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Toponomastica Veneziana - V
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Van Axel (Fondamenta).
Vedi Erbe.

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Vecchia (Calle)
a Castello. Suppone il Berlan che sia stata così appellata dal distrutto ospitale dei vecchi marinai, che nel 1474 venne eretto, sotto il titolo di «Messer Gesù Cristo», presso la chiesa pur distrutta di S. Nicolò di Bari, allo scopo di ricettare marinai feriti, ed incapaci di servire, e che diede il nome di «Rio dei Vecchi» ad un prossimo canale, ora interrato.

Noi però, considerando che da questa calle al sito ove sorgeva il detto ospitale havvi qualche distanza, e vedendo alcune altre località di Venezia contrassegnate colla medesima appellazione, crediamo che tutte piuttosto l'abbiano tratta dalla loro antichità ed in relazione ad altre strade formate in tempi posteriori. Vedi Nuova (Corte).

Vecchia (Calle, Sottoportico e Calle della)
alla Giudecca, presso le Convertite. «Stefano q. Venturin dalla Vecchia» notificò nel 1661 di possedere alcune casette alla Giudecca, attaccate al monastero delle Convertite. Questo Stefano, il cui padre Venturino era stato approvato cittadino originario il 29 ottobre 1627, apparteneva, come rilevasi dai registri dell'«Avogaria», e dal Codice 341, Classe VII della Marciana, alla famiglia Dalla Vecchia la quale venne dal territorio di Bergamo, ed era detta da principio Cornovi. Ma poscia, avendo cangiato il suo negozio di legname in «Barbaria delle Tole» in un altro di cambellotti a S. Bartolammeo, all'insegna della «Vecchia», cangiò anche il cognome. Un Antonio di questa famiglia, il cui figlio Zaccaria fu vescovo di Torcello, comperò nel 1565 un nobile palazzo sulla «Fondamenta della Madonna dell'Orto», che poscia servì di residenza degli ambasciatori di Francia, ed ora è distrutto. I Dalla Vecchia si estinsero verso l'anno 1691, e le loro ricchezze passarono nei conti Vigonza.

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Vendramin (Calle Larga, Campiello, Calle e Sottoportico, Ramo, Calle)
ai SS. Ermagora e Fortunato. Andrea Loredan, secondo i registri di famiglia, ordinò l'erezione del prossimo palazzo, risguardante con la facciata il «Canal Grande», nel 1481. Di subito forse non si diede mano all'opera, oppure andossi a rilento nei lavori, ma dopo alcuni anni finalmente, sopra disegno lombardesco, sorse la fabbrica bella e grandiosa in modo da essere destinata nel 1550, per quanto scrive la cronaca del Trevisan, unitamente ai palazzi del Duca di Ferrara e dei Gussoni, a stanza di alcuni principi tedeschi che dovevano visitare Venezia. I Loredan nel 1581 vendettero questo palazzo (conosciuto sotto il titolo del «Non Nobis» a cagione del motto: «Non Nobis Domine, Non Nobis», sculto sulla facciata) al Duca di Brunswich per 50 mila ducati, e questi nel 1583 lo rivendette al Duca di Mantova per ducati 91 mila. Ma sorto poscia un litigio fra gli eredi del venditore, e chi n'aveva fatto l'acquisto, il palazzo medesimo andò all'asta, e nel 1589 venne comperato da Vittore Calergi al prezzo di ducati 36 mila, per passare in seguito, mercé il matrimonio avvenuto nel 1608 fra Marina Calergi, figlia di Vittore, e Vincenzo Grimani, in una linea dei Grimani, la quale si disse perciò Grimani Calergi. Essi nel 1652 v'ospitarono Carlo Ferdinando d'Inspruck, arciduca d'Austria colla moglie Anna dei Medici, e col fratello Sigismondo, ai quali diedero una splendida festa di ballo. Non tardarono però a lordarsi le mani nel sangue, secondo i fieri costumi di quei tempi. Imperciocché Vittore abate, Giovanni e Pietro, figli tutti di Vincenzo Grimani e di Marina Calergi, uomini facinorosi, che erano stati banditi da Venezia, ma che, a dispetto delle leggi, circondati da bravi e sicari, vi si trattenevano, nutrendo odio fierissimo contro Francesco Querini Stampalia, lo fecero cogliere la notte del 15 gennaio 1658 M. V., finita la prova dell'Opera al teatro dei SS. Giovanni e Paolo, e tradurre in gondola nei recinti del palazzo di cui parliamo, ove, sotto i propri occhi, ne ordinarono l'uccisione. Citati perciò e non comparsi, furono, con sentenza del successivo giorno 20 gennaio, nuovamente banditi, colla perdita della nobiltà, e colla confisca dei beni, ordinandosi che la porta del loro palazzo venisse bollata coll'immagine di S. Marco in pietra, che l'annessa «casa bianca» prospettante il giardino, ove precisamente era stato commesso il delitto, andasse spianata, e sopra quell'area si erigesse una colonna d'infamia colla seguente iscrizione: l'ab. vetor zuane e piero fratelli grimani furono banditi per haver contro la publica liberta' nelle proprie case barbaramente condotto et con moltissime archibugiate interfetto s. francesco querini fu de z. francesco. Ad onta di tutto ciò, i tre fratelli suddetti ottennero nel 1660 la liberazione dal bando, ed il ricupero delle loro facoltà e prerogative. Fu allora che levarono il S. Marco dalla porta della loro dimora, distrussero la colonna d'infamia, ed, a sostituzione della casa atterrata, aggiunsero al palazzo l'ala sinistra quale presentemente si vede. Era frattanto sino dal 1638 successo il matrimonio fra Maria, figlia di Vincenzo Grimani e di Marina Calergi, con Nicolò Vendramin, ed, estintasi nel 1740 la linea maschile dei Grimani Calergi, il palazzo venne in proprietà dei Vendramin, anch'essi chiamati Vendramin Calergi, l'ultimo rampollo maschio dei quali, altro Nicolò del q. Girolamo, alienollo, con istrumento 23 aprile 1844, in atti Paolino Comincioli, alla duchessa di Berry, donde passò nel di lei figlio conte di Chambord, e quindi ne' suoi eredi.

Morì il 13 febbraio 1883 in questo palazzo il celebre compositore di musica Riccardo Wagner.

