tempio però, a quanto sembra, incominciossi soltanto nel 1246, e, procedendo i lavori con lentezza, ebbe perfezionamento soltanto verso il 1430, in cui ricevette consecrazione sotto il titolo dei SS. Giovanni e Paolo (volgarmente «S. Zanipolo»). Se ne attribuisce il disegno a Nicolò da Pisa, oppure a fra' Ristoro e fra' Sisto domenicani. Questo tempio serviva ai funerali dei dogi, e visitavasi ogni anno dal Principe e dalla Signoria il giorno 26 giugno sacro ai santi titolari, a ricordo della famosa vittoria riportata in tal giorno nel 1656 sopra i Turchi ai Dardanelli. Havvi memoria che vi fu tempo in cui si voleva ridurlo a cattedrale. Nel 1810 divenne sede d'una nuova parrocchia formata con parte dei circondarii di S. Giustina, S. Maria Nuova, S. Marina, e S. Maria Formosa, parrocchie tutte, meno l'ultima, soppresse. Nel 1858 fu incominciato a restaurare a spese del governo austriaco. Nel 1867 ebbe incendiata e distrutta la cappella del Rosario. Vedi Rosario (Sottoportico e Corte del). Nel 1869 se ne isolò l'abside tracciandovisi dietro una via, che mette in comunicazione la «Salizzada dei SS. Giovanni e Paolo» col «Campiello dell'Ospedaletto». E' tuttora uffiziato dai Domenicani.

Quanto al convento, esso nel 1809 destinossi, coll'ospizio dei Mendicanti, colla scuola di S. Marco e colla Cappella della Pace, ad Ospitale Militare, e quindi nel 1819 ad Ospitale Civile.

Marcantonio Michiel, ne' suoi «Diarii» manoscritti, così racconta alcuni disordini successi nel convento dei SS. Giovanni e Paolo: «A dì 6 detto» (ottobre 1516) «era venuto el general delli frati conventuali di S. Domenico, mandato a chiamar, ovver sollicitato, dalli sig. Capi del cons. di X, però che li frati di S. Zane Polo erano in gran risse tra loro, et haveano date diverse querele un contra l'altro alli Capi, et massime fra Francesco Colonna havea querelato contro 4 o 5 de li primarii, et accusavali, inter cetera, de sodomia, suppresso tamen nomine. Il general, il Caietano, venne, et cominciò ad inquisir. Fra Francesco Colonna, o ch'el dubitasse non esser scoperto, et che fusse conosciuta la mano sua, essendo venuta la querela in le man del General, o per conscientia, essendo essi accusati innocenti, andò a confessar, et scoprir la calunnia, facendosi reo, et chiedendo perdono al General, el qual volse ch'el dimandasse perdono al Capitolo. Li frati accusati, intendendo l'autor della loro accusatione, fulminarono diverse querele contra di lui, et massime ch'el avesse sverginata una putta, et provorno il tutto, per il che il Generale el bandì de Venetia, et lo confinò a Treviso in vita, e ch'el non potesse più dir messa, né confessar, et bandì molti altri, chi per anni 5, chi per 10; fra gli altri fra' Zanfior, et fra' Martin dal Naso». Facendo riflesso alle date, non sembra che il protagonista di questo racconto sia il domenicano fra' Francesco Colonna, detto il Polifilo, celebre pe' suoi studi d'architettura. Né va dimenticato che in que' tempi, anche un altro frate, chiamato Giovanni Francesco Colonna, viveva nel convento dei SS. Giovanni e Paolo. Vedi «Le Memorie dei più insigni Pittori, Scultori ed Architetti Domenicani» del p. Vincenzo Marchese.

Dietro la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, verso la «Barbarìa delle Tole», eravi un tempo, per testimonianza del Sabellico, un bersaglio ove si tirava d'arco e di balestra, come altri bersagli esistevano allo scopo medesimo in altri punti della città. Essendo alcuni di essi in mal ordine, si diede licenza nel 1440, 5 novembre, dal C. dei X, «ut possint fieri reparationes necessariae pro bersaliis Venetiarum... incipiendo a bersaliis SS. Johannis et Pauli, S. Vitalis, Canaregli, S. Pauli, et S. Thomae».

In «Campo dei SS. Giovanni e Paolo», e precisamente nell'atrio della cappella della Pace, venne sepolto nel 1355 Marin Faliero. Allorché nel principio del presente secolo si distrusse la cappella, disotterrossi il sarcofago dell'infelice doge, che, per riferta del Casoni, era una gran cassa di marmo, ove ritrovossi uno scheletro colla testa fra le ginocchia in segno che essa era stata tronca dalla spada della giustizia. Quei miserabili avanzi vennero allora trasportati nell'ossario di Sant'Arian, ed il sarcofago in una corte dell'Ospitale Civile. Ora però trovasi al Civico Museo.

Non molto dopo il supplizio e la tumulazione del Falier il «Campo dei SS. Giovanni e Paolo» era teatro d'una strana avventura. Correva l'anno 1399 e per tutto l'occidente, ma specialmente pell'Italia, erasi diffusa una setta chiamata dei «Bianchi» perché composta d'uomini e donne bianco vestiti con cappuccio e faccia velata, i quali, in numero stragrande, solevano passare processionalmente di città in città, cantando lo «Stabat Mater», allora uscito alla luce, oppure le strofe seguenti:

Misericordia andiam gridando,

Misericordia a Dio clamando,

Misericordia ai peccator!

Misericordia, o Dio verace,

Misericordia, e manda pace,

Misericordia alto Signor!

La Repubblica, che non vedeva di buon occhio la setta, aveva fatto dire ad alcuni «Bianchi» arrivati a Chioggia, e diretti verso Venezia, d'andar pei loro fatti. Ma non atterrito il frate Giovanni Dominici (poscia cardinale e beato) cantò messa solenne una domenica in chiesa di S. Geremia, dopo la quale, coordinati in ischiera molti che alla setta aveva affigliato, mosse alla volta del «Campo dei SS. Giovanni e Paolo». Fu là che i divoti trovarono uno dei Capi del Consiglio dei X co' suoi sergenti, i quali fermarono il N.U. Antonio Soranzo, che camminava alla testa della processione, gli strapparono di mano il crocefisso tanto bruscamente da romperlo, e dispersero la brigata. Il Dominici racconta egli stesso in una delle sue lettere il fatto, attribuendo alcune disgrazie allora patite dai Veneziani alla collera celeste. Egli venne condannato a 5 anni di bando. Un anno di bando riportarono pure il prete Leonardo Pisani, ed il N. U. Antonio Soranzo, e si ammonirono severamente quanti avevano preso parte alla processione. Del resto, queste scorrerie dei Bianchi vennero a cessare nel seguente anno 1400, dopoché, scopertisi i disordini che nascevano dall'agglomeramento di tante persone di sesso diverso, dormienti nelle chiese e nei monasteri alla rinfusa sopra nuda terra, papa Bonifacio IX non permise che entrassero in Roma, e ne riprovò il movimento.

Fra le curiosità concernenti il circondario di cui parliamo ricorderemo col Sanudo una «sentenza assai notanda», emanata nel 1502 dai Signori di Notte «contra Alvise Benedetto popular stava a S. Zanipolo», il quale costringeva la propria sposa a prestarsi per prezzo alle altrui voglie, «et il guadagno teneva scripto in libro et con chi». Decretossi «ch'el detto beccho sia vestido de zalo, e con una corona con corne in testa, su un aseno, sia menà per la terra a noticia di tutti, e cossì fu fatto». Notisi che nel 1490 era uscita una legge per cui «tutti quelli ruffiani et ruffiane, i quali stano in questa cità, debino portar habito de color zallo aziochè da tuti possino essere cognosciudi».

Ricorderemo pure col Sanudo che nel gennaio 1505 M. V. facendo gran freddo in Venezia, e morendo molti poveri per istrada, si eresse, affine di ricoverarli, presso il Bersaglio dei SS. Giovanni e Paolo, un fabbricato di tavole colla somministrazione gratuita di paglia e di legna.

Leggiamo nel codice Cicogna 2977 che il 31 maggio 1604 «si fece una solennissima giostra dietro San Giovanni e Paolo, mantenitor ser Alvise Donà fo de ser Lorenzo». Forse ciò avvenne nella «Cavallerizza» che colà esisteva.

Altra curiosità relativa al circondario dei SS. Giovanni e Paolo, ma più recente, è quella che segue. Essendo morto nel 1813 il N. U. Zaccaria Valier, venne sepolto in chiesa dei SS. Giovanni e Paolo nell'arca dei dogi Valier, sottoposta al loro grandioso monumento, architettato da Andrea Tirali nel 1708. In quell'arca eranvi varii oggetti di bronzo dorato, fra i quali un leone, una madonna, ed una croce. Non parve vero ai «nonzoli» della chiesa di poter far bottino, e corsero a vendere gli oggetti rinvenuti, ma scoperto l'affare, passarono dalle loro abitazioni, che avevano in questo circondario, a vedere il sole a scacchi in prigione.

Della statua equestre che sorge in «Campo SS. Giovanni e Paolo» ad onore del generale Colleoni abbiamo detto altrove. Vedi Cavallo (Ponte ecc. del).

Il «Campo dei SS. Giovanni e Paolo» fu lastricato per la prima volta di macigno nel 1682, e, sembra, a spese dei frati, che nel 1631 avevano dovuto pure racconciare le fondamente, e le rive, rotte pello scarico degli olii e delle mercatanzie, portate al convento.

In questo Campo nacque la notte antecedente del 30 ottobre 1751, un fierissimo incendio in una bottega da «luganegher», che bruciò anche quella da «scaleter», e da «lasagner» collo stabile sovrapposto di proprietà della famiglia Grimani.

In mezzo di questo Campo il pontefice Pio VI, assiso sopra loggia maestosa, benedì il popolo il giorno di Pentecoste del 1782, concedendo in tale circostanza un giubileo di quindici giorni.

Termineremo ricordando come nel 1824 il Campo medesimo venne ornato da una bella «vera» di pozzo, lavoro del secolo XVI, la quale, come nota il Cicogna, esisteva nel palazzo Corner a S. Maurizio, e porta scolpita l'arma dei Corner.

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SS. Salvatore (Parrocchia, Campo, Rio, Merceria di).
La chiesa del SS. Salvatore venne fatta innalzare in tempi antichissimi dalle famiglie Carosii e Gattolosi per esortazione di S. Magno. Dicesi aver avuto ne' suoi primordi il pavimento formato di grate di ferro, sotto il quale scorreva l'acqua alla foggia della chiesa del Sepolcro in Gerusalemme. Nel 1141 Bonfiglio Zusto, che ne era pievano, abbracciò col suo clero l'ordine dei Canonici Regolari di S. Agostino per cui soffrì molte persecuzioni dal vescovo di Castello, e morì trucidato in Veglia, ove aveva cercato un rifugio. Nondimeno i papi Innocenzo II ed Eugenio III approvarono l'istituto dei nuovi canonici, ed Alessandro III, venuto a Venezia, consecrò il 29 agosto 1177 la loro chiesa. Essi si disposero a rifabbricarla sotto il priore Gregorio Fioravante, eletto nel 1182, e sebbene turbati da nojosi litigi col clero di S. Bartolammeo, la condussero a perfezione nel 1209. Caduti coll'andar del tempo in grave rilassatezza di costumi, il monastero fu ridotto in priorato, ed il cardinale Gabriele Gondulmer, uno fra i priori di esso, v'introdusse nel 1427 i canonici Lateranensi di S. Maria della Carità, ma questi, dopo pochi mesi, stimarono opportuno di ritirarsi. Vi furono sostituiti nel 1442 dallo stesso Gondulmer, già assunto al pontificato col nome di Eugenio IV, i canonici regolari della congregazione di S. Salvatore di Bologna, che ristaurarono gli edifici a loro concessi. Soltanto però dopo il 1507 la chiesa di S. Salvatore cominciò ad assumere l'odierna magnificenza sopra modello di Giorgio Spavento, e colla sopraintendenza di Pietro e di Tullio Lombardo, ottenendo compimento nel 1534 coll'ajuto del Sansovino. Nel 1663 fu adornata dell'attuale prospetto, disegnato dal Longhena o dal Sardi, dietro lascito del ricco mercadante Giacomo Galli. Nel 1739 ebbe consecrazione per mano di Francesco Corner patriarca di Venezia. Finalmente il 22 novembre 1866 dovette chiudersi per generale restauro, né fu riaperta prima del 3 agosto 1879. Allora innestossi sull'angolo della facciata verso Merceria una palla di cannone colla data del 6 agosto 1849 in memoria che quel punto venne in quel giorno colpito da un proiettile scagliato dagli Austriaci durante l'assedio posto a Venezia.

Il monastero di S. Salvatore si riedificò nel 1540 da Tullio e Sante Lombardo e dal Sansovino. Sembra però che restasse compiuto soltanto nel 1564, come appare da lapide esterna, esistente sopra l'angolo della muraglia che guarda il «Ponte del Lovo». Nel 1810 si ridusse a caserma.

Quanto all'istituzione della parrocchia, essa rimonta all'origine della chiesa. Nel 1810 le si aggiunse la soppressa parrocchia di S. Bartolammeo e porzione di quella conservata di S. Luca.

Narrano alcune cronache che, quando nel 1177 papa Alessandro III riparò sconosciuto a Venezia, dormì la prima notte del suo arrivo sotto il vestibolo della chiesa del SS. Salvatore. Vedi Carità (Rio Terrà ecc. della) e Perdon (Calle, Corte del). Ciò si ricorda da un'iscrizione, che leggesi sottoposta all'effigie di questo pontefice nel vestibolo appunto della chiesa, dalla parte della «Merceria».

Dicesi ancora che in «Campo di S. Salvatore» eravi un pozzo profondo con vasca d'acqua all'ingiro, e con una prossima ficaja, alla quale, quando costumavasi di cavalcare per la città, i viandanti legavano i loro cavalli giacché, per un decreto del 29 febbraio 1287 M. V., era proibito, a cagione del grande concorso, di percorrere la «Merceria» cavalcando.

In parrocchia di San Salvatore stanziava il tipografo Nicolò Jenson, che fino dal 1470 pubblicava libri in Venezia. Nella «mariegola» della scuola di S. Girolamo sta scritto: «Nicolò Xanson stampador. S. Salvador».

Nel circondario di S. Salvatore venne ucciso il 21 luglio 1506 Giacomo Gradenigo, che però non era di sangue patrizio.

Scrive il Sanudo sotto questa data: «E in questo zorno poi disnar da uno francese fo amazà domino Jacomo Gradenigo: haveva benefici et feva la sua vita a San Salvador, homo pacifico, et per voler pacificar la moglie col marito, fo amazato dal deto marito, era francese e falconier del re».

Presso la chiesa di S. Salvatore Marco Giustinian, uno dei X, riportò il giovedì grasso del 1579 da una maschera grave ferita sul capo, che in breve lo trasse al sepolcro.

E nel giovedì grasso del 1602 Nicolò Moro q. Santo venne ucciso con altri tre patrizi nella contrada medesima, avendo voluto frammettersi acciocché un cotale non traesse seco a viva forza una donzella.

