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Strategia di lavoro per la Repubblica: gli Statuti legislativi
di Umberto Sartori - inviato il 07/05/2011

Su quali basi e in qual modo i Veneziani formarono la loro Repubblica: le Leggi.

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Gli Statuti Legislativi


Per avvicinarsi a questo argomento è senz’altro opportuno citare il testo: “Della Veneta Giurisprudenza, Civile, Mercantile e Criminale” di Daniele Manin, pubblicato nel 1848 e disponibile per la consultazione in rete all’URL: http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/veneta_giurisprudenza_civile_e_criminale.pdf.
Da quel testo riporto alcuni brani particolarmente significativi a sostegno delle tesi esposte in questa Strategia.

La Riforma Imperiale Cristiano-alessandrina introdotta dai Veneziani, non si limitò a mutare le forme politiche e militari dello Stato: osserviamo che gli Statuti legislativi Veneti a loro volta modificarono le basi del pre-esistente Diritto Romano che, pur presente nella consapevolezza dei legislatori Veneziani, non viene da questi assunto come fondante per il Diritto Veneto.

“Della Veneta Giurisprudenza, Civile, Mercantile e Criminale” di Daniele Manin
“Della Veneta Giurisprudenza, Civile, Mercantile e Criminale” di Daniele Manin

Non permettiamoci mai di dimenticare che il “Buon Senso”, le “consuetudini” e la percezione del Diritto Naturale dei Veneziani sono quelli di un Popolo profondamente Cristano impegnato nel dare forma socio-politica a quella Dottrina.

“Della Veneta Giurisprudenza, Civile, Mercantile e Criminale” di Daniele Manin

Manin espone e valuta l’esperienza giuridica delle Repubblica di Venezia attraverso un’ottica chiaramente influenzata da due fattori:

- la passione catalogatrice e determinista dell’illuminismo, che in campo giuridico mostra una predilezione per la staticità delle Leggi e per la supremazia assoluta delle Leggi scritte e codificate sul Diritto Naturale e sulle consuetudini.   In questo campo la sua è una formazione profondamente condizionata dal Diritto Romano, nonostante come Patriota egli guidasse la ribellione all’Impero d’Austria, Sacro e Romano per autodefinizione e investitura papale;

- il grave avvilimento mercantile e materialista che, dal tardo Rinascimento in poi, aveva subdolamente e sempre più gravemente infiltrato la Cristianità veneta.   Il fattore si evince dal fatto che, come giurista, Manin in questa Opera si applica a esporre principalmente le normative legate alle successioni, alle finanze, ai commerci e a quant’altro pertinente ai beni materiali: affronta l’aspetto morale e sostanziale delle Leggi veneziane solo di sfuggita e quando esso appare prepotente dalla lettera delle Leggi, come nel caso della tutela dei deboli, minori ed anziani.

En passant, annotiamo che in Venezia fin da tempi antichissimi esistevano istituti come l’assistenza pubblica per le malattie e il pensionamento dei lavoratori.   Sono tra i molti primati storici rubati a Venezia dall’illuminismo, dalla rivoluzione industriale, dal sindacalismo moderno.   A confermare il velo di vergogna da imporre sulla fronte di Victor Hugo, e di quanti altri calunniarono e calunniano la Giustizia e il Dominio della Repubblica di Venezia, pongo ancora due citazioni, di Manin e, piu avanti, di Pietro Aretino.

Il fattore illuminista e quello materialista tacciono però nella chiusura del testo, dove Daniele Manin, dismesse le vesti del “giureconsulto erudito” lascia parlare il suo cuore di Patriota e cita un altro Letterato che, per la sua arcinota natura sincera, ribelle e trasgressiva, non è sospettabile di piaggeria o simpatie oligarchiche, come non lo furono Dante, Petrarca e Guicciardini nel tessere analoghi e anche più dettagliati elogi della Repubblica Veneta:

“Della Veneta Giurisprudenza, Civile, Mercantile e Criminale” di Daniele Manin

I Veneziani attuarono la “certezza del Diritto” nel senso più strettamente etimologico della frase. Il Cittadino poteva essere certo della tutela e della prontezza degli Organi Legislativi e Giudiziari secondo Giustizia e Clemenza cristiana. Certo soprattutto che questi organi emanassero e applicassero Leggi e non soprusi.

Nel Diritto Romano, invece, la “certezza del Diritto”, viene sempre più a tradursi in “certezza della pena”, promuovendo una concezione dualistica che pone società civile e criminalità in una posizione contrattuale tendenzialmente paritetica.
Nell’ordinamento penale italiano odierno questa tendenza si è spinta tanto oltre da determinare addirittura vantaggi per il delinquente e negare ogni valore di “certezza” attraverso il produrre norme vaghe, ambigue, retroattive e incomprensibili sia per i destinatari sia per i giudici chiamati ad osservarle.
Questa situazione di degenerazione del diritto legislativo, caratteristica di numerosi ordinamenti dell’Europa continentale contemporanea, viene definita in ambiente giuridico contemporaneo col termine eufemistico e, spero, autoironico, di “decodificazione”.