La famiglia Vendramin, che nel 1661 troviamo aver posseduto stabili anche a S. Polo, presso il «Traghetto della Madonnetta», ove pure esistono alcune località contraddistinte col di lei nome, trasse origine, secondo il Freschot, dall'Illirio. Sembra che anticamente fosse del Consiglio, ma che poscia ne rimanesse esclusa, poiché vi fu riassunta l'anno 1381 in un Andrea da San Leonardo, il quale teneva banco in Rialto, ed aveva assai bene meritato della Repubblica nella guerra di Chioggia. Un di lui nipote, medesimamente nominato Andrea, il più ricco e più bel gentiluomo de' suoi tempi, venne eletto nel 1476 principe di Venezia. Egli morì nel 1477, ed ebbe un magnifico mausoleo nella chiesa dei Servi, trasportato poscia in quella dei SS. Giovanni e Paolo. Aveva molti figli, fra i quali Bartolammeo comperò nel 1457 da Giovanni e Bartolammeo Malombra la terra della Tisana, di cui venne investito conte co' suoi discendenti. Circa a questi tempi la famiglia Vendramin produsse quel Filippo, celebre pell'amore grandissimo portatogli dalla moglie Cecilia Barbarigo, la quale, quand'egli dovette pagare il debito alla natura, ricusò di prendere cibo, e morì d'inedia, nulla curando i conforti e le violenze de' suoi. I Vendramini andarono pure celebrati per un Francesco, eletto nel 1605 cardinale di S. Chiesa, nonché per varii guerrieri che furono il sostegno dello stato nell'aspra guerra di Candia.

All'ingresso della «Calle e Sottoportico Vendramin», ai SS. Ermagora e Fortunato, fu posto ai nostri giorni un medaglione (ora però mancante) coll'effigie di Benedetto Marcello, principe della musica veneziana, e con relativa iscrizione, tuttora visibile, donde si ritrae che il sommo compositore abitava qui presso. Vanno errati però alcuni nel dire che Benedetto stanziasse nel sovrastante casamento, mentre abbiamo tutti i dati positivi per affermare che egli nacque e visse nel palazzo di sua famiglia, il quale col prospetto guarda il «Canal Grande», è contermine a quello degli Erizzo, e dalla parte di terra per la «Corte Erizzo» ha l'ingresso. L'ebbero i Marcello nel 1485 pel matrimonio di Petronilla Crispo dei duchi di Naxia con Natale q. Gasparo Marcello. In esso nacque pure Alessandro Marcello, il quale esercitò la pittura con buon successo, e lasciò negli ammezzati alcuni dipinti allegorici. L'iscrizione adunque allusiva all'abitazione di Benedetto Marcello fu posta presso la «Calle e Sottoportico Vendramin» soltanto perché il luogo è di passaggio, e per additare ai curiosi il varco, addentrandosi pel quale, possono pervenire alla «Corte Erizzo», ed al palazzo dal Marcello abitato.

Vendramin (Fondamenta)
a S. Fosca. Vedi Forner.

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Veneta Marina (Ponte della)
a Castello. E' così chiamato dall'insegna del prossimo Caffè, o perché, essendo un tempo di legno, ed alzandosi, dava passaggio alle barche, ed ai piccoli navigli che da questa parte uscivano dall'Arsenale. Si diceva eziandio «Ponte delle Catene» per le catene che d'ambidue i lati lo sostenevano. Effigiato con tali catene tu lo vedi nel libro di G. Matteo Alberti che descrive la regata, e l'altre feste fatte in Venezia all'epoca della dimora d'Ernesto duca di Brunswich, libro impresso in Venezia nel 1686.

Nell'8 decembre 1720, giorno di domenica, andando molta gente al perdono di S. Pietro di Castello, questo ponte precipitò con la morte di 4 persone. E precipitò di bel nuovo il dopo pranzo del 19 marzo 1775, festa di S. Giuseppe, nella qual occasione un prete si ruppe una gamba, molti riportarono contusioni cadendo in acqua, ma niuno perì, in virtù del pronto soccorso dei battellieri.

Il «Ponte della Veneta Marina» sorse in pietra all'epoca napoleonica, e finalmente venne rifatto in forma più comoda e decorosa nel 1871.

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Venier e Balbi (Campiello)
a S. Pantaleone. E' prossimo ad un casamento già posseduto dalla famiglia Venier, di cui abbiamo parlato già sopra, ed al palazzo Balbi, detto in «volta di Canal», perché ha la facciata colà ove il «Canal Grande» volge direzione. Dicesi che, sopra disegno del Vittoria, lo abbia fatto erigere fra gli anni 1582 e 1590 un Nicolò di Girolamo Balbi, perché questi nel 1582 notificò di possedere sul «Canal Grande» un terreno infruttuoso ove si avrebbe potuto edificare un palazzo, e nel 1590 dispose di esso palazzo col proprio testamento. Narrasi in proposito la seguente storiella. Abitava antecedentemente quel gentiluomo non molto lontano in una casa presa a pigione, ed essendosi innocentemente dimenticato della scadenza d'una rata, ritrovò un bel dì, mentre recavasi al Maggior Consiglio, il proprietario, che bruscamente invitollo a pagarla.

Nicolò soddisfece al suo debito, ma volle tosto rinunziare alla locazione, dando gli ordini opportuni perché gli si fabbricasse il palazzo, e riparando frattanto colla famiglia in un ampio naviglio fermo alla riva, la mole del quale oscurava l'abitazione di colui che gli aveva fatto per istrada il mal garbo.

Dalle finestre di questo palazzo Napoleone ed altri principi godettero il nazionale spettacolo della regata, poiché, come altrove si è narrato, qui presso soleva fabbricarsi la così detta «macchina», cioè il palco ove sedevano i tre personaggi destinati a giudicare dei premi, ed a distribuirli ai vincitori della corsa. «Il palco», dice il «Lessico Veneto» del Mutinelli, «sempre nell'addobbo magnifico, era foggiato diversamente, e bizzarramente. A modo d'esempio, nella regata ordinata da Ernesto duca di Brunswich, ed eseguita a dì venticinque giugno dell'anno milleseicentottantasei, la Macchina rappresentava il trionfo di Nettuno. Perciò, sopra il dorso della figura di smisurata balena, s'innalzava un'amplissima conchiglia, nel cui vano rappresentati erano molti scogli, e grotteschi con alghe, cavalli, e mostri marini. Sopra il sommo dei detti grotteschi, otto immagini di tritoni sorreggevano una seconda conchiglia, nel cui mezzo altro tritone sosteneva un delfino base di una altissima statua di Nettuno; la balena, i tritoni, ed il delfino, continuamente, con svariati scherzi, gettavano dalla bocca e dalle nari zampilli d'acqua. Giunto il momento della dispensa dei premi, si aprivano le fauci della balena, ed in sembianza d'uomo marino, ne uscì colui che distribuir dovea i detti premii. Questa macchina era alta piedi 36, larga 42, lunga 60, avvertendo che il piede veneto corrisponde a metri 0,3475».