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Stella (Sottoportico, Calle)
in «Birri» a San Canciano. Dal palazzo Stella oggidì distrutto. Della cittadinesca famiglia Stella, provenuta da Bergamo, così scriveva a' suoi tempi il Ziliolo: «Possiede questa famiglia oggidì molte ricchezze, et ha nobilissima abitazione a S. Canciano nella contrada detta di Birri». Anche l'altra cronaca manoscritta intitolata: «Memorie concernenti le Vite dei Veneti Cancellieri Grandi», parlando del Cancellier Grande G. Pietro Stella, eletto nel 1516, così si esprime: «Domenico fu suo padre, disceso da maggiori di Bergamasca mercantile nazione, che in Venezia aumentarono ricchezze e notabili abitazioni a S. Canziano, nella tortuosa contrada di Birri, dove anche oggi si distingue la Calle Stella. Questo rispettabile vecchio aveva l'incombenza di registrare, e di governare le scritture del consiglio dei X, e ne divenne poi secretario». La di lui nomina successe il 17 febbraio 1471 M. V. Il Gran Cancelliere G. Pietro Stella, celebre per aver sostenuto ventidue legazioni, fu molto domestico dell'imperatore Massimiliano, e da Lodovico Sforza venne insignito d'ordine equestre. Morì nel 1523. La famiglia Stella produsse pure un Luca arcivescovo di Zara, che nel 1619 consecrò la nostra chiesa di S. Leone, volgarmente «S. Lio», e che chiuse i suoi giorni vescovo di Padova.

Scorgesi in «Calle Stella» il palazzo che la famiglia Algarotti comperò dai conti Angeli di Feltre nel 1722, ove soggiornò il conte Francesco Algarotti, il quale coltivò con gran successo così le scienze come le lettere. Nel palazzo medesimo il conte Marcantonio Corniani, erede Algarotti, raccolse un pregiato museo litologico-minerale, che faceva bella mostra di sé unitamente ad altra ricca suppellettile di stampe, disegni e quadri eccellenti.

Stella (Sottoportico della)
a Castello. Qui nel 1713 possedeva due case un «Piero Stella». Anche più anticamente, cioè il 12 novembre 1597, troviamo un «Nicolò fio de m. Isepo Stella», ed il 22 novembre 1630 una «Mattia massera de ca' Stella», fra i defunti della parrocchia di S. Pietro di Castello. Tale famiglia era, come crediamo, diversa da quella onde fu parola nell'articolo antecedente.

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Storto o Pinelli (Ponte)
ai SS. Giovanni e Paolo. Per la prima denominazione vedi l'articolo antecedente. Per la seconda Bragadin o Pinelli (Calle).

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Strada ferrata (Via alla).
Guida alla stazione ferroviaria di Venezia, fondata sopra l'area dell'interrata «sacca di S. Lucia», e dell'antiche chiese e conventi di S. Lucia e del Corpus Domini, nonché d'altri edifici, ora distrutti. Per essa si ha l'adito al gran ponte, che congiunge Venezia al continente, eretto sopra il disegno di Tommaso Meduna con qualche modificazione di Luigi Duodo, ed eseguito da Antonio Busetto. Se ne gettò la prima pietra il 25 aprile 1841, incominciossi il 10 maggio susseguente, compissi l'8 novembre 1845, ed inaugurossi l'11 gennaio 1846 colla spesa di oltre cinque milioni di Lire austriache. Avendo questo ponte patito danni non pochi nell'assedio del 1849, essendoché allora il gran piazzale aveasi convertito in fortezza, fu ristaurato, dopo la rioccupazione degli Austriaci, dall'ingegnere Gaspare del Mayno.

A comodo del forestiere, la denominazione è in molti punti ripetuta.

Strada Nova .
Vedi Vittorio Emanuele (Via).

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Sabbioncella (Corte)
a San Giuseppe. Leggiamo nelle Condizioni del 1582: «Dico io Giacomo Sabioncello calafao dell'Arsenal: me atrovo haver una meza caseta a pepian, fabricata sopra mezo teren, ne la qual habito co la mia povera famiglia già anni venti, la qual sono ne la contrà di S. Piero di Castello a San Iseppo, in una corte chiamata de Domenico Sabioncello». Questo Domenico Sabbioncello fu zio del citato Giacomo, e lo troviamo appellato «marangon dell'Arsenal».

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Sabbionera (Sottoportico e Corte)
alla Ca' di Dio. Questa Corte, che, col Sottoportico, trovasi chiamata anche «dei Sabioneri», e che giace in parrocchia di S. Giovanni in Bragora, quasi di sotto al palazzo Gabriel, ricorda l'arte dei «Sabioneri», o venditori di sabbia. Trifon Gabriele notificò nel 1537 di possedere una casetta in parrocchia di S. Giovanni in Bragora, in «Corte dei Sabioneri, stà Rado Sabioner». E nell'anno medesimo un Antonio Gabriel affittava a «Polo sabioner» un'altra casetta posta alla Bragola, in «Corte dei Sabioneri, sotto la casa granda». Anche le barche dei «Sabioneri» stanziavano in prossimità, poiché trovasi nella Raccolta delle leggi appartenenti al magistrato delle Acque: «Luogo assegnato all'arte dei Sabioneri per passa otto alla Ca' di Dio dietro la fondamenta; 1664, 5 febbraio». I suddetti artieri avevano scuola di divozione nella chiesa di S. Giovanni in Bragora, sotto il patrocinio di S. Andrea. Oltre il portar sabbia per le fabbriche, servivano a portar zavorra pei bastimenti. La loro confraternita fu soppressa nel 1773.

Altre località di Venezia appellaronsi dall'arte dei «Sabioneri», fra le quali è celebre la «Corte Sabbionera» a S. G. Grisostomo, che anticamente si chiamava «Corte del Milione», perché vi sorgeva il palazzo del celebre viaggiatore Marco Polo, soprannominato «Milione». Partitosi egli da Venezia circa l'anno 1271 col padre Nicolò e collo zio Matteo, attraversò il continente asiatico, e giunse alla corte di Cublay, gran signore dei Tartari, da cui fu incaricato di varie ambascierie, ed in gran conto tenuto. Essendo nel 1295 ritornato a Venezia coi suoi compagni, dopo avere percorso moltissime regioni ignote fino allora agli Europei, picchiarono tutti e tre alla propria casa, ma, vestiti com'erano in rozzi panni alla foggia di Tartaria, non vennero riconosciuti dai parenti. Allora fecero imbandire solenne convito, a cui intervennero in vesti di raso chermisino, che ben presto tagliarono a pezzi e dispensarono ai servi. Quindi, indossarono toghe di damasco, dopo le quali altre di velluto, dispensandole ai servi pur esse. Finalmente comparvero vestiti alla veneziana, abbigliamento che valse a farli riconoscere dagli astanti. Raccontasi che in questo punto Marco Polo traesse fuori i rozzi vestiti da viaggio, e tagliandoli con un coltello, ne facesse uscire grandi tesori in diamanti e pietre preziose. Egli fu d'allora in poi sommamente onorato da' suoi concittadini, non mai sazii di fargli ripetere tutte le molteplici avventure da lui incontrate: «E perchè», dice il Ramusio, «nel continuo raccontare ch'egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Can, dicendo l'entrata di quello essere da dieci in quindici milioni d'oro, e così di molte altre ricchezze di quei paesi riferiva tutto a milioni, gli posero per cognome messer Marco Milioni, che ancora nei libri pubblici di questa Repubblica, dove si fa menzione di lui, ho veduto notato. E la Corte della sua casa da quel tempo in qua è ancor volgarmente chiamata del Milione». Il Barbaro, parlando dei Polo, dice in quella vece: «E loro dal volgo erano detti da cha Milion perchè la fama era ch'avevano in gioje per la valuta d'un milione». Il «Milione» chiamossi pure il libro dei viaggi intrapresi da Marco, ch'egli, fatto prigione nel 1298 dai Genovesi, dettò in carcere al suo compagno di sventura Rusticiano da Pisa, libro il quale, come sembra abbastanza provato, fu steso per la prima volta in lingua francese. Marco Polo, liberato dalla prigionia nel 1299, e ritornato a Venezia vi fece il proprio testamento nel 1324, morendo probabilmente nell'anno medesimo, e venendo sepolto in S. Lorenzo. Il di lui palazzo a San Giovanni Grisostomo, che nel secolo XV vuolsi passasse nei Trevisan, patì nel 1597 gravissimo incendio. Poscia, coll'indicazione di «vecchia casa rovinata dalle sue fondamente», passò in proprietà di Stefano Vecchia, da cui nel 1678 comperollo Giovanni Carlo Grimani onde farvi sorgere il teatro di San Giovanni Grisostomo. In «Corte Sabbionera» ne esistono ancora alcuni avanzi, il più importante dei quali è una porta sopra cui s'involta un ben ornato arco ad alto peduccio, di arabo stile. Per tutto ciò che spetta a Marco Polo vedi la pubblicazione, fatta in inglese dal colonnello Henry Yule col titolo «Marco Polo e il suo libro», la cui erudita prefazione venne volgarizzata dal ch. cav. Guglielmo Berchet, e pubblicata nel volume II dell'«Archivio Veneto».

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Sabbioni (Fondamenta, ora Rio Terrà dei)
a S. Geremia. Dal terreno sabbioniccio. Così il Dezan nelle Illustrazioni all'«Iconografia» del Paganuzzi.

Sabbión (Calle del)
a S. Vito. Ebbe la denominazione da uno spaccio o deposito di sabbia. Non ce lo lascia dubitare la Descrizione della contrada pel 1713, la quale dimostrava che in quell'anno in «Corte del Sabion», a S. Vito, abitava «Dora sabionera» in una casa della «Commissaria Grimani». Al qual proposito rammenteremo come la commissaria di monsignor Pietro Grimani, Priore d'Ungheria, in concorso colla Scuola di S. Maria della Misericordia, qui dispensava 28 case a povere famiglie. Perciò sull'arco della porta scorgesi scolpito lo stemma Grimani in unione a quello della scuola suddetta.

Sembra che un'eguale circostanza abbia imposto il nome alla «Corte», ed alla «Calle del Sabion» a S. Salvatore. Un «Nicolò dal Sabion» e fratelli fecero passare il 26 gennaio 1554 M. V. una casa e bottega situate a S. Salvatore in ditta d'Adriana, loro madre, come pagamento dotale.

Dell'arte dei «Sabioneri» parleremo più innanzi. Vedi Sabbionera (Sottoportico e Corte).

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Sacco (Calle)
all'Angelo Raffaele. Viene appellata negli Estimi e nel Paganuzzi «Calle del Scacco». Un «Zuane Schacho» da «S. Raffael» è registrato come confratello in una delle «Mariegole» appartenenti alla Scuola Grande di S. Maria della Misericordia, che incomincia coll'anno 1308 e termina col 1499.

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Sacrestia (Calle in faccia la)
a S. Giovanni Novo. Per questa, ed altre strade d'eguale appellazione, vedi Chiesa (Calle ecc. della).

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Sagredo (Ramo)
a S. Francesco della Vigna. Dalle case della patrizia famiglia Sagredo, le quali un tempo erano sottoposte alla parrocchia di S. Ternita, e non sono lontane dall'antico palazzo della medesima famiglia. E' probabile che i Sagredo ponessero stanza in questi contorni fino dalla loro venuta, poiché sappiamo che, unitamente ai Celsi, edificarono nell'undecimo secolo la chiesa di S. Ternita, e che, fino da tempi rimoti, avevano possessioni in tale parrocchia. Essi in chiesa di S. Ternita possedevano pure una cappella, ove si veneravano alcune reliquie di S. Gerardo, uscito dalla loro progenie, il quale, dopo avere assunto l'abito di S. Benedetto nell'isola di S. Giorgio Maggiore, portossi in Ungheria, e vi fu creato vescovo, ma, volendo ridurre al cristianesimo quei popoli, venne lapidato presso Buda nel 1047. Altra cappella i Sagredo eressero nella prossima chiesa di S. Francesco della Vigna, riedificata poscia dal Temanza, ove si scorgono la statua di S. Gerardo, ed i cenotafi del doge Nicolò Sagredo, eletto nel 1674, e d'Alvise suo fratello, patriarca di Venezia, eletto nel 1678. I Sagredo ebbero origine, secondo il Freschot, in Roma, donde passarono in Dalmazia, acquistando il cognome dai molti secreti e confidenze di cui gli onorarono i Cesari negli affari concernenti l'amministrazione della provincia. Dalla Dalmazia si trasferirono a Venezia nell'840, ed in merito d'aver ridotto all'obbedienza della Repubblica la città di Sebenico, vennero aggregati al Maggior Consiglio nel 1100. Diedero il nome ad altre vie e si estinsero l'anno 1871 nel conte Agostino, diligente cultore dei patri studi. Pel loro palazzo a S. Sofia, vedi S. Sofia (Campo ecc.).

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Salamon (Calle)
a Castello. Un «Nicolò Salamon» e fratelli, in occasione della Redecima del 1537, notificarono di possedere «sei case con terreno vacuo, overo squero», in parrocchia di S. Pietro di Castello. Appartenevano essi a nobile famiglia venuta da Salerno a Torcello, e quindi a Venezia nel 715, ove nei primi tempi chiamavasi Barbolana, o Centranica. Il primo ad assumere il cognome di Salamon, o Salomon, fu Pietro Centranico, eletto doge nel 1026, il quale, dopo 4 anni di regno, per sollevazione popolare venne deposto, e, coi capelli rasi, cacciato in esilio, laonde celossi pel rimanente della sua vita nel chiostro. Un Giacomo Salamoni, entrato l'anno 1247 nell'ordine di S. Domenico, fu posto dopo la sua morte, avvenuta nel 1314, nel novero dei beati. Un'Elisabetta Salamoni cessò di vivere in Padova nel 1673 nell'atto in cui stava per contrarre sponsali col cav. Nicolò Lazara, il quale la fece seppellire nella chiesa dei Carmini, aggiungendovi un epitaffio in cui si chiama dolentissimo per ritrovarsi fra la face nuziale e la funeraria, e dichiara di aver posto alla sua diletta consorte il tumulo, invece del talamo onde almeno congiungere con quelle di lei le proprie ceneri. Un Giacomo Salamoni, frate domenicano, fiorì pure in Padova come letterato, e nel 1696 pubblicò un'opera intitolata: «Agri Patavini Inscriptiones», susseguita da un'altra nel 1701 col titolo: «Inscriptiones Urbis Patavinae». Avendo la famiglia Salamon edificato la chiesa ed il convento di S. Marta, ne aveva il jus patronato. Perciò quando si eleggeva l'abbadessa essa ne dava tosto parte al più vecchio della famiglia, da cui riceveva l'investitura e, nella vigilia di S. Marta riconosceva i Salamon coll'odorato tributo d'una rosa. Essi si estinsero nel 1788.

Presso la «Calle Salomon» a Castello vi era un ospizio per povere donne, fondato nel 1438 dai coniugi Nicolò e Maddalena Caretto. Tuttora sul muro dell'edifizio scorgesi un'iscrizione che i procuratori dell'ospizio posero in onore dei fondatori nel 1750.

Un ramo dei Salamoni aveva pure palazzo a S. Felice, in una calle che conserva il nome dei medesimi. Questo palazzo ha tuttora l'arma della famiglia proprietaria scolpita due volte sopra la facciata archiacuta risguardante il rivo.

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Salizzada .
Si dà questo nome alle vie più larghe, come quelle che furono le prime ad essere lastricate. Nei primi tempi si camminava sul nudo terreno, od al più coperto di erba, ed era lecito di cavalcare per la città. Le donne, per ischivare il fango, usavano di altissimi zoccoli, che nel 1409 vennero proibiti. Leggesi in un cronista che nel 1264 si «diè principio a salizzare le strade», e ciò si fece con mattoni posti in piano, od in taglio. Allora divenne meno frequente l'uso del cavalcare, che però nemmeno nei secoli XIV e XV era cessato del tutto. Finalmente nel 1676 s'incominciarono a selciare le vie di macigni per opera di Antonio Grimani Provveditore di Comune.

A S. Canciano troviamo una «Corte Salizzada», così detta o per essere prossima alla «Salizzada del Formagier», o per essere stata fra le corti una delle prime che vennero selciate.