Nella loro evoluzione del modello imperiale, i Veneziani abolirono quel dualismo: alla criminalità non veniva riconosciuta personalità propria ma la qualifica di malattia sociale.   I mezzi di difesa dalla stessa sono quindi assai più elastici e oggetto di evoluzione e adattamento con il variare di tempi e luoghi di applicazione.   L’Amministrazione della Giustizia Veneta non si basa su un contratto inderogabile tra il criminale e la società civile ma su una costante ricerca della migliore via di guarigione dal male sociale.

Se anche la Repubblica Italiana, come abbiamo visto, ha voluto nascondere la propria naturale ascendenza in quella Veneta, non sono comunque il primo a voler prendere Venezia come modello di società civile.   Per la loro sensatezza ed elasticità, gli Statuti legislativi Veneziani che, come vedremo tra breve in merito alla tratta degli schiavi, erano già attivi nel promuovere valori cristiani almeno dalla metà del Nono Secolo, influenzarono i Popoli e le Istituzioni con cui vennero in contatto nel corso di alleanze e conflitti.

La loro influenza legislativa è riconoscibile nella difesa dell’individuo libero cittadino e nei Principi di Equità e Giustizia sia nelle “Costituzioni Normanne” del Dodicesimo Secolo che nell’assai più famosa “Magna Charta” britannica del Tredicesimo.
Non è forse quindi un caso, se il San Giorgio protettore d’Inghilterra è il Santo più simile, nella sua leggenda, al San Teodoro di Amasea che, al tempo dell’incontro dei Crociati inglesi con i Veneziani, è il Patrono di questi ultimi.

La stessa Chiesa Romana cercò di assorbire forme imperiali, se non legislative, dal Modello Veneziano e il risultato ne fu l’Ordine del Tempio, il cui immediato successo su scala mondiale fu visto poi come un pericolo per la struttura monarchica e arretrata dei Romani e di quei Re che a Roma ancora si ispiravano.
Non difendere quei Fratelli Cavalieri in Cristo dalla feroce prepotenza con cui Papa e Re li perseguitarono, fu probabilmente il primo peccato capitale commesso dai Veneziani: l’accidia, cui gli altri seguirono, mentre di pari passo decadeva la dignità del nostro Popolo, fino alla miseria attuale che minaccia di cancellarne anche la passata gloria (vedi Storia Morale di Venezia).

Ciononostante, la recente e presente indegnità degli abitanti nulla ha a che vedere con il messaggio politico e il modello di Stato Veneziano tramandato nelle pietre e negli Archivi di Stato.
Un modello che ha informato giuridicamente la Common Law Anglosassone e le cui innovazioni socio-politiche sono oggi millantate come merito della Rivoluzione Francese o di altri “modernismi”.   Per ricordarne soltanto alcune pensiamo:

- all’applicazione del principio “Libera Chiesa in Libero Stato” già prima dell’anno Mille. Un successo mantenuto per secoli che invece manca del tutto, al grande “riscopritore” di questo principio nel Regno d’Italia Camillo Benso di Cavour; un successo che manca ancora ai giorni nostri nella prassi di tante sette che pure affermano di ispirarsi a quel principio.

- alla dignità politica della borghesia, che in Venezia fu grandiosa realtà per almeno sei secoli prima della “Presa della Bastiglia”;

- alle Scuole di Commercio che fiorirono nella Città lagunare con altrettanto anticipo sull’illuminismo francese;

- alle Corporazioni di Arti e Mestieri che anticipavano sia lo spirito Enciclopedista che le legislazioni sul Lavoro, il Commercio, il Diritto d’Autore, la Sanità Pubblica, la Tutela dei Minori;

- all’abolizione del commercio di schiavi che due Dogi in rapida successione (Orso Partecipazio e Pietro Candiano) bandirono in tutta la Repubblica già dal IX Secolo, circa mille anni prima che l’Inghilterra, nella spartizione delle spoglie Napoleoniche, si arrogasse questo primato di civiltà.
Su questo argomento ancora è opportuno confutare quello che molte fonti storiche moderne illazionano.

Si dice cioé che gli editti di Orso e Pietro, promanati forse in obbedienza al monito di Papa Zaccaria nel Secolo precedente, non sarebbero poi stati rispettati, e il commercio di carne umana sarebbe proseguito su larga scala.   Può essere facile credere a questa teoria, codaiuvati da quella che è sempre stata una delle icone veneziane fino alla Caduta della Repubblica: il “Moretto”.