Il Freschot fa discendere la patrizia famiglia Balbi dalla gente Balba di Roma, e vuole che trasmigrasse a Pavia, quindi a Milano, e finalmente a Ravenna, ove si distinguesse in due rami, l'uno dei quali andasse direttamente a Venezia, e l'altro, prima d'andarvi, avesse stanza in Aquileja. Un Bono Balbi morì vescovo di Torcello nel 1215, ed altri suoi discendenti troviamo insigniti delle primarie dignità della Chiesa. Né fu punto inferiore all'altre questa famiglia nelle imprese militari, poiché un Pietro Balbi, chiamato dal Capellari «cavaliere e senatore grande», liberò nel 1509 la città di Padova dallo stretto assedio postovi da Massimiliano imperatore; un Teodoro Balbi, sopraccomito della galera intitolata il «SS. Salvatore», rimase ferito nel 1571 alle Curzolari, ed un anno dopo non dubitò con sole quattro galere d'attaccare arditamente tutta la flotta degli Ottomani; un Bernardo, ed un Lucio Balbi, finalmente, pugnarono anch'essi con gran fortuna e coraggio contro gl'infedeli.

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Ventidue Marzo (Via)
a S. Moisè. Questa nuova e spaziosa strada, che formossi coll'atterramento di varie case, e che fu inaugurata il 22 marzo 1881, ebbe il nome che porta in memoria del giorno 22 marzo 1848 in cui successe la capitolazione degli Austriaci, e proclamossi il Governo Provvisorio di Venezia.

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Vida (Corte della)
a S. Samuele. Per questa ed altre località così denominate, vedi Fico (Ramo, Corte del).

Vida (Calle della)
o delle Locande a S. Paterniano. Per la prima denominazione vedi l'articolo precedente; per la seconda Locande (Ramo delle).

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Vittorio Emanuele (Via)
ai SS. Apostoli. Aperta fino alla «Ca' d'Oro» il 2 settembre 1871, venne ultimata nel seguente anno 1872. Fu così detta in onore di Vittorio Emanuele re d'Italia.

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Volto Santo
Presso il «Ponte dell'Anconetta». Essendo venuti alcuni mercadanti Lucchesi a Venezia, ove perfezionarono l'arte della seta, formarono nel 1360, col permesso del governo, una pia società, o consorzio fra di loro, sotto il nome del «Volto Santo», perché così chiamavasi un prodigioso crocefisso a Lucca venerato. Poscia, con istrumento 2 ottobre 1370, in atti Nicolò q. Nicolò notajo di Firenze, ottennero uno spazio presso la chiesa di S. Maria dei Servi per fabbricare un oratorio, e per formare il loro cimitero. Finalmente, coll'altro istrumento 6 settembre 1398, in atti pre' Lorenzo Foscarini, acquistarono dai padri Serviti medesimi un «teren vachuo meso in la contrada de S. Marchuola, lo qual è per mezo la chiexia oltre lo rio», ove eressero un'aula per le loro adunanze, e dieci case a ricovero dei poveri della propria nazione. Questi edificii, che portano scolpita sulla facciata l'immagine del Volto Santo, e che diedero il nome alla strada da noi rammentata, bruciarono miseramente nel 1789, avendosi appreso fuoco ad un magazzino da olio presso il «Campiello del Tagliapietra» ai Ss. Ermagora e Fortunato, ed avendo galleggiato l'olio infiammato sopra l'acqua del prossimo canale. Del suddetto incendio abbiamo altrove parlato. Vedi Tagliapietra (Campiello del). Un anno dopo le case dei Lucchesi vennero rifabbricate, e due iscrizioni vi furono poste sopra, a documento del fatto.

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Vallaresso (Calle)
a S. Moisè. Da alcuni documenti, citati nell'opera del Coleti: «Monumenta Ecclesiae Venetae S. Moysis», si viene a conoscenza che la famiglia Vallaresso aveva possessioni a S. Moisè fino dal secolo XII. Un documento poi colla data del 1233 descrive così bene i confini delle possessioni di questa famiglia che il Temanza nell'Illustrazioni all'antica pianta topografica di Venezia, da lui pubblicata, vi riconosce chiaramente il sito della calle che tuttora appellasi «Vallaressa».

I più fanno discendere i Vallaresso da una delle famiglie romane, mandate in colonia dall'imperatore Diocleziano a Salona, sua patria. Venuti a Venezia nei primi tempi, cooperarono alla riedificazione delle chiese di S. Martino e di S. Bartolammeo. Questa famiglia va lodata principalmente per un Fantino, uomo eruditissimo, nel 1417 vescovo di Parenzo, e nel 1426 arcivescovo di Candia; per un Maffeo, nipote di Fantino, nel 1450 arcivescovo di Zara; per un Giacomo, fratello di Maffeo, nel 1482 vescovo di Capo d'Istria; per un Luigi chiamato dal Capellari «senatore di costante giustizia e d'eterna memoria», celebre per le sue gesta militari, per le sue legazioni, e pe' suoi meriti a favore della città di Padova, quand'egli nel 1631 la resse come capitano; finalmente per un Paolo Antonio, vescovo di Concordia nel 1713.

In fondo alla «Calle Vallaressa» a S. Moisè trovasi una piccola fondamenta, che dà accesso ad un edificio lombardesco eretto, come da iscrizioni, nel 1492, e ristaurato nel 1717. Esso anticamente era sede del magistrato del «Fontego della Farina», il quale però, dopo la metà del secolo trascorso, cesse le sale superiori dello stabile all'Accademia di Pittura, Scultura, ed Architettura. Il primo decreto col quale essa volevasi istituita data dal 14 decembre 1724.

Un altro del 24 settembre 1750 raffermava il nobilissimo progetto.

Finalmente un terzo del 1776, 27 decembre, prescriveva che essa accademia si erigesse senza indugio «a similitudine delle principali d'Italia e d'Europa». Nel 1810 l'edificio di cui parliamo divenne sede dell'Uffizio di Sanità Marittima. Facendosene un ristauro nel 1831, come nota il Cicogna nelle sue schede manoscritte, si rinvennero nel cortile molte fosse, o sepolcri, di terra cotta, e di figura ellittica, con entro avanzi d'umani cadaveri, il che farebbe credere che quell'area fosse anticamente il cimitero della prossima chiesa di S. Maria dell'Ascensione.

Anche a S. Luca vi è una «Calle Sporca o Vallaressa». Vedi Sporca o Vallaressa (Calle).