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Saloni (Fondamenta ora Rio Terrà, Fondamenta e Ponte dei, Fondamenta delle Zattere alli)
a S. Gregorio. Riferisce il Codice 166, Classe VII della Marciana, intitolato: «Memorie concernenti le vite dei veneti Cancellieri Grandi», che tali denominazioni hanno avuto origine non, come pretendono alcuni, dai prossimi magazzini del sale, ma bensì dalla cittadinesca famiglia Dalle Fornaci, soprannominata «Saloni», che produsse Alessandro, eletto Cancellier Grande nel 1470. Questa famiglia era originaria dal Friuli, ed un ramo di essa abitava in parrocchia di S. Gregorio fino dal secolo XIV, poiché un «sier Giacomello dalle Fornase», da S. Gregorio, trovasi fra gli estimati nel 1379. Sembra poi che fosse soprannominata «Saloni» dai varii individui della medesima che portarono il nome d'Assalonne, e non, corrottamente, dal titolo di «Solone», dato al Cancellier Grande Alessandro per la sua gravità e prudenza. Sappiamo che il 4 marzo 1382 un «Antonius q.dam ser Saloni de Marano» (castello del Friuli) «a Fornacibus», venne condannato ad un anno di carcere ed a cinquanta lire di multa perché, con un amico, rapì Barbarella moglie di Giacomo Possente. Anche un «Assalon dalle Fornaci q. Giacomo» da Marano ebbe un processo criminale, perché, dopo aver amoreggiato con una Franceschina ed aver avuto da essa due figli, abbandonolla, e sposò un'altra donzella per nome Cecilia. Egli, con sentenza 1° novembre 1396, venne obbligato a pagare duecento ducati per maritare la Franceschina. Chi sa che questi non fosse il padre del Cancellier Grande Alessandro, che, per quanto attestano le «Memorie concernenti le vite dei veneti Cancellieri Grandi», era pur egli nominato Assalonne? Va errato poi il canonico Telesforo Bini, nella sua opera intitolata: «I Lucchesi a Venezia», confondendo la famiglia di cui si parla coll'altra famiglia Dalle Fornaci, che venne da Lucca, ed ebbe un privilegio di cittadinanza veneziana fra gli anni 1366 e 1368. Bensì dicono alcune cronache che la famiglia Dalle Fornaci, o Saloni, da S. Gregorio, era d'un medesimo sangue con quell'«Alvise dalle Fornase», domiciliato a S. Canciano in «Birri», fatto nobile nel 1381, i discendenti del quale assunsero l'arma ed il cognome dei Bon. La famiglia Dalle Fornaci, o Saloni, (sia, o no, quella che produsse quel vescovo d'Ossaro, sepolto in S. Antonio di Castello) continuò anche in epoche meno lontane ad abitare e possedere stabili in parrocchia di S. Gregorio, constando che l'Oratorio della Dottrina Cristiana sulle «Zattere» venne eretto nel 1575 sopra un terreno vacuo comperato da Giacomo Saloni, cittadino veneziano, dal confine di S. Gregorio, e che una «Perina dalle Fornaci o Saloni» notificò varie case nel 1661, situate a «S. Gregorio sulla Fondamenta dei Saloni». I Saloni mancarono in Venezia nel secolo trascorso, continuando però ad esistere nel patrio Friuli.

Ai «Saloni» fiorì dal 1651 al 1689 un teatro, aperto dapprima a produzioni drammatiche, ma che nel 1670 cominciò ad acquistare rinomanza per mezzo d'una società filodrammatica coll'opera: «Adelaide regia principessa di Susa», poesia di G. Battista Rodoteo, musica di diversi. In questo teatro nulladimeno vennero cantate nel giro di vari anni 4 opere soltanto, l'ultima delle quali nell'estate del 1689 col titolo «Argene», poesia dell'abate Badi, musica del Caldara.

Al «Ponte dei Saloni» abitava, e morì la sera del 28 aprile 1754 il pittore G. B. Piazzetta in gran povertà, e fu sepolto alla Fava nell'arca che per sé avevasi preparato il libraio G. B. Albrizzi. Vedi i «Notatori» di Pietro Gradenigo.

Quanto alla denominazione di «Fondamenta alle Zattere», vedi Zattere (Fondamenta, Ponte delle).

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Salute (Fondamenta della Dogana, Campo, Fondamenta, Ponte, Rio della).
Presso al luogo ove ora sorge il tempio di S. Maria della Salute eranvi anticamente un monastero ed una chiesa dedicati alla SS. Trinità, i quali nel 1256 vennero donati dalla Repubblica ai cavalieri Teutonici, in premio dell'assistenza avuta da essi contro i Genovesi. Soppresso nel 1592 da papa Clemente VIII il priorato veneto dei cavalieri suddetti, si assegnarono queste fabbriche al patriarcato di Venezia per la fondazione di un seminario di chierici, che già si andava piantando nel chiostro di S. Cipriano di Murano. Stettero i chierici nel nuovo ospizio fino al 1630 in cui, afflitta la città da fiera pestilenza, fece voto il Senato di erigere un tempio a S. Maria della Salute se avesse impetrata la liberazione dal flagello. Dileguatosi il morbo nel 1631, si volle adempiere alla promessa, e frattanto fabbricossi una grande chiesa di legno. Poscia, atterrato il monastero e la chiesa della SS. Trinità, e trasportati i chierici di nuovo a Murano, s'innalzò, dietro disegno del Longhena, il magnifico tempio che ora vediamo. E nel mentre che esso andava avanzando decretò il Senato nel 1656 di consegnarlo ai chierici regolari della congregazione di Somasca, i quali, con disegno del medesimo Longhena, vi fecero sorgere accanto un convento, che si compì nel 1672 contemporaneamente al tempio. Quest'ultimo poi consecrossi nel 1687. Il convento di S. Maria della Salute fu soppresso, come tutti gli altri, nei primordi del secolo presente, e nel 1817 vi si tornò a trasferire da Murano il Seminario dei chierici, che tuttora vi fiorisce.

Nel giorno della B. V. della Salute il tempio ad essa dedicato visitavasi ogni anno dal doge e dalla Signoria in memoria della grazia ottenuta. Visitavasi pure il giorno di S. Antonio di Padova, essendosi, per comando del Senato, collocata in chiesa della Salute una reliquia del Taumaturgo, e credendosi che, per di lui intercessione, la veneta flotta fosse rimasta libera da morbo contagioso presso Castelnuovo nel 1687.

Per la «Dogana della Salute» vedi Dogana (Traghetto della).

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Salvàdego (Calle, Ramo del)
a S. Marco. Da un'antica osteria, che qui anche ai nostri tempi era aperta all'insegna dell'«Uomo Selvaggio». Nella «Mariegola» degli «Osti» la troviamo nominata «la casa del Salvadego in cao de piazza», e nel Capitolare dei Procuratori «de Supra» se ne ha memoria fino dall'anno 1369. Lo stabile di questa osteria era posseduto anticamente dalla cittadinesca famiglia Da Zara, e più tardi fu dei patrizi Giustinian. In effetto, una cronaca scritta nel secolo XVI (N. 2673 della Raccolta Cicogna) così dice, parlando della famiglia Da Zara: «De questa casa fo l'ostaria del Salvadego, fo in frezaria, andando a banda zanca, andando al chaxon, che adesso è de cha Zustignan». L'osteria del Salvadego veniva condotta nel 1560 da un «Piero de Lombardi». Ne fa menzione il Dotti, autore del secolo XVII, nella sua satira intitolata: «Il Carnevale», ove, alludendo alle donne di partito, così si esprime:

Se riesce a queste lamie

D'allettar qualche mal pratico

A commetter mille infamie

Lo conducono al Salvatico.

L'osteria del «Salvadego» ebbe una rifabbrica nel 1754.

Il passaggio dalle «Procuratie Vecchie» alla «Calle del Salvadego» aprissi, mediante un ponte di legno, allorché nel 1810, durante l'erezione della «Nuova Fabbrica» in Piazza di S. Marco, era intercettato il passaggio per S. Geminiano. Ed anche quando questo fu ripristinato pell'atrio del Palazzo Reale, conservossi il ponte di legno del Salvadego, che soltanto il 5 maggio 1835 venne distrutto nottetempo per ordine municipale, ordinandosi nell'11 maggio 1836 che, a sostituzione del medesimo, s'allungasse la strada come presentemente si vede. Chiamavasi «Ponte della Neve» perché caduta una fiata gran copia di neve, se ne fecero alti mucchi presso questa situazione, e se ne empì eziandio il prossimo «Rio del Cavalletto».

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Salviati (Fondamenta del Banco).
Vedi Tamossi.

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Salvioni (Ramo)
a S. Antonino. Fino dal 19 febbraio 1591 M.V. un «Carlo Salvioni et frat. q. Filippo» traslatarono da Antonio Petrobelli «una casa posta in contrà de S. Antonin, pervenuta in dita per stru.o d'acquisto fatto all'off. del Sopra Gastaldo soto dì 5 Ago. passato». Si trova poi che nel 1634 «Filippo e Zamaria Salvioni q. Vincenzo» presero a livello dai Cubli la «casa grande da statio», situata pur essa in parrocchia di S. Antonino. Senonché non sappiamo quali contese sieno insorte poscia fra le due famiglie, poiché nel 1661 «Zorzi Cubli q. Andrea» nella notifica ai X Savii sopra le Decime parla della «casa grande di Cubli» a S. Antonino, goduta dai Salvioni, e da lui pretesa, «della qual pende lite». Questa casa è il palazzo sansovinesco, tuttora esistente sopra il rivo di S. Antonino, che venne fabbricato, secondo le cronache, dalla famiglia cittadinesca Cubli, venuta da Napoli di Romania. Esso restò ai Salvioni, e perciò «Ramo Salvioni» intitolossi la strada che a quello conduce.

Dice la cronaca del Ziliolo che la famiglia Salvioni trasmigrò a Venezia da Salonicchio in tempi antichi, ed in parte fu ammessa al Maggior Consiglio nel 1297, ma vi mancò nel 1305. Dice pure che aveva tombe nelle chiese dei SS. Apostoli, S. Francesco e SS. Rocco e Margarita, e che chiamavasi Salvioni, e Savioni indistintamente. Tuttavia un'aggiunta che si trova nella copia di essa cronaca, già posseduta dal cav. Cicogna, ci rende avvertiti che quei Salvioni, i quali avevano tombe a S. Francesco e casa da stazio a S. Antonino, erano venuti dalla Patria del Friuli molto più tardi, cioè nel 1428. Questa famiglia fu approvata cittadina originaria il 5 febbraio 1723 M.V. in un Filippo, e nei nipoti del medesimo: Gio. Batta., Girolamo, Vincenzo, Gio. Filippo, Pietro, Bartolammeo, Francesco ed Antonio, i quali tutti, come deposero i testimoni, abitavano a Sant'Antonino «nel palazzo della loro casa».

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Sangiantoffetti (Fondamenta).
Vedi Toffetti.

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Sangue (Calle del)
o Brochetta a S. Margherita, presso il Campo. «Giulio e Domenico fratelli Contarini» traslatarono il 29 settembre 1731 dal nome d'Angelo loro padre alcune case e botteghe appigionate a «Giacomo Sangue», le quali erano a «S. Margarita sopra il Campo». Ciò riguardo la prima denominazione. Riguardo la seconda, facciamo osservare che la Descrizione della contrada di Santa Margarita pell'anno 1740 pone in campo di detta contrada, e precisamente in questa situazione, una bottega da «brocheta» (venditore di chiodi) posseduta dai medesimi Giulio e Domenico Contarini, ed allora condotta da una «Veronica Artuzzi».

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Sansoni (Calle, Campiello dei)
a S. Apollinare. Bastava che il continuatore del Berlan gettasse uno sguardo sopra le varie lapidi tuttora in questo «campiello» esistenti, ed avrebbe scorto che le strade suddette non presero il nome, com'egli senza fondamento va supponendo, da qualche statua grande sopra il naturale, ma bensì dalla cittadinesca famiglia Sansoni. Fino dal secolo XV questa famiglia abitava in parrocchia di S. Apollinare, leggendosi nel Necrologio della Scuola di S. M. della Carità la seguente annotazione: «1427, 24 Novembre. m. Lion Sanson fo nostro Vardian a S. Aponal passò esta vita, e fo sepulto alla Carità con la capa della scuola». Troviamo pure nel 1445 un «Nicolò Sanson» parroco di S. Apollinare, e nel 1464 un «Giacomo Sanson» da S. Apollinare, altro Guardian Grande della scuola di S. Maria della Carità. Da S. Apollinare era pure quell'«Alessio Sanson q. Antonio» sepolto, senza data nell'epigrafe, in chiesa della Carità. Alcune cronache fanno provenire i Sanson da Feltre, ma noi troviamo in data 13 aprile 1378 un privilegio di cittadinanza veneziana concesso a Biagio Sanson «qui fuit de Saragusia». Essi andarono estinti in una Lodovica q. G. Batta. q. Angelo, la quale morì nel 1678. Avendo i Sansoni gettato giù un muro di loro proprietà, e formato in tal guisa il «campiello» che da essi prese il nome, conservandosi il diritto dell'area, vollero le famiglie Astori e Balico, successe nelle ragioni dei Sansoni, rammentare questo fatto con una iscrizione posta sulla fronte degli edifici, e segnare i confini, ai quali il muro giungeva, con alcune bianche pietre sopra le quali è scritto: Confini De Sansoni.

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Santa (Calle)
a S. Moisè. Vorrebbe il Fontana che fosse così detta perché confina nella sua estremità col palazzo Giustiniani, ora «Albergo dell'Europa», in cui abitava il santo patriarca Lorenzo Giustiniani allorché si rifaceva quasi dai fondamenti la residenza patriarcale di Castello. Aggiunge il medesimo autore che fino a non molto conservavansi nel suddetto palazzo due altari ove S. Lorenzo celebrò privatamente la messa. Può darsi però che la «Calle Santa» a S. Moisè, come la «Calle della Santa», or chiusa, a S. Maria Zobenigo, abbiano tratto il nome da qualche famiglia così appellata.

Santi (Sottoportico dei)
a S. Gregorio. Una cittadinesca famiglia Santo nel principio del secolo XVII abitava in parrocchia di S. Gregorio, come emerge dallo Stringa, il quale nelle aggiunte alla «Venetia» del Sansovino, dopo aver parlato di vari giardini della nostra città, va seguitando: «Ma nobilissimo il giardino di Simon Santo, Cavaliere e Secretario della R., posto a S. Gregorio, in casa sua, sopra il tetto, nel quale, oltre le rare et pretiose piante che vi sono, si vede una montagna con una fontana, et con nicchi, et altre cose simili, fatte da lui di sua propria mano con tanto giuditio che diresti che vi fossero il monte Parnaso con tutti i suoi fonti. Et vi sono molini, et altri edificii che fanno un bellissimo vedere per le tante acque che vi scaturiscono d'ogni lato».

Un altro «Sottoportico dei Santi» scorgesi a Castello, presso la «Strada Nuova dei Giardini», e precisamente da quella parte ove, prima dell'interramento del rivo, stendevasi la «Fondamenta di S. Domenico». Qui rammentiamo che una «Laura Santo q. Pietro», con traslato 19 gennaio 1631, fece passare in propria ditta da quella di «Lorenzo Dolce q. Marco» una «casa posta in contrà de S. Piero de Castello sulla Fondamenta de S. Domenego, in essa pervenuta per suo pagamento di dote fatto all'Uff. del Proprio 25 febbraro 1630 de man de s. Marcantonio Negri N. del detto Uffizio».

Anche presso la «Fondamenta Rio della Tana», nella medesima parrocchia di S. Pietro di Castello, scorgonsi una «Calle» ed un «Sottoportico dei Santi», nelle quali località un «Domenego Santo» possedeva una casa ove abitava nel 1740. Ed un «Iseppo Santi interveniente» era domiciliato alla Tana nel 1761 («Specchio d'Ordine» ecc.).