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Valmarana (Ramo, Calle, Campiello)
ai SS. Apostoli. Qui sorgeva un palazzo, il quale anticamente apparteneva alla famiglia Erizzo, ed ove vuolsi che nascessero Paolo Erizzo, martire della patria, ed Anna di lui figlia, vergine eroina. Questo palazzo, rifabbricato, come scrive il Temanza, sul disegno del Palladio, aveva annesso un giardino, laonde i Morosini, successivi proprietarii, ebbero l'appellativo «del giardino». E' noto che il patrizio G. Francesco Morosini, cangiato tale giardino in ispazioso cortile, cinto da alte e suntuose fabbriche con ricche stanze ed eccellenti pitture, stucchi ecc., soleva ricettare gli accademici Industriosi, soliti prima a raccogliersi in ca' Gozzi ai Gesuiti. Il palazzo Erizzo, poi Morosini, fu nel 1759 appigionato ai Valmarana, ma nel nostro secolo venne interamente distrutto.

I Valmarana, se vogliamo credere a quanto essi medesimi affermano nella supplica per ottenere la veneziana nobiltà, discendono dai Marii Romani. Chi primo assunse il cognome di Valmarana sarebbe stato un Mario, figlio di Regolo del Gallo, console di Vicenza, e di Brunechilde, il quale fabbricò il castello di Valmarana, e ne fu fatto conte coi discendenti nel 1031 dall'imperatore Corrado II. Un ramo dei Valmarana, che nel 1540 vennero pure creati da Carlo V conti di Nogara, ebbe il fregio del nostro patriziato nel 1658, e diede il nome a varie strade di Venezia, nella qual città sostenne con onore cariche non poche.

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Varisca (Calle, Ramo, Corte)
a S. Canciano, in «Birri». Dalla famiglia Varisco, che venne da Bergamo, e che da principio attendeva all'arte della seta. Il capostipite di questa famiglia in Venezia fu un «Petrus de Varisco a serico», nato a Bergamo, e stabilitosi fra noi nel secolo XV. Troviamo che, mentre egli ingiuriava un dì nella propria bottega, situata in Rialto Nuovo, Mario, giovane romano, che si doleva d'essere stato frodato nel contratto d'alcune pezze di «raxi ormesini», accorse al rumore il legato apostolico Bartolammeo degli Alberti, padrone di detto Mario, e tosto volle prenderne la difesa. Allora Pietro, nel calore dell'ira, invitò suo figlio Luigi a dare uno schiaffo al legato, e perciò insieme al figlio fu condannato al carcere ed a forte multa con sentenza 8 marzo 1491. Una sentenza del 19 novembre 1488 aveva pure colpito in antecedenza Giovanni, altro figlio di Pietro Varisco, «hominem rixosum et malae conditionis», per aver ferito, nel bersaglio dei SS. Giovanni e Paolo, Luigi, figliuolo del librajo Pietro Andrea Dragan. La famiglia Varisco notificò nel 1566 e 1582 due case «in Contrà di S. Cancian in Biri grando». Anche nel 1633, come appare dall'anagrafi ordinata per quell'anno dai Provveditori alla Sanità, abitava in parrocchia di S. Canciano. Dopo quell'epoca però o mutò d'abitazione, oppure andò estinta. Un ramo di essa venne ascritto nel 1576 alla cittadinanza originaria.

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Vecchi (Corte dei)
a S. Sebastiano. Dall'ospitale di S. Lodovico, tuttora esistente, il quale fu fondato per testamento del N. U. Lodovico Priuli 18 decembre 1571 allo scopo di ricettare dodici poveri vecchi «di buona vita et senza fioli, nè mugier, venetiani, over sudditi». Commissario ed amministratore ne era sempre per lo passato il più vecchio di casa Priuli da S. Polo col titolo di priore. Oltre le 12 casette pei suddetti poveri, havvi l'abitazione pel cappellano, che deve celebrare la messa festiva nell'attiguo oratorio, e presiede ogni sera alla recita del rosario, al quale effetto percepisce l'elemosina di L. 14 al mese.

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Vele (Calle delle)
a S. Lio. Qui domiciliava nel 1661 il «sig. Zuane de Pietro veler fiamengo» in uno stabile del N. U. Pietro Mocenigo.

Altri fabbricatori di vele diedero lo stesso nome ad altre strade di Venezia.

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Veneziana (Sottoportico e Calle, Calle)
a S. Marco, presso la «Frezzeria». Tali strade sono chiamate negli Estimi «del Venezian». Alvise e Simeone Conti notificarono nel 1582 d'appigionare una casa in parrocchia di S. Moisè a «Margherita Veneziana». E nei Necrologi Sanitarii: «A dì 21 marzo 1595. Zambatista Venecian de ani 60, da febre, g.ni 13 - S. Moisè».

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Venier (Calle)
a S. M. Formosa. Mette ad un'antica fabbrica di stile archiacuto, tuttora posseduta da un ramo della patrizia famiglia Venier. Questa fabbrica era un tempo posta in comunicazione colla «Fondamenta del Rimedio» mediante un ponte, distrutto il 2 maggio 1851.

Il Capellari cita molti autori che fanno discendere i Venier dalla gente Aurelia di Roma, a cui appartennero Valeriano e Gallieno imperatori. Lasciamo di buon grado agli autori suddetti tutta la fede di tale asserto, sapendo bene quanto l'adulazione abbia prevalso nel fissare l'origine delle famiglie patrizie di Venezia. Bene crediamo che i Venieri si ritrovassero fra noi fino dai primi tempi, e che fondassero, o ristaurassero molte delle nostre chiese. Essi ebbero lungo dominio sopra Cerigo e Paros, isole dell'Arcipelago, e sopra Zemonico, castello della Dalmazia, nonché per qualche tempo sopra il castello di Sanguinetto nel Veronese. Produssero varii prelati insigni, tre dogi, diciotto procuratori di S. Marco, e gran numero di capitani generali e d'uomini celebri nelle lettere e nelle magistrature. Il primo dei dogi Venier, cioè Antonio, eletto nel 1382, si fece ammirare per la sua esemplarissima giustizia. Aveva egli un unico figlio, di nome Luigi, che, come corse fama, amoreggiava una gentildonna, ammogliata al patrizio Giovanni Dalle Boccole.

Insorta fra gli amanti questione, Luigi in compagnia di Marco Loredano, giovane al pari di lui sconsigliato, si recò di notte alla casa della dama, posta a S. Ternita, e v'attaccò alla porta due teste da caprone, aggiungendovi ingiuriose parole. Vedi S. Ternita (Campo ecc.). Sdegnato il marito, querelossi la mattina susseguente ai tribunali, i quali condannarono i rei, oltreché a 100 ducati di multa, a due mesi di prigionia. Il doge confermò la sentenza, e benché Luigi cadesse in seguito gravemente ammalato, non fece un sol passo per liberarlo, sicché l'infelice dovette morire in prigione. Altro genere di gloria mercossi Sebastiano Venier, pur egli doge di Venezia nel 1577, per essere stato nel 1571 condottiere della flotta cristiana contro il Turco nella famosa giornata delle Curzolari, ove rimase ferito di freccia in un ginocchio, ed ove ebbe a compagno del suo valore il nipote Lorenzo, che, in seguito, fatto generalissimo di mare, affrontò ed arditamente respinse l'armata spagnuola comandata dal duca d'Ossuna, vicerè di Napoli, la quale tentava d'inoltrarsi nell'Adriatico per assistere gli Austriaci fautori degli Uscocchi. Tale azione fece sì che Lorenzo il 30 maggio 1618 venisse eletto procuratore di S. Marco. Né gli allori poetici mancarono a questa famiglia, potendo essa vantare nel solo secolo XVI cinque poeti, cioè i due fratelli Lorenzo e Domenico, Luigi, e Maffio, arcivescovo di Corfù, figliuoli di Lorenzo, nonché Marco, uno tra gli amici di Veronica Franco.

Altri sentieri di Venezia portano il nome della famiglia Venier.

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Veniera (Calle)
a S. Geremia. E' una strada senza sfogo, che venne così appellata perché giace dietro un giardino ed un palazzo oggidì conosciuti più comunemente sotto il nome di «Manfrin», ma che, come stiamo per dire, fra le altre famiglie, appartennero anche ai Venier, laonde si chiama «Venier» anche un tratto di fondamenta giù del «Ponte delle Guglie» per avviarsi a S. Giobbe, ove il palazzo medesimo ha la sua facciata.

L'anno MDXX, collo stemma Priuli nel mezzo, visibile sopra un'antica porta otturata sulla Fondamenta ci rende edotti che esso venne in quell'anno dai Priuli fabbricato. Tal merito, secondo ogni probabilità, è dovuto ad Angelo Maria Priuli q. Pietro, nato nel 1484, e morto nel 1550, il quale fu Savio del Sestiere di Cannaregio e, per mezzo della moglie Andriana Venier, sposata nel 1517, ebbe in eredità il castello di Sanguinetto nel Veronese, da lui trasmesso ai discendenti. Daniele suo figlio (come scrive il genealogista Girolamo Priuli, uscito dalla stessa famiglia), essendo negli anni 1589 e 1592 Consigliere di Cannaregio, abitava «le sue case appiedi del Ponte», colle quali espressioni si deve certamente intendere il palazzo di cui si favella. Egli nel 1589 pose tomba in chiesa di S. Giobbe al padre, alla madre, ai fratelli Giovanni Battista, e Zaccaria, ed alla figliuoletta Andriana, venendo poscia nel 1596 sepolto con onorevole iscrizione nella chiesa di S. Geremia, ove aveva fatto erigere un'arca ed un altare fra quello del SS. Sacramento e quello della Beata Vergine. Trascorsi più di due secoli dalla fondazione, nel quale frattempo il palazzo ebbe una rifabbrica sul disegno del Tirali, Elena, figlia d'un altro Angelo Maria Priuli, e sposa di Federico Venier, lasciollo ai proprii figli Giovanni e Pietro, con testamento 18 agosto 1756, pubblicato il 19 maggio 1762. Ma per breve tempo restò l'edifizio in mano dei Venier, poiché essi, con istrumento 24 giugno 1787, lo vendettero al conte Girolamo Manfrin di Zara, il quale, dopo varie difficoltà e traversie coraggiosamente superate, avendo assunto nel 1777 la ferma generale dei Tabacchi, ebbe così prospera fortuna da poter comperare, oltre quello di Venezia, due palazzi a Santartien e Paese nel Trivigiano. Egli fondò pur anche una grandiosa fabbrica di tabacchi a Nona in Dalmazia, ove possedeva estesi latifondi, e raccolse nel suo palazzo di Venezia una ricca galleria di quadri, ed altre antichità. Alla di lui morte, avvenuta nel 1802, il palazzo suddetto passò al figlio Pietro, da cui nel 1835 passò alla sorella Giovanna, maritata in Gio. Battista Plattis. Nel 1849 finalmente venne in proprietà, per retaggio materno, di Lina Plattis, vedova Sardagna, donde l'ebbe quest'ultima famiglia.

Nel palazzo sovraindicato alloggiò nel 1745 l'ambasciatore straordinario d'Inghilterra Roberto conte di Holderness con famiglia.

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Vento (Calle del)
a S. Basilio. E' così chiamata, secondo il Dezan, dall'infuriare che fa qui, più che altrove, questo elemento.

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Venzata (Calle)
o del Caustico in Rio Marin. Apparteneva questa strada alla parrocchia di S. Giacomo dall'Orio, ove troviamo domiciliato, secondo l'anagrafi del 1761, un «Zuane Venzato» artiere. Anche nel registro delle case, lasciate alla Scuola Grande di S. Rocco da Pietro Dalla Vecchia nell'anzidetta parrocchia, se ne ritrova una che nel secolo decorso appigionavasi ad un «Zuane Venzato».

La seconda denominazione non sappiamo donde provenga, se pur qui non si avesse preparato il «caustico», che è una specie di medicamento estrinseco, di forza adustiva.

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Verde (Sottoportico e Corte)
ai SS. Apostoli. Erano dette anticamente queste località «Sottoportico e Corte di Ca' Verde» da una famiglia di tal cognome. Nei Necrologi Sanitari leggesi che il 2 luglio 1551 mancò ai vivi nella parrocchia dei SS. Apostoli «Santo fio de m. Fr.co Verde. E' sta ferido e morto», e che il 25 gennaio 1555 M. V. pagò il medesimo tributo alla natura nella parrocchia medesima «M. Fr.co Verde amalà za doi anni, et za 15 zorni non uscito di casa». Questa famiglia fu ascritta alla cittadinanza originaria, e dai registri dell'«Avogaria» si viene a rilevare che fuvvi un tempo in cui abitò ai SS. Apostoli, e che il citato Francesco, padre di Santo, era sensale al Fondaco dei Tedeschi. Nei registri dell'«Avogaria» abbiamo pure l'albero dei Verde che rimonta però soltanto ad un Marco, marito di Lucia Malazza, la quale nel 1442 fece donazione a Girolamo suo figlio d'alcune proprietà in parrocchia di S. Gregorio, pervenutele in virtù della disposizione testamentaria (an. 1299), d'un Angelo Malazza di cui era pronipote. Non si può quindi precisare, sebbene paia probabile, che appartenesse alla suddetta famiglia il noto Bartolammeo Verde da S. Ternita, il quale nel 1332 ottenne uno spazio sopra le velme, o paludi, a S. Michele di Murano per istabilirvi il primo ospizio per le convertite sotto l'invocazione di S. Cristoforo, laonde l'isoletta inserviente ad uso di cimitero comunale, chiamasi ancora col nome di questo santo. I Verde, di cui parliamo, oltre gli stabili situati in parrocchia di S. Gregorio, avevano in chiesa di S. Gregorio la loro tomba con epigrafe riportata dal Cicogna.