Finalmente un «Ramo» ed una «Corte dei Santi» abbiamo a Sant'Angelo, ma tali denominazioni, piuttostoché da famiglia, potrebbero dipendere da una antica fabbrica di immagini di Santi. Egli è certo che nel 1514 stanziava in parrocchia di S. Angelo una «Margarita r.ta Cosmo de Modena la qual stampa sancti», e che il 10 decembre 1621 morì nella parrocchia medesima un «Luca vendi santi».

Santo (Campo)
a S. Simeon Grande. Vedi Cimitero (Calle del).

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Santorio (Ponte).
Vedi Sartorio.

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Sanudo (Calle, Campiello)
a San Polo. Fino dal secolo XIII troviamo negli alberi genealogici di Marco Barbaro alcuni Sanudi, o Sanuti, da S. Polo. Il loro palazzo guarda col prospetto il «Rio di ca' Bernardo» e n'erano proprietari anche al principio del secolo presente. Se stiamo ai cronisti, l'autorità dei quali in tali bisogne è alquanto sospetta, questa famiglia discende dai Livii Romani di cui fu il celebre storico Tito. Tramutatasi da Roma a Padova, e poscia a Venezia, contava, come vuolsi, un tribuno fino dal 564 quando approdò a queste rive Narsete. Fra i cinque dogi, che diede in seguito alla patria, ricorderemo Pietro III perché introdusse nella famiglia, prima detta Candiana, il cognome di Sanuto, alludendo dice il Capellari, alla sana prudenza ed al maturo senno degli ascendenti, e Pietro IV noto pel suo fine infelice. Voleva costui governare dispoticamente lo Stato, per lo che il popolo inferocito pose fuoco al palazzo ducale, ed avendosi il tiranno presentato per domandare la vita ai tumultuanti, venne da essi spietatamente ucciso col picciolo figlio che teneva fra le braccia. Alquanti secoli dopo usciva dalla famiglia Sanudo quel Marino, il quale scrisse in 58 volumi i «Diarii» sopra i fatti dell'Italia e della Repubblica dal gennaio 1495 fino al settembre 1533, cioè dalla venuta in Italia del re Carlo VIII di Francia fino al decimo anno del principato d'Andrea Gritti. I Sanudo da S. Polo si estinsero in un Francesco Livio, morto il 2 gennaio 1852.

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Saoneri (Calle, Calle Seconda dei)
a S. Polo. Prendono il nome queste strade dai fabbricatori di sapone. Nel 1566 «Marco de Mezo» notificò di possedere in parrocchia di S. Polo, «al ponte deli Savoni» (ora distrutto), due «mezzadi» ed una bottega, occupata da un «Francesco saoner». I «Saoneri» si ridussero in corpo nel 1565, e si radunavano per le loro divozioni in chiesa dei Servi, benché non avessero proprio altare. Ai floridi tempi della Repubblica si contavan 25 fabbriche, le quali davano oltre due milioni di libbre metriche di sapone all'anno, alimentando più migliaia d'individui. Il governo aveva emanato provvide leggi anche relativamente a questa industria, leggendosi negli «Annali Veneti» del Malipiero: «Ai 9 d'ottubrio» (1488) «è sta preso che nessun nobile no possa far lavorar saoni a Gaeta, né a Galipoli, sotto pena de 500 ducati e bando da Venetia per 5 anni, per el danno dei dazi e de le saonerie de particulari». Gli stranieri in seguito invidiarono la nostra prosperità, coll'erigere fabbriche nei loro paesi e coll'attrarvi i nostri artefici. I primi a ciò intraprendere furono i Marsigliesi, ma la ferita maggiore venne dai Triestini, sicché nel 1773 Venezia venne ridotta in ramo di sapone a sette fabbriche soltanto.

Dai fabbricatori di sapone si nominò eziandio la «Calle dei Saoneri» a S. Barnaba, sottoposta un tempo alla parrocchia di S. Margarita. Un «Marin Garzoni» notificò nel 1514 di possedere in questa parrocchia uno stabile «sora la savoneria».

Saoneria (Calle della)
a San Pantaleone. Da una fabbrica di sapone, che nel 1661 era tenuta da un «Bortolo e Santo Grigis». Lo stabile era della patrizia famiglia Paruta, la quale abitava nel contiguo palazzo.

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Saponella (Ponte della)
a S. Giobbe. Si vede nella Descrizione della Contrada di S. Geremia pel 1713 che presso questo ponte abitava un «Francesco Saponello». Egli è forse quel «Francesco Saponello», ascritto alla scuola di S. Maria della Misericordia, intorno al quale leggesi nell'elenco dei confratelli defunti: «23 Febbraio 1761 M. V. Sepoltura del q. Fran.co Saponello della contrà di S. Geremia». Altri individui del medesimo cognome vivevano, secondo l'Anagrafi ordinata dai Provveditori alla Sanità per l'anno 1761, nella parrocchia medesima, ed a tale famiglia apparteneva pure quel «Zuane Saponello beccher de S. Geremia», che, per gelosia di mestiere, diede il 10 novembre 1774 varie coltellate all'altro beccajo «Francesco Rizzo detto Chiompo», in «Beccaria Granda» a S. Marco. Lo sventurato, che contava soltanto 24 anni, si diede a fuggire per la «Calle del Ridotto» gridando: «Oh! Dio! Son morto!» e giunto alla farmacia in «Salizzada S. Moisè», esalò l'ultimo fiato.

Il Saponello venne bandito capitalmente il 1° settembre 1775.

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Sarasina (Calle stretta, Calle, Corte, Campiello)
a Castello. Tali strade sono chiamate negli Estimi di «Cha Sarasin», ed è certo molto antica la denominazione che portano. Un «Iacomo di Sarasin» trovasi nel 1406 fra i decani di Castello della Scuola di S. Giovanni Evangelista.

Una famiglia Sarasin, o Saresin (più d'una delle quali esistea in Venezia) diede pure l'appellazione alla «Calle Sarasina», o di «Cha Sarasin», presso la «Riva di Biasio».

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Sartori (Fondamenta, Calle, Ramo dei)
ai Gesuiti. Da diciassette case che qui, nel secolo trascorso, possedeva l'arte dei Sarti o «Sartori». Tuttora sopra una casa di questa Fondamenta havvi un bassorilievo, ove si scorge la Beata Vergine che tiene in braccio il Bambino, in mezzo a S. Omobono e S. Barbara, sotto il cui patrocinio erano i sarti, e si leggono le parole: Hospedal dei Poveri Sartori colla data del 1511. L'arte dei «Sartori» fu eretta in corpo nel 1391, e secondo Flaminio Corner, ottenne fino dal 1485 il dominio sopra il corpo di S. Barbara, che veneravasi nella chiesa dei pp. Crociferi, rifabbricata poscia dai pp. Gesuiti, ed ebbe due delle tre chiavi sotto le quali chiudevansi le sacre reliquie. Oltre l'altare di S. Barbara nella chiesa, quest'arte possedeva nel prossimo campo Scuola di divozione, ricca d'alcune egregie pitture. Anticamente i sarti veneziani dividevansi in tre classi, cioè: «Sarti da veste», «Sarti da ziponi» (giubboni) e «Sarti da calze» (sinonimo di brache). Al cadere della Repubblica, 172 erano le loro botteghe, 279 i capi maestri, 200 i lavoranti, 300 le «mistre», e 2 i garzoni.

Sartorio (Fondamenta, Ponte)
a S. Basilio. Leggasi «Santorio». Sulla «Fondamenta di ca' Santorio» a S. Basilio esisteva nel 1713 la «casa propria dell'Ill.mo Sig.r Antonio Santorio secretario». Questa casa, o per meglio dire palazzo, più non esiste. La famiglia Santorio, che anche il Longo dice domiciliata a S. Basilio, e che si rese celebre pegli onorevoli impieghi da essa sempre sostenuti, venne nel secolo XVII da Capodistria, ove era nato nel 1561 il celebre medico Santorio Santorio, il quale professò con gran plauso medicina in Polonia, e nell'università di Padova, inventò molti strumenti dell'arte, e lasciò dopo la sua morte, avvenuta in Venezia nel 1636, vari scritti, raccolti e stampati in 4 volumi nel 1660 col ritratto dell'autore. Vedi Cicogna («Inscr. Ven.», vol. I). Un «Santorio Santorio» ed un «Isidoro», di lui fratello, furono approvati cittadini originari il 10 maggio 1658. I Santorio oggidì sono estinti.

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Savie (Calle, Ponte delle)
a S. Giacomo dall'Orio. Questo ponte, il quale è prossimo al «Sottoportico delle Colonne», chiamavasi anticamente «Storto», e noi ritroviamo che nel 1661 a S. Giacomo dall'Orio, giù del «Ponte storto sotto le colonne», abitava la «sig.ra Paulina r.ta q. sig.r Camillo de Savii», la qual pagava pigione alla patrizia famiglia Loredan. Si vede poi che nel 1713 il ponte suddetto, colla calle vicina, aveva preso il nome «delle Savie» senza dubbio dall'indicata famiglia Savio, o Savii, che prima v'abitava in prossimità. Di tali corrompimenti di nome abbiamo parecchi esempi, come «Ponte delle Maravege», «Campiello delle Orsette», «Calle delle Pignatelle», ecc. ecc.

La famiglia Savio da S. Giacomo dall'Orio era cittadinesca, e forse era quella che aveva tomba nella chiesa di S. Eustachio.

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Savorgnan (Fondamenta)
a S. Geremia. Lungo questa fondamenta si può ammirare il palazzo Savorgnan, eretto sopra disegno del Sardi, e ricco d'un giardino, che nel 1752 venne ampliato e decorato di statue, vasi d'agrumi ecc., laonde Nicandro Jasseo ebbe a cantare:

............................................................ At hospes

Coetera miratus vastos subsistit ad hortos,

Savornique domum. Viridaria pulchra patebant

Pomiferis distincta viis: ibi citrea ramos

Mala gravant, ibi ramorum pulcherrimus ordo

Multiplici ex nexu testudine contigit aulas:

In vinclis ibi cantat avis canaria, cantu

Et libertati solatia quaerit ademptae.

Sed magis antiquo spectare numismate vultus

Insculptos placuit referentes fronte coronas

Caesareas, circum signata aut nomina regum.

Tot veterum monumenta sibi collegit ad usum

Historiae antiquae Savornius, ipse Latina

Historia simul, et Graeca doctissimus idem.

Il palazzo Savorgnan venne colto nel 1752 da una saetta; nel 1765 ebbe aggiunti i laterali, e nel 1788 patì un grave incendio. Esso passò nel 1826 in proprietà del barone Francesco Galvagna, il quale nel giardino raccolse alcune lapidi romane, due delle quali vennero riportate dal Cicogna nel volume VI delle sue «Inscrizioni». Ora è in altre mani.

Alcuni fanno discendere i Savorgnan da sangue longobardo; altri dalla gente Severa di Roma, e precisamente da quel Severiano, Aquilejese, che fondò il castello Severiano, detto poscia corrottamente Savorgnan. Questa famiglia, donde uscì Alberto Savorgnan, visdomino e signore del Fiuli, poi nel 1219 vescovo di Ceneda, e finalmente nel 1257 patriarca di Aquileia, venne ammessa al patriziato nel 1385 nella persona del cav. Federico, che molto si prestò perché la città d'Udine, e tutto il Friuli, cadessero sotto la Veneta Signoria. Egli, mentre era in chiesa assistendo alla messa, venne fatto uccidere da Giovanni patriarca d'Aquileja nel 1387, ma poco dopo fu vendicato dal figlio Tristano, che ammazzò il patriarca. Gloria dei Savorgnani sono parecchi valorosi condottieri d'arme, fra cui quel Girolamo il quale, all'epoca della lega di Cambrai, disperse gran numero di nemici, e col suo castello di Osoppo fece resistenza per quarantacinque giorni a tutto l'esercito di Massimiliano imperatore.

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Sbiaca (Calle della)
presso la «Fondamenta del Malcanton». In «Calle della Sbiaca», al «Malcanton», esisteva nel 1713 la «sbiacaria propria di Zuane Martinelli, tenuta per uso di negozio di sbiaca».

Parecchie erano in Venezia le fabbriche ed i negozi di «sbiaca» (biacca), che per lo passato spacciavasi assai copiosamente e che tuttora dicesi «veneta», sebbene adesso ottengasi anche altrove.

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Sbianchesini (Sottoportico e Calle dei)
a S. Apollinare. Non «dei Sbianchesini», ma «dei Bianchesini», sono chiamate queste strade negli Estimi, le quali, anche anticamente, erano sottoposte alla parrocchia di S. Silvestro. I Necrologi Sanitari fanno fede che il 10 febbraio 1598 M. V. mancò a' vivi in detta parrocchia «Bortolo bianchesin, de anni 20, da una ferita nel petto», ed il 16 ottobre 1630 «Anetta moglie di m. Gerardo bianchesin». Inoltre l'Anagrafi Sanitaria pel 1633 fra gli artieri domiciliati in parrocchia di S. Silvestro pone un «Anzolo bianchesin».

I «Bianchesini», «Bianchezini», o «Sbianchesini» (scialbatori di pareti) furono uniti fino dal 1578 all'arte dei «Mureri», o Muratori, come si può conoscere dalla legge seguente, che sotto quell'anno è inserita nel «Capitolar Rosa»:

«In Coll.o delli Cl.mi SS.ri Cinque Savii sora le Mariegole.

Che li pozzeri et bianchezini debbino entrar in Scola.

Et perché si attrovano alcuni Maestri pozzeri et bianchesini i quali lavorano delle loro arti, et guadagnano nella città senza essere descritti in alcuna scola, né facendo, o sostentando alcuna angaria, il che non è conveniente né honesto, l'And.à parte che per Aut.à di q.sto coll.o tutti essi maestri pozzeri et bianchezini sieno tenuti et obbligati entrar nella Scola di Mureri, et sostentar le fattioni nella scola, et entrati che sarano, possano ancor lavorar di Murer, et lavorando essi pozzeri et bianchezini di Murer, così all'incontro possano et sii lecito a cad.n murer lavorar de pozzi et bianchizar, essendo massime tutta questa una med.a Arte, et una medesima Profession».

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Scacco (Calle).
Vedi Sacco.

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Scale (Calle, Sottoportico e Corte, Corte, Ramo e Corte delle)
ai Frari. Da alcune scale semiscoperte, che alcuni anni fa ancora esistevano, e che mettevano in misere casucce.

Abitava in «Corte delle Scale», fino dal secolo XV contraddistinta col nome medesimo, quella Franceschina, moglie di un Giovanni «samiter», la quale, ritornando a casa la vigilia di S. Lucia alle tre ore di notte, incontrò al «Ponte di S. Pantaleone» alcuni giovinastri, per opera dei quali, che avevano incominciato a stazzonarla, andava a risico di perdere là su due piedi, e sulla pubblica via, l'onore maritale. Quei giovinastri pertanto, che erano un Cristoforo di Arbe, «samiter», da S. Pantaleone, un Giovanni «barbier» figlio di Matteo Magno da S. Apollinare, ed un Francesco, figlio di Pietro «lavezer», vennero condannati, mediante sentenza 14 gennaio 1417 M. V., ad esser frustati, ed a rimanere in carcere fino a quadragesima, riportando pure tre mesi di detenzione un Cristoforo «scaleter», che aveva tenuto il sacco all'intrapresa.

La «Calle delle Scale» a S. Luca sarà stata forse in origine per la medesima ragione così appellata.

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Scaletèr (Calle, Corte del)
a S. Agostino. Tuttora esiste presso questa situazione uno «scaleter» (ciambellajo). Il nome di «scaleter» proviene da certe ciambelle, che usavansi in antico specialmente nei matrimonii, e che appellavansi «scalete» perché avevano impressi alcuni segni somiglianti ad una inferrata, oppure ai gradini d'una piccola scala. Gli «scaleteri» si eressero in corpo nel 1493, ed avevano scuola di divozione in chiesa di S. Fantino, sotto il patrocinio di questo santo. Ma verso la metà del secolo trascorso si era introdotto nell'arte suddetta un numero così grande di Grigioni, appartenenti al protestantesimo, che la scuola di S. Fantino restò per qualche tempo abbandonata, e le riduzioni si facevano nel Magistrato del «Fontego della Farina» a Rialto. Ciò diede motivo al Senato di proibire che i Grigioni venissero accettati nell'arte. Gli «scaleteri» contavano, nel 1773, 59 botteghe.

Alcune altre delle nostre vie hanno egual denominazione.

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Scaletta (Calle)
a S. Marina. Il Berlan legge «Scoletta», e vuole derivato il nome dalla piccola scuola di S. Marina. Ma versa in errore, poiché nel catasto del 1713 questa strada è chiamata «Calle del Scaletta», cognome, come è chiaro, di famiglia. Un «Zuane Scaletti» fu ammesso nel collegio dei Ragionati il 20 ottobre 1660.

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Scalzi (Fondamenta dei).
L'istituto dei Carmelitani Scalzi si stabilì la prima volta in Venezia nel 1633 per opera del padre Agatangelo di Gesù e Maria, che con un compagno prese a pigione una casa a S. Girolamo. Nel 1635 i Carmelitani passarono in un'abitazione più capace alla Giudecca, e nel 1647 nell'Abazia di S. Gregorio colla lusinga di acquistarla. Ma, non accordatisi nel prezzo, elessero nel 1649 il sito di cui facciamo parola, e vi edificarono un convento, ed una piccola chiesa, che intitolarono di S. Maria in Nazareth per una sacra immagine della Beata Vergine, tradotta dall'isola di S. Maria in Nazareth detta poscia, per corruzione, il «Lazzaretto Vecchio». Verso il 1656 la chiesa venne demolita per innalzare l'attuale sul disegno del Longhena, che consecrossi nel 1705. La facciata è del Sardi, e sorse a spese di Girolamo Cavazza. Dal 1853 al 1862 se ne operò un radicale restauro a spese del governo austriaco. Soppresso il convento nel 1810, parte ne fu ridotta a privata abitazione da chi avevalo comperato dal fisco, e parte, cioè quella risguardante la «Fondamenta», venduta alla società imprenditrice della «Stazione Ferroviaria», che per suo uso vi fece succedere una rifabbrica. Non sono molti anni però che i Carmelitani ricomperarono la prima parte coll'annessa ortaglia per congiungerla ad un ospizio, ove, fino dal 1840, posero dimora.

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Schiavine (Calle delle)
a S. Luca. Qui probabilmente si lavoravano quelle grosse coperte di lana appellate «schiavine», di cui i nostri progenitori facevano fiorito commercio. Abbiamo una Ducale 24 febbraio 1744 di Pietro Grimani, donde appare che Venezia era la sola città dello Stato in cui potessero esistere fabbriche di «schiavine».

La «Calle delle Schiavine», a S. Luca, è così denominata fino dal secolo XIV, leggendosi in una sentenza dei Signori di Notte al Criminal: «ad curtem Sclavinarum ad pontem Fusariorum» colla data del 21 febbraio 1354 M. V. E sappiamo dalle «Raspe» dell'«Avogaria di Comun» che, abitando nel secolo seguente un Datalo ebreo in «curia da le Schiavine, ad Pontem Fusariorum», contrasse amicizia con una sua vicina cristiana di nome Giacometta, moglie d'un Tommaso di Giuriano, e giacque con lei più fiate, laonde, con sentenza 13 giugno 1444, fu condannato ad un anno di carcere, ed a cinquanta lire di multa. La Giacometta poi per avere ardito, «tamquam sus immunda», di mescolarsi con un ebreo, venne pur essa condannata, con sentenza 1° agosto successivo, a quattro mesi di carcere, ed alla perdita della dote. Pell'intolleranza religiosa di quei tempi vedi «Ghetto Vecchio».

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Schiavolina (Corte).
Vedi Schiavoncina.

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Schiavona (Calle)
a Castello, presso S. Domenico. La Scuola degli Schiavoni possedeva nel 1566 due case in «Rio de Castello, a S. Domenego». Tuttora in vicinanza alla «Calle Schiavona» scorgesi scolpita sulle muraglie l'immagine di S. Giorgio coll'iscrizione: Della Scuola di Schiavoni, e colla data del MDCLXIII, anno in cui le case suddette avranno avuto una rifabbrica. Sembrerebbe poi che gli Schiavoni in una di esse tenessero le proprie radunanze, poiché «Mariana Mazzacavalli» notificò nel 1740 d'essere proprietaria d'una casa «posta nella contrà di S. Pietro di Castello, sopra la Fondamenta di S. Domenego, contigua alla Scuola dei Schiavoni».

Volendo alcuni Dalmati, o Schiavoni, soccorrere i poveri e gli infermi della propria nazione, si unirono in confraternita sotto l'invocazione dei SS. Giorgio e Trifone, e fino dal 1451 ottennero dai cavalieri Templari di erigere un altare nella loro chiesa di S. Giovanni Battista, posta nella così detta «Calle dei Furlani», e di fondare un ospizio in alcune prossime case. Nel 1551 fabbricarono un nobile oratorio sul disegno di «Zuane Zon», proto dei muratori dell'Arsenale, oratorio tuttora da essi uffiziato.

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Schiavoncina (Corte, Campiello)
a S. Maria Formosa. Leggasi «Schiavolina», o «dei Schiavolini», come nei catasti. Una famiglia di tale cognome v'abitò nel secolo XV. Apparteneva forse alla medesima quel «pre' Zuane Schiavolin», che fece testamento il 21 settembre 1427 in atti Marco Basilio, pievano dei SS. Apostoli, e quella «Cristina vedova Giacomo Schiavolin», testatrice il 5 marzo 1435 in atti di Paolo Zancanella.

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Schiavoni (Riva degli).
Fu incominciata nel secolo IX, e poscia ampliata con una palude che, fino dal luglio 1060, Anzio e Pulcro, suo figlio, donarono ai monaci di S. Giorgio Maggiore con jus di pesca, e che chiamavasi «Schiavona» dai Dalmati, o Schiavoni, soliti ad approdarvi.

Anticamente la larghezza di questa riva era all'incirca eguale a quella che avevano il «Ponte della Paglia» ed i successivi prima dei recenti ingrandimenti. Trovasi che per la prima volta fu selciata, come ben s'intende, in pietra cotta, nel 1324. Lungo il margine della medesima gli Schiavoni avevano, parte in terra, e parte in acqua, i loro stazii, ove vendevano «bojane» e «castradine». Nel 1780 poi, ai 5 d'agosto, decretava il Senato che si allargasse, «con muramento», la «Riva degli Schiavoni» dal «Ponte della Paglia» sino all'altro della «Ca' di Dio». Ciò venne eseguito sotto la direzione del Temanza, facendosi prima un battuto di pali, e sopra di esso stendendosi due mani di scorza di larice per lungo e traversalmente, indi alzandosi col fango del «Canal Grande», di cui si era ordinata l'escavazione, il muro in maniera che la riva suddetta avesse nove piedi e mezzo di altezza, e circa 80 di larghezza. Essa scorre lateralmente alle due parrocchie di S. Zaccaria e di S. Giovanni in Bragora, e va dal «Ponte della Paglia», fino al «Ponte della Veneta Marina» nelle fondamente della «Ca' di Dio», dei «Forni», e di «S. Biagio».

Sulla «Riva degli Schiavoni» venne ucciso nel 1172 il doge Vitale Michieli II. Vedi Rasse (Calle delle).

Assai più modernamente vi moriva per apoplessia, nell'atto che passeggiava, l'architetto Antonio Selva il 22 gennaio 1819. Ciò avvenne poco lungi dal «Sottoportico di S. Zaccaria».

Sulla «Riva degli Schiavoni» venne inaugurato il 1° maggio 1887 il monumento in onore del re d'Italia Vittorio Emanuele, lavoro dello scultore romano Ettore Ferrari.

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Scoacamini (Calle, Rio dei)
presso la «Calle dei Fabbri», a S. Marco. Nel 1661 molti «scoacamini» avevano case in questa calle. Davasi l'appellazione di «scoacamini» non solo a coloro che spazzavano i camini, o fumajoli, ma eziandio ad un corpo di circa 80 persone Chiavennasche, che si esercitavano nel cavare le latrine. Costoro non erano descritti in arte, né pagavano tansa. Davansi la muta un anno pell'altro, ed estraevano da circa 8 mila ducati all'anno, togliendo in tal guisa l'impiego ai sudditi. Cicogna, «Inscr. Ven.», vol. VI.

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Scoazzera (Campiello, Rio terrà della)
a S. Apollinare. Chiamavasi «scoazzera» un chiuso quadrato di muro, senza tetto, ed aperto d'innanzi, ove si raccoglievano le spazzature, dette in vernacolo «scoazze», finché i «burchieri», o «burchiellanti», le avessero trasportate fuori città. Molti di tali depositi esistevano una volta fra noi, e molti quindi sono i luoghi che da essi presero il nome, e tuttavia lo ritengono.

Le «scoazzere» ebbero origine nel XV o XVI secolo per tener monde le strade, e per impedire che le spazzature si gettassero nei canali. V'invigilava il Magistrato alle Acque, sotto gli ordini del quale erano i così detti «Nettatori dei Sestieri». Coll'andar del tempo però tali scoazzere si distrussero, e fino dal 1662, spargendosi ovunque le immondezze, molto sordide erano divenute le nostre vie. Deliberò allora il Magistrato alle Acque che le «scoazzere» si rifacessero, e minacciò castighi severissimi a chi s'attentasse di demolirle. Nel 1711 le fece poi ristaurare, prescrivendo che a tal uopo fosse trattenuto dal pubblico proto l'importare d'un mese sopra i crediti dei «Nettadori dei Sestieri». Vedi Gallicciolli («Memorie Venete»), e Tentori («Della Legislazione Veneziana sulla preservazione delle Lagune»).

Si legge che, specialmente sul finire del secolo trascorso, le «scoazzere» chiuse diedero qualche volta argomento al basso popolo di puerili timori, ed ai giovanotti capricciosa occasione di sollazzarsi, fingendosi fantasmi notturni. Era dai summentovati recinti che propagavansi le grandi imprese dell'orco, come se in mezzo a tali lordure avesse egli voluto stabilire la sua reggia.

Circa la «Scoazzera» di Sant'Apollinare leggesi nella raccolta fatta dal Rompiasi delle leggi del Magistrato alle Acque: «Si levi la scoazzera a S. Aponal, ed, allargata quella di S. Silvestro, servirà per l'una e per l'altra contrada. 1617, 29 Gennaro».

Il «Rio della Scoazzera» venne interrato dal 1844 al 1845.

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Scotti (Corte)
a S. Luca. Si ha dalla Descrizione della contrada di S. Luca pel 1740 che il «signor Francesco Scotti» possedeva in «Corte del Scotti» a S. Luca un corpo di case con prossima bottega da colori. Queste case formano un'isola, la quale stendesi dal «Campo di S. Luca» alla «Calle dei Fabbri», ed abbraccia nel mezzo la corte di cui parliamo.

Gli Scotti sono originari di Bergamo e, giusta documenti che presentarono all'«Avogaria», si trova onorevole menzione di essi negli atti pubblici di quella città fino dall'anno 1338. Un Giovanni Scotti venne pure ascritto al Consiglio generale di Bergamo nel 1407. Il primo però che di questa famiglia si trasferì a Venezia fu un Bernardo, nato nel 1654, il quale aprì quella bottega da colori in Campo di S. Luca, che, sotto altri proprietari, è aperta tuttora. Il di lui figlio Francesco, quel medesimo che nel 1740 possedeva le case a S. Luca, comperò un feudo nel Friuli, di cui venne investito dalla Repubblica il 19 agosto 1776, ond'egli ed i suoi discendenti ebbero il titolo di conti. Finalmente il 20 decembre 1781 i nipoti di Fancesco ottennero di farsi approvare cittadini originari veneziani.

Tra i più grandi incendi di Venezia il Gallicciolli ricorda quello che il 28 novembre 1740 appiccossi in «Calle dei fabbri dallo Scotti».

Nella «Corte Scotti» havvi un pozzo coll'arma della patrizia famiglia Pesaro, arma ripetuta sopra l'arco che unisce le prossime case, formanti la «Calle delle Balance detta di Mezzo», indizio che le case medesime erano un tempo dalla patrizia famiglia Pesaro possedute.

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Scrimia (Calle della)
a S. Cassiano. Vedi Pin (Sottoportico).

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Scudi (Calle, Ramo, Ponte dei)
a S. Martino. Queste strade erano anticamente sottoposte alla parrocchia di Santa Ternita, e si legge che «s. Domenego di Scudi q. Domenego» traslatò in ditta propria da quella «de s. Piero Malipiero q. Hieronimo» il 29 dicembre 1559 «case n. 3 poste in contrà de s. Ternita, pervenute in lui in virtù de istr.to d'acquisto fatto all'officio del Sopra Gastaldo sotto il 17 xbre 1586». Anche i Necrologi Sanitari notano che il 10 novembre 1630 mancò a' vivi in parrocchia di Santa Ternita «Menego fio del q. Stefano di Scudi da febre et petechie». Egli era il nipote dell'altro Domenico sopraccennato. Avevamo una famiglia di questo cognome ascritta alla cittadinanza originaria.

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Scuole (Campiello delle)
in «Ghetto Vecchio». Dalle tre scuole, o sinagoghe ebraiche che qui esistono, la prima delle quali chiamasi «Spagnuola», la seconda «Levantina», e la terza «Luzzata» o «Tedesca». La «Spagnuola» venne fabbricata nel 1655, forse da Baldassare Longhena.

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Scura (Ramo e Corte)
a S. Eustachio. Vedi Chiara (Corte). La denominazione è altrove ripetuta.

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Secchera al «Gesù e Maria».
«Secchere», o «Secchi», chiamansi quei luoghi che, venendo coperti dall'acqua al momento del flusso marino, ne restano asciutti al momento del riflusso. Ciò avrassi verificato riguardo a queste località nei tempi antichi.

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Secchere (Corte delle)
a S. Alvise. Vedi Secchera.

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Segretari (Calle dei)
a S. Giuliano.

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Selvatico (Campiello).
Vedi Riccardo Selvatico.

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Semenzi (Corte)
sulle «Fondamente Nuove». La famiglia Semenzi chiamavasi anticamente Premuda, ed ebbe la contea di Prevasto. Ma abbattuta da vari accidenti, riparò verso il 1440 a Venezia, ove un Tommaso, nato nel 1637, s'impiegò nei più gelosi maneggi della Zecca, ed un figlio di lui, per nome Francesco, applicossi alla ducale cancelleria, servendo, come secretario, alle corti di Francia e Spagna. Nel 1685 il suddetto Tommaso, per particolari riguardi, mostrò di essere ricevuto come figlio adottivo da un G. B. Semenzi, mercadante di biave, e posto in grado di offrire alla Repubblica 100 mila ducati. Mediante tale offerta, venne ammesso al M. C. collo zio Giovanni, frate domenicano, coi due fratelli, pure domenicani, Giovanni e Giacinto, e coi propri discendenti. Egli, che da quell'epoca in poi assunse il cognome di Semenzi, cognome che restò poscia a tutto il suo ramo, comperò nel principio del secolo trascorso da «Girolamo, Raimondo, Agapito» ed «Eustachio Mosca» uno stabile in parrocchia di S. Marina, che prima serviva ad uso di zucchereria, e che era situato «sopra le Fondamente Nove, dalla parte delle Fondamente stesse». Da questo stabile dei Semenzi, attualmente posseduto da altra famiglia e ristaurato, denominossi la prossima corte.