Una famiglia Verde, o Verdi, diversa dalla surriferita, lasciò il suo nome alla «Calle del Verde», che mette capo alla «Calle dell'Oca», e che anch'essa è attualmente sotto la parrocchia dei SS. Apostoli, ma nei tempi andati era sotto quella di S. Sofia. Ed in vero si ritrae dalle notifiche del 1566 che un Bartolammeo Verdi possedeva in parrocchia di S. Sofia due case, ed una bottega da fruttaiuolo. Nel 1661 un Antonio Verdi notificò poi di possedere una «casa a S. Sofia, in Calle dell'Oca, con bottega di sotto da fruttariol all'insegna dell'Oca, data in affitto ad un Venturin Girardi, fruttariol dell'Oca». Questa famiglia, che anticamente esercitava il mestiere dello stracciaiuolo, possedeva altre case a S. Sofia in «Ruga dei due Pozzi», e beni a Maerne, Rubegan, e Martellago. Il di lei stemma, consistente come scorgesi da un manoscritto lasciatoci dal Cicogna, in un albero a cui s'attacca un braccio, è scolpito tuttora in «Calle dell'Oca», e precisamente all'ingresso della «Calle del Verde».

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Vergini (Calle delle)
a Castello. Ugolino, vescovo di Ostia, che fu poi papa Gregorio IX, giunto a Venezia come legato di Onorio III, consigliò nel 1224 al doge Pietro Ziani di erigere una chiesa intitolata S. Maria Nuova di Gerusalemme, in memoria di quella del medesimo titolo che in Palestina era stata poco prima distrutta dai Saraceni. Il doge aderì al pio desiderio, ed aggiunse alla chiesa un convento di monache Agostiniane, per cui ambedue questi edifici presero volgarmente il nome di S. Maria delle Vergini. A due incendi essi andarono soggetti, nel 1368 e nel 1487, dopo i quali vennero rifabbricati. Nel 1806 si consegnarono alla Veneta Marina, e nel 1809 si ridussero ad ergastolo, o bagno dei forzati. Ora sono completamente distrutti, e l'area, compresa nella cerchia dell'Arsenale, serve a bacino di carenaggio, incominciatosi a scavare nel 1869.

Anche le monache delle Vergini coabitavano un tempo con frati che, probabilmente per le loro intemperanze, furono per due volte, cioè nel 1295, e nel 1449, espulsi dal convento. Anch'esse tanto nel secolo XIV, quanto nei secoli XV e XVI, diedero parecchi esempi di scostumatezza.

La chiesa delle Vergini era visitata il primo maggio di ogni anno dal doge e dalla Signoria tanto per fruire della indulgenza detta della «Porziuncola», concessa da Bonifacio IX, quanto per ricordare alle monache il jus patronato ducale. In questa occasione la badessa recitava un discorso innanzi al principe, e lo regalava d'un mazzo di fiori con manico d'oro e guernito di merletti veneziani.

Nel convento delle Vergini ebbe stanza la moglie del Carmagnola dopo la decollazione del marito, provveduta d'annua pensione, ch'essa però perdette tostoché da alcune donne di Lombardia si lasciò sedurre alla fuga.

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Veriera (Sottoportico e Corte)
ai SS. Giovanni e Paolo. Queste strade, dette negli Estimi «del Verier», presero il nome da un'antica bottega da «verier» (vetrajo), la quale nel secolo XVI apparteneva ai Grimani.

I «Verieri», o «Stationeri che vende veri», di Venezia, eressero scuola il 6 luglio 1436, sotto il patrocinio di S. Sebastiano, nella chiesa di S. Giovanni Nuovo, ma nel 27 luglio 1438 si trasportarono in quella di S. Polo, ove acquistarono una cappella, ed un tratto di terreno sotto il portico per fabbricare le loro sepolture. Nel 1580 passarono in chiesa di S. Angelo, e colà nel 1592 eressero un altare di pietra sul disegno di m. Paolo tagliapietra da S. Trovaso, avendo ricevuto in dono dal pievano e capitolo un «paro di colonne di marmo fino». Finalmente nel 1671 rifabbricarono questo altare, fatto cambio di sito colla scuola di S. Antonio. Tanto deduciamo dalla loro «mariegola», che si conserva nel nostro Archivio. Essi formavano un'arte distinta da quella dei «verieri», o padroni di fornaci di vetro di Murano, coi quali ebbero varie liti, il che si deduce chiaramente dalla «mariegola» stessa.

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Verona (Calle, Ponte, Fondamenta della)
a S. Fantino. Esisteva qui presso nel 1740 la «casa locante alla Verona, tenuta da Pellegrino Mandelli», il quale pagava pigione al N. U. Pietro Zusto. Troviamo nei registri dei «Provveditori di Comun» che «il ponte di pietra denominato della Locanda di Verona a S. Fantino venne rifatto tutto al disopra, et aggiustato al di sotto in ord. alla termin. 22 xbre 1758». Anticamente il «Ponte» e la «Fondamenta della Verona» chiamavansi «del Tintor», mentre la «Calle della Verona» era conosciuta sotto il nome di «Calle della Scoletta», per la prossima scuola di S. Maria della Giustizia, ora Veneto Ateneo.

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Verrocchio (Calle)
ai SS. Giovanni e Paolo.

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Vesiga .
Vedi Vissiga.

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Veste (Fondamenta, Ponte, Calle delle)
a S. Fantino. Da una sartoria di «veste da zentilomeni», che nel 1713 conducevasi da un Bernardo Franalonga, e che conservossi fino agli ultimi tempi della Repubblica. Essa era propriamente situata in «Campo di S. Fantino», nella bottega aperta adesso ad uso di Caffè, laonde anche il prossimo braccio di calle, ora detto del «Caffettier», era un tempo chiamato «delle Veste», denominazione in seguito rimasta soltanto alla Fondamenta, al Ponte, ed all'altro braccio di calle giù del ponte verso S. Moisè.

La «vesta da zentilomo» era quella toga di panno nero ad uso greco che indossavano i patrizii, ed alcuni pubblici funzionarii. Nell'estate portavasi sciorinata d'innanzi, e nell'inverno serrata alla vita, e bordata di striscie larghe di pelli, dette «fende», con una cintura attorniata ai lombi. Nei primi tempi la vestivano anche le persone del volgo, e moltissimi quindi erano i «sartori da veste», i quali venivano retti da un capo chiamato «gastaldo da veste».