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Sensa (Rio, Fondamenta della)
a S. Alvise. Vuole il Fontana nell'«Omnibus» che queste località sieno così dette pei magazzini ove stavano in deposito le tavole destinate a formare, durante la fiera della «Sensa», od Ascensione, il recinto solito ad erigersi ogni anno nella «Piazza di S. Marco». Vedi Ascension (Calle ecc. della). E' più probabile però che il «Rio della Sensa» (e per esso la Fondamenta) prendesse il nome dal «fresco», o corso di barche, che soleva qui celebrarsi, prima d'essere trasportato altrove, specialmente nel giorno dell'Ascensione. Tuttora nella pinacoteca Querini Stampalia scorgesi un dipinto di Gabriel Bella, rappresentante il «Corso delle Cortigiane nel Rio della Sensa».

Leggesi nei «Casi Memorabili» del Gradenigo: «1625, gen. Basilio conte di Collalto, q.m Schinella, diffendendosi dalli officiali delli Signori Cap. sotto il Porteghetto in Rio della Sensa, alla Misericordia, avendo con archibugiata ucciso il capitanio Gabrieletto fu anco lui con archibuggiata ucciso».

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Sepolcro (Ponte del)
sulla «Riva degli Schiavoni». Elena Celsi, vedova di Marco Vioni, con testamento 2 gennaio 1409 M. V. in atti di Gaspare di Mani, lasciò una casa qui posta perché dovesse servire in parte ad abitazione d'alcune povere, ed in parte a ricetto di pellegrine dirette al S. Sepolcro di Gerusalemme, o reduci da quella regione. Dopoché nel 1471 Negroponte cadde in mano dei Turchi, Beatrice Venier e Polissena Premarin fuggirono da quell'isola, e nel 1475 ottennero dai commissarii dell'ospizio Vioni di essere in esso ricoverate, ove, unitesi ad altre donne, abbracciarono il terzo ordine di S. Francesco. Frattanto i commissarii aggiunsero all'ospizio una chiesa dedicata alla Presentazione di M. V. e nel 1484 vi fabbricarono in mezzo un sepolcro ad imitazione di quello esistente in Gerusalemme. Poscia, con istrumento 13 Aprile 1493, concessero in perpetuo il locale alle terziarie, che nel 1500 furono facoltizzate ad ingrandirlo coll'esenzione dall'obbligo di continuare a dar ricetto a pellegrine. A tale scopo comperarono alcuni stabili attigui, fra cui il palazzo Molin «dalle due Torri», già abitazione di Francesco Petrarca, e fecero sorgere in breve vasto convento, del quale conservasi tuttora la bella porta, architettata dal Vittoria, a spese di Tommaso Rangone, medico e filologo ravennate. Mancano però l'iscrizione e la statua del pio largitore, trasportate alla Salute. E' probabile che nel tempo medesimo le monache ristaurassero anche la chiesa del S. Sepolcro, la quale nel principio del secolo XVII ottenne nuovi abbellimenti a spese della famiglia Grotta. Essa fu chiusa nel 1808, ed in seguito, unitamente al convento, il cui ultimo ristauro avvenne nel 1739, ridotta a caserma.

Il «Ponte del Sepolcro» era detto anticamente «della Pietà», oppure di «ca' Navager», perché da una parte prossimo all'ospizio della Pietà, e dall'altra al palazzo che, come si vede dallo stemma sculto sopra il pozzo della corte interna, e dagli Estimi, apparteneva alla patrizia famiglia Navagero. Da questo ramo uscirono Andrea Navagero il «cronista», e l'altro Andrea, nipote del precedente, buon politico, storico e poeta. Dalle muraglie adunque di questo palazzo rimuovasi la lapide accennante all'abitazione del Petrarca, ponendola all'angolo dell'odierna «Calle del Dose», ove, per documenti scoperti, sorgeva il palazzo Molin dalle due Torri, e qui pongasi altra lapide in onore dei due chiari soggetti della famiglia Navagero poc'anzi mentovati.

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Seriman (Salizzada)
ai Gesuiti. «Stefano Seriman» il 27 luglio 1728 traslatò in ditta propria da quella di «Adriana Donado r. s. Alberto Gozi» una «casa per uso ai SS. Apostoli, pervenuta nel d. per acquisto fatto dalli 4 Ospitali e Lochi pii 1726, 13 Gen.o, atti s. Zuane Garzoni Paolini N. V.» Questa casa è il palazzo archiacuto che sorge presso i Gesuiti, e di cui abbiamo altrove parlato. Vedi Gozzi (Rio del).

La famiglia Sceriman, o Seriman, fiorì, col cognome di Sarath, in Ziulfa d'Ispahan, ove, colma d'onori e di ricchezze, eresse templi ed ampi edifizii pei propagatori del Vangelo. Ma vittima di crudeli persecuzioni, abbandonò la terra natale, e si rifuggì in Italia sul finire del secolo XVII. Questa famiglia diede nel giro di brevi anni distinti prelati alla corte romana, commendatori e ciambellani all'austriaca, valorosi generali all'armate dell'impero germanico. I Seriman furono fregiati da Innocenzo XII della romana cittadinanza, e dall'imperatore Leopoldo I del titolo di conti ungheresi. Vennero in gran conto tenuti anche dalla veneta repubblica, a cui prestarono 720.000 ducati per la guerra di Candia. Essi avevano la loro tomba in chiesa di S. Maria della Consolazione (volgarmente «la Fava») colla modesta epigrafe: Serimanorum Comitum Monumenta. All'aprirsi del nostro secolo vantavano uno Stefano Domenico, vescovo di Chioggia, morto nel 1806, e più tardi un G. Battista, generoso benefattore dell'Istituto Manin. Vedi Spagna (Lista di).

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Sernagiotto (Sottoportico e Calle)
a S. Giovanni Grisostomo. Vedi Stramazzer.

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Servi (Ponte, Fondamenta dei).
Alcuni frati dell'ordine dei Servi di Maria, venuti a Venezia nel 1316, poterono, cogli ajuti d'un Giovanni Avanzo, fondare un monastero ed un tempio, di cui si pose la prima pietra il 24 marzo 1318, ma che solo però nel 1474 ottenne perfezione, e nel 1491 fu consecrato da Antonio Saracco, arcivescovo di Corinto. Questo tempio fu nel 1813 quasi del tutto demolito, unitamente al monastero, il quale nel 1769 aveva patito un grave incendio. Nel 1862 l'ab. Daniele Canal ne comperò l'area e gli avanzi per fondarvi i suoi femminili istituti. Principale di essi avanzi è una porta decorata da archi concentrici a strati alterni di pietra d'Istria e di broccatello, e fiancheggiata sull'alto da due colonnette, la quale rinchiude un arco semicircolare con meandri fregiati da animali.

Il «Ponte dei Servi», sul rivo di S. Marziale, fu edificato per la prima volta dai frati nel 1423, dietro una ducale di Tommaso Mocenigo. Ora esso è chiuso, mettendo agli istituti Canal.

Nel monastero dei Servi passò la vita fra' Paolo Sarpi, consultore e teologo della Repubblica, morto nel 1623. Le di lui ceneri si scoprirono a caso nel 1722, nel 1813 vennero deposte provvisoriamente nella biblioteca di S. Marco, e finalmente nel 1828 collocate nella chiesa di S. Michele di Murano.

Il Codice 184, Classe XI della Marciana, ha queste parole: «1627, 2 marzo. S. Girolamo Morosini q. Bortolomio in un ridotto ai Servi fu ucciso da s. Pietro da Molin q. Marco q. Vincenzo». E più avanti: «1632, 22 gennaio: s. Zuane Dolfin q. Vettor, venendo da reduto alli Servi, fu da due maschere assalito, et sbaratogli un pistone nella schiena, rimase subito morto, et fu detto fossero mandati da s. Rugier Foscarini fu de s. Lunardo, il quale perciò fu bandito».

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Servo (Sottoportico del)
a S. Fosca. Una patrizia famiglia Servo si estinse nel 1175, ed un prete di cognome Servo fu nel 1330 pievano della prossima chiesa di S. Felice. Ma è probabile che la località ricordi una famiglia più moderna dello stesso cognome.

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Sestiere .
Le otto miglia di circuito di Venezia si dividono in sei sesti («sestieri»), tre di qua del «Canal Grande», e sono: Castello, S. Marco, e Cannaregio; tre di là: S. Polo, S. Croce e Dorsoduro (che comprende anche la Giudecca e l'isola di S. Giorgio Maggiore). Murano anticamente apparteneva al Sestiere di Cannaregio, ma nel 1271 gli fu tolto, e forma d'allora in poi una comune separata. L'istituzione dei sestieri è dovuta, secondo alcuni, al doge Partecipazio, appena trasportata la sede ducale in Rialto; secondo altri, al doge Domenico Morosini, oppure Vitale Michiel II, quando per la prima volta s'imposero gli «imprestidi». Ai tempi della Repubblica, i sei consiglieri, che facevano parte della Serenissima Signoria, traevansi uno da ogni sestiere.

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Seta (Calle dell'Ufficio della)
a S. Gio. Grisostomo. Vedi Ufficio.

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Sforza .
Vedi Duca Sforza.

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Sicurtà (Calle della)
a Rialto. E' così detta perché avevano in essa il loro cancello, o studio, quei mercatanti che si esponevano a reintegrare i loro colleghi, i cui generi, spediti per mare, perivano o venivano depredati, e che perciò dicevansi «assicuratori». Basta gettar l'occhio sopra la Descrizione della contrada di S. Giovanni di Rialto pel 1740 per vedere moltissimi «scancelli di sicurtà» stabiliti in quella calle.

Rammenta il Benigna, all'anno 1752, di settembre: «In questo mese si ha dato principio a ristaurare le fabbriche in Calle della Sicurtà, et altri luochi, avendo trasportato il pubblico Banco del Giro sotto i portici nei stabili di ca' Lini».

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Soccorso (Fondamenta, Ponte del)
a S. Maria del Carmine. Veronica Franco, veneziana, si rese celebre per bellezza, valore poetico, e numerosi amanti, fra i quali va citato Enrico III re di Francia, che, partendo, portavane oltre Alpi il ritratto. Pentitasi però, come sembra, de' suoi poco modesti costumi, insinuò nel 1580 ad alcuni patrizi di fondare un ospizio per raccogliere donne traviate. Essi aderirono all'istanze, ed in breve parecchie peccatrici ebbero asilo in una casa a S. Nicolò di Tolentino, dalla quale contrada passarono successivamente a S. Pietro di Castello, ai SS. Gervasio e Protasio, e per ultimo, nel 1593, nel sito di cui si favella. Qui, oltre l'ospizio denominato del «Soccorso», sorse nel medesimo anno 1593 un oratorio dedicato a S. Maria Assunta, che ebbe consecrazione nel 1609 da Lorenzo Prezzato, vescovo di Chioggia. Gli stabili furono rimodernati nel 1760. Durò il pio luogo fino al 1807, in cui le donne in esso raccolte furono concentrate con le Penitenti di S. Giobbe, chiudendosi anche in tale occasione l'oratorio.

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Soldà (Corte del)
a Castello. Leggasi «Solta», come negli Estimi, dalla famiglia «Dalle Cipriote», soprannominata Solta, forse perché provenne da Solta, isola della Dalmazia. Un Alvise Solta, «patron de nave», fabbricò nel 1560 in questa Corte un edificio, che notificò ai X Savii nel 1566, nel quale, come si espresse, «abito dentro con la mia famegia e con tre miei fradelli con le sue famegie e la madre, che si trovano tutti in fra fioi e fie, e le donne, e li omeni, che sono in tutto persone 20». Sopra il prospetto poi della casa medesima, recante oggidì il N. A. 910, fece scolpire la seguente bizzarra iscrizione:

Aloysii Soltae Decretvm

Praebuit has aedes nobis regnator Olympi

Non meritis propriis sed bonitate sua.

Herculei sexus Soltarum vivito solus

Haeres, nec tecum gaudet (gaudeat) ulla Venus.

Pignoret has nullus, nullus has vendere possit;

legibus aeternis haec mea vota dico.

m. d. — l. x.

Trovasi che alcuni Solta da Castello furono «calafai» dell'Arsenale. Altri individui di questa famiglia si diedero però ai pubblici impieghi ed alla carriera ecclesiastica, poiché un «Giacomo dalle Cipriote, detto Solta», nato il 6 agosto 1606, il quale, secondo la fede rilasciata dalla chiesa di S. Pietro di Castello, era «fio de Zuane stà in Corte del Solta», venne ammesso il primo maggio 1649 nel Collegio dei Ragionati. Un Matteo, di lui fratello, che nel 1661 figurava anch'egli qual possessore di stabili in «Corte del Solta», fu parroco di S. Biagio. Finalmente un Gaspare Solta restò eletto nel 1730 primicerio castellano.

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Sole (Calle del)
a S. Apollinare. Questa strada, che mette al «Campiello della Scoazzera», un tempo detto «Campiel delle Scoazze», prese il nome da un'osteria all'insegna del «Sole», che apparteneva ai Venier. Essa nei traslati del 1799 è descritta come segue: «S. Aponal, Campiel delle Scoazze. Casa era aff.a a Giacomo Miotti, altra a Francesco Zanga, Botteghin a Bortolo Lioni, Casa era aff.a a Zuane Casarini, altra a Bortolo Lioni, ora ridotte tutte in un sol stabile per osteria all'insegna del Sol».

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Sottoportici (Ramo)
a Rialto. Prende il nome dal «Sottoportico del Banco Giro» che gli sta di fronte.

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Sottoportico . «Sottoportico»,
o Sottovolto, è, come ben si conosce, un tratto di strada che passa sotto qualche edificio.

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Spadaria .
Non è da maravigliarsi che in una città armigera come fu questa, esistesse una strada appositamente destinata ai fabbricanti di spade. Lo stemma di essi è quello scudo col leone di S. Marco, e sotto tre spade, scolpito sul muro all'ingresso della «Spadaria», dalla parte della così detta «Calle Larga». Gli spadaj si eressero in corpo nel 1297, ovvero 1298, ed erano uniti ai «corteleri» (coltellinaj) ed ai «vagineri» (vaginaj), benché questi ultimi coll'andar del tempo se ne disgiungessero. Anticamente forse avevano scuola di divozione in chiesa di S. Francesco della Vigna, ove certamente avevano tomba colla data del 1500. In tempi a noi più vicini si radunavano però coi coltellinaj in chiesa di S. Angelo sotto l'invocazione di S. Nicolò di Bari. Ce lo attesta il Coronelli nella sua «Guida» (edizione del 1700). Molti di questi artieri stanziavano in «Spadaria» nel 1661.

Gli spadaj nel 1574 accompagnarono Enrico III, re di Francia e di Polonia, da Murano a Venezia con una barca addobbata a cuoi d'oro, ove scorgevansi armi antiche e trofei, trentotto piccole bandiere turchesche, ed una bell'insegna antica di battaglia dei tempi del doge Ziani, essendo i remiganti vestiti di livrea rossa e verde.

Il Cicogna, in un «Diario» de' suoi tempi, manoscritto nel Civico Museo, ci racconta come, essendovi nel selciato della «Spadaria» una pietra con sopra scolpite quattro palle da giuoco, era sorto il costume, che quando volevasi corbellare alcuno lo si mandasse dal bottegajo di fronte acciocché gli dovesse consegnare le quattro palle pattuite. Questi allora chiamava i vicini, e mostrava al gonzo le quattro palle scolpite, rispondendogli di portarle via, se ciò gli fosse stato possibile. A togliere burle siffatte, la pietra colle palle venne rimossa, per ordine della polizia, nel mese di luglio dell'anno 1815.