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Vérgola (Calle)
a S. Geremia. Deve leggersi «Calle del Vergola», come nella Descrizione della contrada di S. Geremia pel 1713, che ci dimostra aver qui domiciliato in quel tempo «Alessandro Zentilini vergola affittual dei NN. UU. Priuli». Anche più anticamente, cioè nel 1630, trovasi memoria d'un «vergola», o «vergoler» (fabbricatore di «vergole») nella medesima parrocchia, leggendosi nei Necrologi Sanitari: «A dì 30 decembre 1630. Marco de Gier.o dalle vergole - S. Geremia». Ed uno di siffatti artieri diede il nome eziandio, secondo il Dezan, al «Sottoportico Vergola» a S. Alvise, attualmente chiuso.

Il citato Dezan vuole che le «vérgole» fossero alcuni cordoni di seta ravvolti sopra sottilissimi rotoli di carta, che usavansi ad ornamento delle vesti, e di fatti leggiamo che negli ultimi tempi della Repubblica esse erano piene di «vergole», «talchi», e «fiocchi». «Vergole» però chiamavansi anche quelle reticelle di fili di ferro che sostenevano le acconciature del capo. Col mutarsi della moda, l'arte dei «vergoleri» andò affatto perduta.

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Vicenza (Sottoportico e Corte della)
a S. Moisè. Da un albergo destinato in origine ad accogliere i forestieri venuti dalla città di Vicenza. Vedi Bressana (Calle ecc.), Feltrina (Ponte ecc. della), Verona (Calle ecc. della). L'anagrafi ordinata pell'anno 1642 dai Provveditori alla Sanità ricorda la «Casa Visentina» in parrocchia di S. Moisè, ed il necrologio del 1675 la «Camera locante all'insegna della Vicenza» nella medesima parrocchia.

L'albergo della «Vicenza» a S. Moisè trovasi nominato anche nella «Gazzetta Urbana» del 1789.

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Vidman (Fondamenta, Calle, Rio, Ponte, Calle Larga)
a San Canciano. Il palazzo Vidman, o Widman, fu architettato dal Longhena, ed in origine apparteneva alla cittadinesca famiglia Sarotti. Così ne parla il Martinioni: «Il palazzo dei conti Vidmani, posto in contrà di S. Cantiano, nell'entrar in Biri, è notando per costruttura, per copia di stanze, per magnifiche sale, e per la facciata ornata di marmi di singolarissimo ordine d'architettura, e per esser di dentro fornito di statue, di pitture, e di altre ricchezze». Questo palazzo nel 24 agosto 1752 fu colpito da un fulmine, che prima aveva penetrato nella chiesa di S. Canciano, e lambito lo stemma dei Widman, posto nella loro cappella.

Un Giovanni Widman q.m Martino, venuto nel 1586 a Venezia da Villaco in Carinzia, potè accumulare col traffico grandi ricchezze, per cui, venendo a morte nel 1634, lasciò un milione e duecentomila ducati ai figliuoli, che nel 1646, mediante l'offerte per la guerra di Candia furono ammessi alla veneta nobiltà. Dei figliuoli di Giovanni, Martino acquistò la contea d'Ortemburgo, e la baronia di Paterniano e Sumerech nella Carinzia; Cristoforo venne da papa Innocenzo X creato cardinale di Santa Chiesa nel 1647; e Davide fu generale delle milizie pontificie contro il duca di Parma, a cui nel 1649 prese ed interamente distrusse Castro. Trovasi pure un Carlo Widman negli ultimi anni della Repubblica generale di mare in Levante. Questa famiglia donò alla chiesa di San Canciano il corpo di San Massimo, vescovo di Cittanova, e nella chiesa medesima costrusse una cappella, ove ha le proprie tombe ed iscrizioni. Costrusse inoltre un superbo altare nella chiesa di San Michele in Bagnoli, ed una colonna di marmo da porsi nella piazza di quel villaggio. La famiglia Widman andò estinta nel 1878 in un Giovanni Abondio, uomo stravagante assai, che nella sua vecchiaja sposò una donna del popolo, nella quale passarono le di lui facoltà.

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Vigna (Campiello della)
in «Quintavalle». Da una vigna, o vigneto, che qui stendevasi, laonde la Descrizione della contrada di San Pietro di Castello pel 1661, all'oggetto d'indicare la situazione d'alcune case, le dice poste «dietro la Vigna». Essa apparteneva al patriarcato, trovandosi che il 16 gennaio 1477 Giovanni Memmo, a nome di suo zio patriarca di Venezia, la diede in affitto ad un Pietro di Sdrigni. Parecchie di tali vigne esistevano in Venezia, ed erano coltivate dai così detti «ortolani», che non formavano un'arte, ma sibbene un corpo contribuente, il quale nel 1773 si divideva in tre categorie: «I. Affittuali di Vigne a Castello ed alle Vignole: 17; II. Affittuali di Vigne alla Giudecca: 32; III. Affittuali di Vigne in Cannaregio: 13».

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Vin (Fondamenta del)
a S. Silvestro. Chiamavasi, come abbiamo detto, anticamente «del Ferro», nome passato alla Fondamenta opposta. Si disse «del Vino» da quando le barche cariche di vino incominciarono ad aver stazio lungo la medesima, il che continuano a fare tuttora. Sopra questa fondamenta eravi pure «l'Uffizio del Dazio del Vin» in un locale che fu demolito nel 1842 per costruire quello della Direzione del Lotto. I mercatanti da vino, eretti in corpo nel 1505, si raccoglievano in confraternita, sotto l'invocazione della SS. Croce, nella prossima chiesa di S. Silvestro. Ed i «Venditori, Portatori e Travasadori da Vin», uniti in iscuola per concessione 30 decembre 1569, sotto l'invocazione degli Ognissanti, fabbricarono in chiesa di S. Bartolomeo un altare e due arche.

Alcune altre località di Venezia dividono il nome con questa fondamenta, o perché vi approdassero le barche da vino, o perché vi si vendesse tale liquore.

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Vinanti (Calle)
a S. Pantaleone. Era qui domiciliato nel 1713 un «Zandonà Vinanti». Questi nel 1729 venne citato all'ufficio della «Avogaria» per dare informazioni sopra un Pietro Redivo, che chiedeva d'essere ammesso nel collegio de' Ragionati. Quindi apprendiamo che il Vinanti copriva la carica di «nodaro al M. del Proprio», e che continuava ad abitare in parrocchia di S. Pantaleone. Egli nel 1740 costrusse tomba per sé e posteri in chiesa di S. Pantaleone con epigrafe riportata dai raccoglitori. Nella medesima parrocchia abitava nel 1775 Nicolò, di lui figlio, avvocato veneziano. Più anticamente la famiglia Vinanti, che s'occupava nel commercio di cordovani, aveva dato alla chiesa di S. Pantaleone un pievano in un G. Battista eletto nel 1645, il quale meritò l'amore della Veneta Signoria a cagione del suo zelo pei poveri, sicché fu fatto dal doge Francesco Molin canonico della basilica ducale. Nel 1668 rinnovò la sua chiesa, sobbarcandosi a parte del dispendio. Passò a miglior vita nel 1675, venendo pur egli in S. Pantaleone sepolto.

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Vissiga (Calle della)
a S. Simeon Profeta, in «Rio Marin». Da una famiglia di questo cognome. I «Governadori delle Intrade» vendettero il 1° ottobre 1467 a Filippo Foscari una casa con orto a S. Simeon Profeta, che prima aveva appartenuto a «Giacomo e Lorenzo q. Giovanni detti Vessiga», e che confinava col «Rio Marin». Un «Zuane Vesiga» figura anche nei «Diarii» del Sanudo come corriere della Repubblica nel 1510.

Alla famiglia medesima forse apparteneva quel «Leonardus samitarius filius Vesice custodis dominorum de nocte», che fu condannato, con sentenza 14 settembre 1490, ad un anno di carcere, ed a cinque di bando per la colpa seguente. Stando in casa di Pietro Zanini, posta sul ponte di S. Giacomo dall'Orio, gli venne veduta certa Maddalena, moglie d'Antonio Rosso «a serico». Saltò allora fuori dalla casa, ed ingiuriolla con queste testuali parole, conservateci dal processo, e che noi riportiamo volentieri come un documento del dialetto veneziano di quel tempo: «Nasca el vermocan e le fistole a tanti bombaseli e tanti rossetti, e lo lin che tu ha in cavo va... de me...» Risentitasi la donna, gli rispose ― Guarda il valentuomo che mi dice tali ingiurie! Mi conosci bene? Se fosse qui mio marito forse ti dispiacerebbe, perché potrebbe nascerne fiera contesa! ― A cui Leonardo «tu ha trope zanze!» ed in questo dire le dà uno schiaffo, e vuole strapparle la treccia, minacciandola di tagliarle la faccia. Né contento di ciò, il giorno seguente ritrova per istrada il marito, l'assale con un coltello, e lo costringe a ricercare salvezza in una casa vicina.

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Vitalba (Corte)
a S. Giovanni Evangelista. Un «Ger.mo Vitalba mercante di lana q. Z. Batta, habitante a S. Gio. Evangelista», fu uno dei testimoni, che nel 1695 vennero citati all'«Avogaria» in occasione del processo istituitosi presso quell'uffizio pell'approvazione del matrimonio tra il N. U. Giacomo Antonio Marcello e Caterina Piroco. La Descrizione della contrada di S. Stin pel 1713 ci ammaestra poi ch'egli abitava precisamente nella corte chiamata perciò sin d'allora del «Vitalba», in una casa presa a pigione nel 1680 dal N. U. Vittore Zane.

Egli è con tutta probabilità quel Girolamo Baldassare Vitalba bergamasco, procuratore della prossima chiesa di S. Stin, ora distrutta, il quale nella chiesa medesima eresse tomba a sé ed eredi nel 1715.

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Vitelli (Sottoportico, Corte)
sulla «Fondamenta di Cannaregio». Sembra che qui anticamente esistesse il «partito» dei vitelli, trasportato poscia a S. Girolamo. Un «Zuane Piceni partidante del vitello» morì in parrocchia di S. Geremia il 22 luglio 1688.

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Vitturi (Ponte)
a S. Vitale. D'antica origine romana, la famiglia Vitturi produsse, al dir dei cronisti, tribuni «molto ingegnosi, sagaci, superbi, e piccoli delle persone». Troviamo Giovanni, Marino, Orlando e Silvestro Vitturi fra i nobili che nel 1151 sottoscrissero l'atto di quitanza, fatto dal doge Morosini ai nobili di ca' Basegio. Un Daniele Vitturi sconfisse nel 1260 la flotta unita dei Genovesi e dei Pisani, predando ai primi otto navi, e cinque ai secondi. Un Lampridio fu vescovo di Traù nel 1315. Un Giovanni, eletto nel 1510 provveditore in Friuli, ruppe in quell'anno i nemici presso Cormons; nel 1513 venne spedito ad assistere la città d'Udine minacciata dai Tedeschi; nel 1514 prese in certo incontro il generale Cristoforo Frangipane; nel 1527 andò al soccorso di papa Clemente, assediato in Castel S. Angelo; nel 1528 fu posto a guardia di Barletta, ed altri luoghi marittimi della Puglia, conquistati dall'armata veneta a favore dei Francesi; nel 1531, sotto una accusa «de peculatu», fuggì presso Ferdinando re dei Romani, che lo creò cavaliere e capitano in Ungheria, ove sconfisse i Turchi; nel 1537 essendo stato richiamato, venne fatto generale d'armata in Golfo; nel 1539 provveditore generale in Candia; nel 1542 finalmente morte colpillo, e ritrovò tomba in chiesa di S. Canciano. La famiglia Vitturi si gloria pure di un Lorenzo arcivescovo di Candia nel 1595, il quale in tempo di fame e di peste sovvenne con esemplare carità ai proprii soggetti.

Essa ha tuttora scolpito il proprio stemma sul pozzo interno del palazzo che a S. Vitale appartenevale, e che, per matrimonio, passò nei patrizi Veronese.

Il «Ponte Vitturi» chiamasi anche volgarmente «dello Scutelio» da un Girolamo Scutelio, chirurgo, che vi domiciliava appresso nel 1781.

In prossimità vi è pur una calle detta «Vitturi» o «Falier», essendo vicina, oltreché al palazzo Vitturi, anche al palazzo Falier. Vedi Falier (Corte).

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Vòlti (Calle dei)
ai Gesuiti. Alcuni archi, o volti, che congiungono le case, danno origine a tale denominazione, più fiate ripetuta nella nostra città.

In questa strada la Scuola Grande della Carità possedeva 32 case che, come dalle iscrizioni, vennero erette nel 1495 coi danari ritratti dalla vendita d'un palazzo a S. Marina, lasciato ad essa scuola da Tommaso Cavazza, e che furono ristaurate dal l747 al 1753.

Spesso trovasi eziandio qualche strada chiamata «del Volto», perché vi si scorge, o vi si scorgeva, un volto soltanto.

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Vòlto (Calle del)
a S. Lio. Vedi Volti (Calle dei).

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