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Spagna (Lista di)
a S. Geremia. Così chiamossi questo tratto di strada per essere prossimo al palazzo degli ambasciatori spagnuoli. «Lista», infatti, voleva significare, come altrove abbiamo notato, le adiacenze del palazzo di qualche ambasciatore, che godevano, al pari degli antichi asili, alcune immunità pei delinquenti.

Il palazzo di Spagna, di cui si parla, per quanto ricordano le nostre cronache, e per quanto si deduce dallo stemma della torre coi due grifoni ai fianchi, sculto tuttora sopra il bel pozzo della corte, venne fondato dalla cittadinesca famiglia Frigerio, o Friziero, del cui sangue vuolsi essere stato S. Magno. L'autore delle «Vite e Memorie de' Santi spettanti alle chiese della Diocesi di Venezia», pubblicate nel 1763, parlando della parrocchia di S. Geremia, afferma che «certo sito esistente nel palazzo, ora abitato dall'ambasciatore di Spagna, chiamasi fino al presente, la camera di S. Magno, ove il Santo faceva sua dimora assieme con la nobile sua famiglia detta Frizier». E nell'interno eravi un pozzo appellato di S. Magno, la cui acqua si dispensava ai divoti come valevole alle guarigioni. Ai Frizieri appartenne il palazzo fino al 25 ottobre 1613, epoca nella quale Antonio Friziero q. G. Battista, con istrumento di permuta, in atti di Marin Renio, lo cesse a Renier Zeno q. Francesco Maria, riportandone in cambio la rendita di 340 ducati di «dadie» sullo stato Veneto. Non sappiamo precisamente l'anno in cui la famiglia Zeno destinò questo palazzo a sede degli ambasciatori spagnuoli. E' certo che questi, sino dai tempi del Martinioni, v'ebbero domicilio, e che il conte Giuseppe di Montealegre, uno fra i medesimi, finì coll'acquistarlo dopo la metà del secolo trascorso, e rifabbricarlo, come presentemente si vede. Il conte Giuseppe di Montealegre fabbricò pure nella sua chiesa parrocchiale l'altare dedicato alla Sacra Famiglia, a' piedi del quale nel 1771 venne sepolto. Ai nostri tempi però era riserbato al palazzo di Spagna d'essere la sede del pio istituto fondato dall'ultimo doge dell'estinta Repubblica. Qui, vogliam dire, trasportossi nel 1857 l'Istituto Manin, dopoché il conte G. Battista Sceriman ebbe dato i mezzi alla Commissione Generale di Pubblica Beneficenza di divenire proprietaria dello stabile, coll'istrumento 23 maggio 1853, in atti Dario Paolucci. E prima che ciò succedesse, aveva già il conte Sceriman disposto, con testamento 7 giugno 1850, pubblicato presso l'I. R. Pretura Urbana di Venezia il 13 gennaio 1854, di circa 50 mila lire austriache di rendita a favore dell'Istituto medesimo.

Nel palazzo Frizier a S. Geremia venne ospitato nel 1508 un vescovo scozzese diretto a Gerusalemme, che, ammesso in collegio, ed invitato a sedere presso il doge, gli presentò lettere commendatizie del re di Scozia e di quello di Francia, e recitò una orazione latina in lode della Repubblica.

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Specchieri (Salizzada dei)
ai Gesuiti. In questa situazione sorgeva l'oratorio di S. Stefano, appartenente all'arte degli «Specchieri». Essi ne avevano fatto acquisto il 28 gennaio 1775, mentre prima lo tenevano a pigione dai padri Gesuiti.

L'industria degli specchi sembra introdotta da Nicolò Cauco, Muzio da Murano, e Francesco, fabbricatore di coperte, da S. Bartolammeo, i quali fecero il 5 febbraio 1317 M. V. un accordo con un maestro di quell'arte in Alemagna, «qui vitrum a speculis laborare sciebat, et fecerunt ipsum dictam artem laborare in Venetiis (Fronesis)». Col progresso del tempo, un Antonio Bertolini, detto il Gigante, inventore delle mole per dare l'ultima pulitura agli specchi, essendosi associato ad un Bernardo Ponti, ottenne di separarsi dai Muranesi, e poté rendere l'arte degli specchi distinta, coll'obbligo però di ritrarre le paste dalle fornaci di Murano. Gli «Specchieri» dipendevano un tempo dai «marzeri», ma nel 1577 s'emanciparono. Ebbero altre scuole di divozione oltre quella dei Gesuiti, e diedero il nome anche alla «Calle dei Specchieri» a S. Giuliano, ove in gran numero stanziavano, come appare dalla Descrizione della contrada pel 1661.

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Speron (Sottoportico, Corte)
in «Frezzeria». E' probabile che queste località, chiamate nei catasti «Sottoportico e Corte del Spiron», abbiano preso il nome da una spezieria all'insegna dello «Sperone», la quale esisteva in «Frezzeria» nel secolo XVI. Egli è certo che nel 1582 «Zaneta Venier relita del q. clarissimo m. Renier Zancarol» notificò di possedere in «Frezzeria» una bottega tenuta a pigione da «Zuan Franco di Bianchi spicier al Spiron». Sembra poi che lo «sperone», insegna di tale bottega, fosse dorato, poiché il 25 maggio 1661 un «Domenego de Brolo» trasportò in propria ditta da quella di «Piero Cigaloto» una casa «in contrà di S. Moisè, in Frezzeria, in Corte del Spiron d'oro».

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Speziali (Ruga dei)
a Rialto. Vi stanziavano gli «Spezieri da grosso», che fino dal 1383 avevano scuola di divozione, sacra a S. Gottardo, nella prossima chiesa di S. Matteo. Ma nel giorno 9 settembre 1394 ottennero dal Consiglio dei X di trasportarsi a S. Apollinare, essendo i contorni di S. Matteo pieni di meretrici e persone disoneste. Essi a S. Apollinare raccoglievansi nel piano inferiore d'un fabbricato presso la chiesa, e precisamente sotto la scuola dei Tagliapietra, che occupava il piano superiore. Colà scorgevasi sulla porta scolpito esteriormente S. Gottardo, e scorgesi tuttora un'iscrizione riportata dal Cicogna. L'arte degli «Spezieri da grosso» chiamavasi Università, perché abbracciava gli speziali da confetti, i droghieri, i cereri, i raffinatori di zucchero, ed i fabbricatori d'olio di mandorle. Nel 1675 vi s'aggiunsero anche i «mandoleri», che, mediante una contribuzione, potevano vendere generi affetti all'Università suddetta. Vedi il manoscritto Dal Senno, citato dal Cicogna nelle sue «Inscrizioni», vol. III.

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Spini (Calle dei)
alla Giudecca. Una «Francesca Spin», ed un «Francesco Spin», ambidue dalla Giudecca, cessarono di vivere, la prima il giorno 29, ed il secondo il giorno 30 luglio del 1576, anno terribile per le stragi che menò la peste in Venezia. E nel medesimo secolo il notaio Avidio Branco ebbe per isposa un'Elisabetta Spin, pur essa dalla Giudecca.

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Spiriti (Corte dei)
ai Tolentini. V'ha taluno che fantastica sopra questa denominazione qualche storiella di spiriti folletti. A noi sembra più credibile che qui abitasse anticamente qualche famiglia Spirito. Un Francesco Spirito ebbe tomba nel chiostro di S. Stefano Protomartire colla data del 25 giugno 1347. Un Francesco ed un Matteo Spirito furono tra gli allibrati del 1379. Ed un Pietro Spirito venne eletto pievano dei SS. Ermagora e Fortunato nel 1386.

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Spizier .
Vedi Spezier.

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Sponza (Campo della)
alla Giudecca. Abitava nel 1661 in questo campo una «Franceschina Sponza» in casa propria. Essa aveva comperato questa casa da un «Francesco Orda, q. Carlo», con istrumento in atti di Lodovico Bruzzoni N. V. e l'aveva traslata in proprio nome il 19 dicembre 1652. Rileviamo poi che «Franceschina q. Francesco Sponza» era moglie di «Natale Lucon», dal nome del quale traslatò un'altra casa alla Giudecca il 10 giugno 1684, a titolo di pagamento dotale, traslato fatto iscrivere da Francesco Lucon di lei figlio.

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Squartai (Ponte dei)
ai Tolentini. Nell'assoluta mancanza di storiche memorie si potrebbe ricorrere alla supposizione che qui fossero stati messi a quarti i corpi d'alcuni malfattori, oppure che qui si fossero appesi i quarti dei medesimi dopo la esecuzione, come praticavasi anticamente a terrore generale. A questa seconda opinione s'accosta il Pullè nelle sue annotazioni ai «Canti del Popolo Veneziano» del Foscarini.

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Squelini (Campiello dei)
a S. Barnaba. E' chiamato nel Sabellico «Figulorum area», e nei catasti «Campiello dei Scudeleri», o «dei Squelini», dai fabbricatori di scodelle che qui avevano fornace. Essi erano uniti ai «Bocaleri», chiusi in corpo fino dal 1420, e soliti a radunarsi per le divozioni loro in chiesa di S. Maria dei Frari, sotto il patrocinio di S. Michele Arcangelo. Nel libro «Fronesis» esiste una legge del 13 settembre 1323 col titolo: «Scutelarii possint coquere sua laboreria in domibus in quibus stant in nocte». Di essi fa cenno il Sanudo al maggio 1523 colle parole: «Adì 7, la mattina, se intese esser brusà una casa de scudeleri nuova a S. Barnaba».

In «Campiello dei Squelini», soggetto un tempo alla parrocchia di San Pantaleone, morì Lucrezia Marinelli, donna letterata. Così leggiamo nel necrologio: «Adì 9 ottobre 1653. La clarissima Signora Lucrezia Marinelli relicta q. ecc.te Gerolamo Vacca, d'anni 82, da febre quartana mesi uno. Campiel dei Squelini». Essa venne sepolta in chiesa di San Pantaleone con epigrafe, che però, dopo il rifacimento della chiesa, andò perduta.

Pel fatto di Veneranda Porta, vedi Madonna (Calle della) a S. Barnaba.

Una piccola lapide posta, a cura privata, in «Campiello dei Squelini», ricorda un Carlo Grison, detto Bodai, colà ucciso per gelosia il 28 marzo 1842, seconda festa pasquale.

Anche un Sottoportico ed una Calle a San Simeon Grande, presso il «Rio Marin», si dicono «dei Squelini» per la stessa ragione.

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Stagneri (Calle dei)
a S. Salvatore. «Calle dei Stagneri», o «Stagneria», chiamavasi promiscuamente, e ciò per le varie officine da «stagneri», o stagnai, che vi esistevano, del qual fatto si può trovar testimonianza negli Estimi. Gli «Stagneri», uniti ai «Peltreri», formarono scuola nel 1477, di novembre, in chiesa del SS. Salvatore, all'altare di S. Giovanni Evangelista, che scelsero come loro protettore. In seguito però, avendo i canonici regolari del SS. Salvatore disposto altrimenti del suaccennato altare, ed avendovi fatto cancellare lo stemma degli «stagneri», consistente in un «bocal da galia», questi intentarono una lite che perdettero nel 1564. Allora si trasportarono nella prossima chiesa di S. Bartolammeo, ove sappiamo che il loro altare, dopo la visita fatta il 21 luglio 1581 da Lorenzo Campeggio, legato apostolico, ed Agostino Valier, vescovo di Verona, restò sospeso, e dopo la visita fatta il 30 novembre 1592 dal patriarca Lorenzo Priuli, venne fatto distruggere per essere indecentemente attaccato alla parte sinistra dell'altar maggiore. In seguito ebbero il permesso di far uso dell'altare della Scuola di S. Matteo nella chiesa medesima. Secondo la statistica del 1773, sei erano in Venezia le botteghe degli «stagneri», venti i capomastri, nove i lavoranti, con un solo garzone.

Una parte della «Calle dei Stagneri» chiamasi anche «della Fava», perché prossima al ponte così denominato.

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Stampador (Calle del)
a S. Samuele. La Descrizione della contrada di S. Samuele pel 1661 nomina questa calle, ma non accenna che allora vi stanziasse stampatore alcuno. Vi avrà stanziato in antecedenza, leggendosi nei Necrologi Sanitari: «A dì 2 novembre 1555. Oratio fio de m. Bortolo stampador - S. Samuele».

L'arte della stampa fu portata in Venezia da Giovanni da Spira, come appare dal privilegio concessogli dalla Signoria nel 1469, privilegio di cui egli non potè godere, poiché poco dopo cessò di vivere improvvisamente. Lo Spira in quell'anno medesimo 1469 aveva stampato le seguenti opere: «Cicero ad Familiares; Plinii Historia Naturalis; Cicero ad Familiares» (II ed.). Il fratello di lui Vindellino, il Jenson, ed il Valdarfer progredirono con felice successo l'intrapresa. Nel susseguente secolo poi andarono a gara gli Aldo, i Gioliti, i Giunti, e molti altri a pubblicare edizioni con scelta carta, nitidi caratteri, e scrupolose correzioni. Allora incominciò a fiorire in Venezia questo ramo di commercio, crescendo tanto che nel 1773 trentacinque erano le nostre stamperie. Gli Stampatori si eressero in corpo, unitamente ai Librai, nel 1548, e fino dal 1642, avevano scuola di divozione nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, sotto il patrocinio di S. Tommaso d'Aquino.

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Stellon (Calle)
detta della Testa ai SS. Giovanni e Paolo. E' denominazione moderna, derivante da case che appartengono a quella famiglia Stellon, la quale aprì un fondaco di merci a S. Salvatore, giù del «Ponte del Lovo».

Per la seconda denominazione vedi Testa (Calle ecc. della).

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Stendardo (Calle Larga dello)
a S. Nicolò. Un'antenna, dalla quale nei giorni festivi sventolava lo stendardo di S. Marco, ed una colonna di marmo col leone, ora trapiantato presso la chiesa di S. Nicolò, indicavano, al tempo della Repubblica, che la parrocchia di S. Nicolò era comunità separata dal restante della popolazione, ed arricchita di privilegi.

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Stivaletto (Calle del)
a S. Silvestro. Da una bottega da calzolaio all'insegna dello «Stivaletto», che qui esisteva nel secolo trascorso.

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Storto (Ponte, Calle del Ponte)
a S. Apollinare. Alcuni ponti di Venezia sono così denominati per la conformazione che avevano, oppure hanno tuttora. Il «Ponte Storto» a S. Apollinare, prima dell'interramento del «Rio della Scoazzera», avvenuto negli anni 1844-1845, intestavasi ad altro ponte, il quale metteva nel vestibolo d'un palazzo lombardesco, ai N. A. 1279-1280, antica proprietà Molin, ed abitazione un tempo d'un ramo della patrizia famiglia Cappello. Qui nacque la celebre Bianca da Bartolammeo Cappello e da Pellegrina Morosini nel 1548. Mortale la madre, ed invaghitasi di Pietro, figlio di Zenobio Bonaventuri, fiorentino, giovane che in Venezia teneva le ragioni del banco dei signori Salviati di Firenze, che le stava di faccia di casa, e che, per quanto dicesi, le aveva dato da intendere di essere uno dei Salviati, fuggì seco lui dalla casa paterna nella notte 28, venendo il 29, novembre del 1563, dirigendosi a Firenze. Colà i due amanti divennero marito e moglie, e ben presto ebbero una figlia per nome Pellegrina. Frattanto la fuga di Bianca fece grande rumore in Venezia, e gli Avogadori di Comune emanarono bando capitale contro l'assente Pietro Bonaventuri e complici; bandita, per quanto vogliono alcuni, fu la stessa Bianca, e Bartolammeo Cappello, di lei padre, aggiunse de' propri danari un premio a quello che dagli Avogadori era stato decretato a favore di chi, o vivo o morto, desse nelle mani della giustizia il seduttore. Bianca in Firenze non tardò a dar nell'occhio a Francesco dei Medici, figlio di Cosimo Granduca, reggente della Toscana, ed a divenirne amica. Pietro Bonaventuri, dall'altra parte, incominciò a frequentare Cassandra Bongiovanni, nata Ricci, il che occasionò la morte di Pietro e di Cassandra per opera della famiglia Ricci, desiderosa di vendicarsi dell'onta. Rimasta vedova, Bianca venne nel 1578 presa in moglie da Francesco dei Medici, successo fino dal 1574 a Cosimo suo padre nel granducato, e rimasto vedovo pur egli per la morte dell'arciduchessa Giovanna d'Austria. Tosto che tali nozze furono partecipate al doge, i Veneziani affrettaronsi a dichiarare Bianca «vera et particolar figliuola della repubblica», ed in obblio fu posto il processo. Bianca, in contraccambio, si rese utile in molti incontri alla madre patria, beneficò di molti danari il padre Bartolammeo, e donò al fratello Vittore il palazzo dei Trevisani in «Canonica», da lei comperato. Senonché nell'anno 1587, Francesco ai 19, e Bianca ai 20 d'ottobre, morirono a Poggio di Cajano, non senza sospetto di veleno, loro procurato dal cardinale Ferdinando dei Medici, fratello di Francesco. Egli è certo che costui non volle che a Bianca si rendessero dopo morte regi onori, che non la volle sepolta nelle tombe dei Medici, e che fece levare da tutti i luoghi pubblici i di lei stemmi. Anche il veneto Senato, per piacenteria al medesimo, già successo nel granducato al fratello, proibì il lutto per la morte di Bianca. Vedi Cicogna, «Inscrizioni Veneziane», Vol. I.

Il «Ponte Storto» a Sant'Apollinare venne ristaurato nel 1873.

Stradon (Ramo del)
a S. Giacomo dall'Orio. E' un tratto di strada appellato in tal guisa per la sua larghezza.

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Stramazzer (Calle del)
o Sernagiotto a San Giovanni Grisostomo. Questa calle, a cui dà accesso un sottoportico, laonde dicevasi per lo passato «Calle del Sottoportico del Stramazzer», prese il nome da uno «stramazzer» (materassaio) che vi stanziava d'appresso nel secolo trascorso. Può citarsi in prova la notifica che nel 1740 fece il N. U. Giovanni Loredan di possedere a S. Giovanni Grisostomo «un magazzen a pepian in Calle del Sottoportico del Stramazzer, affittato a Bortolo Cristinelli, stramazzer». L'arte degli «Stramazzeri» fu eretta in corpo nel 1643 sotto il patrocinio di S. Giacomo. Essi, collo strumento 26 novembre 1646, in atti Gabriel Gabrieli, comperarono da D. Giustina Foresti un altare ed un'arca in chiesa di S. Polo, ove si radunavano la terza domenica d'ogni mese a trattare delle loro faccende. Solennizzavano poi il giorno del santo protettore con pompa religiosa, e con lauto convito. Si trova nella Statistica del 1773 che contavano quarantanove botteghe, ventitrè capi maestri, e ventisei garzoni.

La seconda denominazione proviene dalla famiglia Sernagiotto, che comperò questa calle dal Comune con istrumento 13 marzo 1854, in atti del veneto notajo Molin, avendo in fondo della medesima fino dal 1847 incominciato a fabbricare un palazzo respiciente colla facciata il «Canal Grande», sopra disegno di Giovanni Battista Benvenuti. La famiglia Sernagiotto, che ci fu cortese di questi cenni, ci comunica pure riconoscere essa a suo capostipite quel Filippo Novolo, o Novoloni, o Nuvoloni, discendente dagli antichi castellani di Sernaglia, e poi di Creazzo, uno dei pochi capitani salvatisi dall'eccidio nelle fatali guerre contro i Turchi del secolo decimosesto. I discendenti di Filippo Novolo assunsero prima il cognome di Filippini semplicemente; poscia, trapiantatisi a Volpago, di Filippini di Sernaglia, e finalmente di Sernagiotto di Casa Vecchia.

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Strazzarol (Calle del)
a S. Giuliano. Pell'arte degli «Strazzeri», o «Strazzaroli» (stracciajuoli), vedi l'articolo seguente.

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Strazze (Calle delle)
a S. Marco, presso la «Calle dei Fabbri». E' chiamata nei catasti «Calle dei Strazzeri». L'arte degli «Strazzeri», o Stracciajuoli, fu chiusa nel 1419, e nel 1584 riordinata. A difesa della medesima in cui era facile a molti d'illecitamente immischiarsi, i «Giustizieri Vecchi» promulgarono le terminazioni del 20 aprile 1718, del 17 aprile 1725, e del 12 marzo 1733, ravvivate poi coll'ultima 31 luglio 1795. Era proibito a tutti di comperare per rivendere, ed anche di vendere semplicemente in qualunque luogo della città oggetti spettanti all'arte degli Stracciajuoli, essendo ciò permesso soltanto ai capi maestri. Anzi nemmeno questi potevano andar gridando per vendere nella città se non possedevano il bollettino a stampa del gastaldo, che rinnovavasi di tre in tre mesi, e che loro veniva ricusato qualora non avessero supplito alle gravezze di «tansa», «taglione», e «luminaria». Gli Stracciajuoli contavano nel 1773 cinquantasette botteghe, cinquantasette capi maestri, e quarantadue garzoni. Essi raccoglievansi in chiesa di S. Giuliano all'altare di S. Giacomo, che attualmente è sacro all'arciconfraternita della V. Addolorata, eretta nel 1855.

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Stretta (Calle)
a S. Apollinare. Denominazione siffatta è anche altrove ripetuta. Venezia, come ben si vede, di strade strette non ha penuria.

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Stroppe (Campiello delle)
a S. Giacomo dall'Orio. Dice il continuatore del Berlan che forse qui germogliavano le «strope», ossia quelle sottili vermene di salcio con cui soglionsi legare le viti. Ma sembra al contrario che qui abbia abitato una famiglia di questo cognome. Nel volume II dei Privilegi di Cittadinanza (Ms. presso l'Archivio Generale) ne abbiamo uno in data 18 febbraio 1456 col titolo seguente: «Privilegium civilitatis per habitationem annorum XV de intus et extra prudentis viri Antonii De Stropis draperii». E quest'Antonio era «habitator Venetiarum in contracta S. Jacobi de Lorio». Egli è quel medesimo «Antonius a Stropis» che il 16 ottobre 1439 venne cassato dall'ufficio della «Stimaria dei panni», insieme ad un Marco de Sovero, perché, senza il terzo compagno, avevano stimato certi panni del N. U. Marco Contarini. Tale sentenza però venne rivocata il 6 novembre dello anno medesimo. E' probabilmente eziandio quel «Antonio di Stropi», confratello della Carità, che nel 1461 venne sepolto a S. Simeone profeta, come si ritrae dal necrologio di quei confratelli.

In «Campiello delle Stroppe» abitava nel 1750 Gasparo Gozzi, come si rileva da una lettera da lui scritta il 17 decembre di quell'anno all'ab. Giuseppe Gennari.

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Stua (Sottoportico della)
a S. Giovanni Nuovo. Secondo il Gallicciolli, «stua» chiamavasi il luogo ove stavano quei bassi chirurghi che curavano le ugne dei piedi e tagliavano calli, perché colà eravi sempre in pronto acqua calda, ovvero qualche luogo caldano. Tali maestri dicevansi «stueri» (stufajuoli). Sembrerebbe però, come accenna il Romanin («Storia di Venezia»), che le «stue» servissero eziandio ai bagni caldi, poiché Alvise Molin nel suo Diario dell'ambasciata a Costantinopoli (Cod. 365 della Marciana) così si esprime: «Nel ritorno a casa dessimo un'occhiata ad uno dei loro bagni, che molti e frequentissimi sono nella Turchia, fatti per lavarsi prima dell'orazioni loro, che altro non sono che stufe in tutto simili alle nostre». E che gli stufajuoli attendessero ad altro, oltreché a tagliar ugne e calli, lo si può desumere dal decreto 3 luglio 1615, il quale fa menzione delle «stue», ove parecchi prendevano a curare «malati di diverse qualità di mali, e da se stessi gli ordinano decotti di legno, che non avendo cognitione della complessione del patiente, per il più lo abbrugiano, altri fanno ontioni con l'argento vivo, profumi, od altro, a gran danno del prossimo, et anima loro, et altri, segnando da strigarie, danno medicamenti per bocca così gagliardi che, invece di cacciar spiriti, cacciano l'anima». Gli «Stueri» erano uniti ai Chirurghi, avendo scuola comune in chiesa di S. Paterniano sotto gli auspici del medesimo santo. Abbiamo poi circa le «stue» la legge seguente del 1460; «Quod aliqua pecatrix, vel femina, non possit se tangi facere, au carnaliter cognoscere aliquem hominem de die in aliqua hosteria, taberna, vel stufa,» ecc.

Varie strade di Venezia presero il nome dagli anzidetti «stueri», nel cui numero era molto rinomato quello di S. Gio. Novo, come si ricava dalle seguenti parole del Coronelli: «Molti sono gli stueri sparsi per le contrade, ma quello di S. Gio. Nuovo porta sopra tutti il vanto».

Giacomo Rota, «stuer» a S. Gio. Nuovo, e Vincenzo di lui nipote uccisero presso il «Campo di S. Gio. Nuovo» il 21 marzo 1597 il N. U. Antonio Molin q. Giovanni, e perciò furono banditi il 6 giugno successivo, venendo pure citato a scolparsi il capitano di Giustizia Marco Dolce, che, presente al fatto, tardò ad inseguirli.

Nel «Giornale delle Cose del mondo avvenute negli anni 1621-1623» (Cod. Cicogna 983), e precisamente nel «Suplimento di Venezia 29 gennaro 1621», leggiamo: «Giovedì mattina furono dati in pubblico 3 tratti di corda ad Agostin stuer a S. Gio. Novo et ad un giovine battioro, trovati mascherati con armi, havendoli dato la corda con le maschere sulla faccia, et in oltre condennati certo tempo in prigione».

Nella «stua» di S. Giovanni Nuovo morì il 18 maggio 1629 Zaccaria Fasuol, parroco di S. M. Elisabetta del Lido.

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Stupenda (Corte)
a S. Giovanni Nuovo. Era nel 1661 domiciliato presso questa corte un «Francesco Stupendo».

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Sturion (Ramo, Calle, Ramo Calle del)
a Rialto. Antichissima era l'osteria all'insegna dello «Sturione» in Rialto sopra la «Fondamenta del Vin» se l'undici luglio 1398 trovasi condannato con altri osti, per vendere il vino in anguistare di minor tenuta del prescritto, «Guilelmus hospes ad Sturionem in Rivoalto». Un'altra sentenza dell'11 gennaio 1414 colpisce Antonia moglie «Pasqualini Bonmathei hospitis ad hospitium Sturionis in R.to» perché, per le sue mire interessate, aveva maritato la figlia Chiara, avuta dal suo primo consorte Meneghino Tubetà, ammazzato in pubblico servigio, senza andar d'accordo coi Signori di Notte, ai quali era stato commesso il matrimonio della donzella. In questa osteria, secondo la cronaca Delfina, vennero ospitati il 6 novembre 1418 sette ambasciatori del Friuli con un seguito di 50 persone. Essa apparteneva al comune, ma nel 1511 era chiusa, come c'insegna il Sanudo. Questo autore racconta che il 9 aprile 1516 uscì un decreto del Collegio col quale s'imponeva ai Provveditori al Sal di spendere ducati 50 «per far le volte del Sturion per poterle afitar aut meter tre uffici a ciò non vadano de mal». Racconta ancora che il 30 agosto 1520 si tentò di vendere all'incanto l'osteria medesima. Aggiunge finalmente che il 2 ottobre 1531 «fu posto et preso fabricar la doana di terra dove era l'hostaria del Sturion per metter gli uffizii Messetteria, Insida, et Intrade».

Riferisce il Gallicciolli che in «Calle del Sturion», a Rialto, abitavano alcuni Procuratori di S. Marco prima del 1365. Vi abitava medesimamente, e vi morì il 12 decembre 1557 il matematico Nicolò Fontana, detto «Tartaglia». Egli due giorni prima fece testamento in atti del veneto notaio Rocco di Benedetti, beneficando il fratello «Zampiero», la sorella Catterina, e Trajano Navò, librajo all'insegna del «Leone» in «Merceria», al «Ponte dei Baretteri». Il Tartaglia, come egli stesso dispose, ebbe sepoltura in chiesa di S. Silvestro.

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Surian (Sottoportico, Calle)
al «Malcanton». Un «Bortolo Surian dall'oro», nato in Rimini, e venuto a Venezia nel secolo XV, è il capostipite della famiglia che diede il nome a queste vie. Egli ebbe un figlio per nome Giacomo, medico insigne, marito ad Eugenia Abram. Dagli Abram i Suriani ereditarono le case al «Malcanton», sotto l'antica parrocchia di S. Pantaleone. Imperciocché si ritrova che Bianca, vedova di Pasquale Abram, testando nel 1467, in atti di Domenico Groppi, pievano di S. Barnaba, lasciò a' suoi nipoti Giacomo ed Eugenia tutte le case che possedeva in S. Pantaleone, con questo che le case a destra dovessero appartenere al primo, quelle a sinistra alla seconda. I nipoti di Giacomo notificarono nel 1566 ai X Savii le case suddette, sopra le quali scorgesi tuttora scolpito lo stemma della famiglia, dicendole situate «in contrà de S. Pantalon, al ponte de cha Marcello, in Calle de Ca' Surian». Andrea, uno di essi, assistette nel 1571 alla battaglia di Lepanto, ove segnalossi ferito, accogliendo fra le sue braccia il provveditore Agostino Barbarigo, colpito da freccia nemica, e sostenendone le veci con mirabile prontezza e coraggio. Per tali meriti, e per varie ambascierie sapientemente sostenute, venne eletto Cancellier Grande nel 1586. Domenico Surian, nipote del Cancellier Grande Andrea, ebbe accesso coi discendenti all'aula degli ottimati nel 1648, ed Alessandro di lui figliuolo, nobile in Dalmazia, poi governatore di galera, finalmente provveditore di Marcasca nel 1653, morì in battaglia contro i Narentani. I Suriani mancarono in Venezia al patriziato nel 1679. E qui noteremo come la famiglia, di cui ci occupammo, non è da confondersi con un'altra del cognome medesimo, ma d'origine diversa, aggregata anch'essa al patriziato, ed estintasi nel 1630.

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Surlin (Sottoportico, Corte)
a Castello. Leggasi «Zurlin», come nella Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello pel 1713, la quale insegna che al «Sottoportico Zurlin», in «Ruga», sei case erano possedute da «Francesco Zurlin». A questa famiglia, un tempo assai ricca, apparteneva, al dir del Cicogna, quell'avarone Zurlino, che non volle contribuire cogli altri della parrocchia a far dipingere una cappella nella chiesa di S. Pietro, e che dal pittore Pietro Ricchi fu ritratto nel quadro rappresentante l'Adorazione dei Magi in quella figura che si alza dallo scrigno per vedere i magi vegnenti. Un Donato Zurlin, suddiacono della chiesa di S. Pietro, e morto nel 1646, ebbe sepolcro in chiesa di S. Daniele con epigrafe illustrata dal Cicogna.

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