Ma in quelle stesse fonti, citate tra gli altri da Pompeo Molmenti in: ”La Storia di Venezia nella Vita Privata” si trovano dettagli che gettano luce assai diversa sulla disobbedienza dei Veneziani agli Editti di Orso e Pietro.   Compatibilmente con i tempi, che vedevano una quantità di situazioni umane incresciose, come la presenza costante di prigionieri di guerra, e la necessità altrettanto costante di riscattarne di propri, la legislazione Veneziana mutò radicalmente la condizione degli “schiavi”.
In primis osserviamo che lo “schiavo”, in Venezia, è dotato di una propria persona giuridica: “può adire il tribunale comune (ed essere certo di averne pronta Giustizia, N.d.A.), avere famiglia propria e ha facoltà di obbligarsi, di acquistare, di possedere”.   Ancora: “la consuetudine concedeva al padrone di esercitare contro chi avesse usato violenza a una schiava, la medesima azione di tutela attribuitagli per l’onore dei propri famigliari ; nè la tutela della legge mancava agli schiavi anche per offese di lieve momento”.

Non bastasse l’aspetto giuridico, le fonti confermano un ben più importante passo umano: “... il legame affettuoso che tra lo schiavo, non condannato ad obbedire ciecamente e supinamente al padrone, ed il padrone si veniva stabilendo, era premio allo schiavo di uno zelo assiduo che riusciva a cattivarsi il benefizio della fiducia e ad attirare su di sè un più vivo senso di pietà ed una giusta estimazione del suo valore personale ...   Dall’affetto e dal particolare gradimento al prezioso dono della libertà personale il passo era breve. Sempre più frequenti andavano facendosi le francationes causa mortis, che liberavano il servo col testamento (pagina testamenti), o per atti fra vivi mediante cartulae libertatis...”.

Dalle ricerche di Molmenti risulta anche che solitamente gli “schiavi” erano tenuti dai loro “padroni” in considerazione assai più alta di quella in cui tenessero i loro propri servi per mercede.
Lo schiavo infatti, in quanto divenuto tale per prigionia di guerra, non apparteneva quasi mai alla classe servile, anzi poteva essere per estrazione e classe d’intelletto e abilità persino superiore al “padrone”.
Simili uomini, nella loro disgrazia non perdevano le qualità intrinseche della loro estrazione e formazione. Guadagnatosi il loro rispetto, il “padrone” poteva contare su di loro più come amici consiglieri che come servi.

Non stupisce allora che i “moretti”, ancora oggi tramandati nel folklore dell’artigianato veneziano sotto forma di suppellettili, e soprattutto gioielli, non rendano affatto l’idea di uno schiavo: sono sontuosamente vestiti di seta e broccati e, nel tipico gioiello detto proprio “moretto”, coperti di rubini, smeraldi e diamanti.


Attualità del Modello Veneziano


Penso di aver fornito dati e fonti sufficienti non solo a redimere la Repubblica di Venezia dalle calunnie ottocentesche, ma anche a mettere in luce lo spirito Cristiano che animò il Popolo di questa Repubblica.   Il Lettore attento ha visto ribadito, nel Diritto come nella Politica, che la Religione Cristiana è determinante per la visione del Mondo dei Veneziani e per l’organizzazione della loro Repubblica.   Ancor di più, oggi, voglio ribadire che la Religione Cristiana, e le implementazioni alessandrine che apporta al modello repubblicano di Platone, sono determinanti sia per l’avvicinamento intellettivo a quella stessa visione Veneziana del Mondo, sia per estrapolarne insegnamenti aggiornati sulla Dottrina Repubblicana.

Sulle forme attraverso cui la religiosità dei Veneziani interagiva operativamemte con la loro struttura socio-politica, mi sono espresso più esaurientemente in “Storia Morale di Venezia”.   Un nuovo dato in merito mi è però giunto nel proseguire della ricerca storica: riguarda il momento in cui la coscienza repubblicana prese saldamente in mano il destino del Dogado.

L’affermarsi di una corretta amministrazione Repubblicana nelle Lagune, per i Secoli in cui si rese necessario il passaggio dalle naturali gerarchie “di barca” a strutture statali più complesse, non fu priva di ostacoli e traversie.   Le tentazioni tribali e tiranniche non furono meno attive qui che altrove, ma il Popolo nel suo lungo andare seppe vigilare e discernere, finché giunse a sanare la sanguinosa conflittualità interna attraverso un’Opera collettiva, la Fondazione del Monastero di San Giorgio:

“... il 20 dicembre del 982, tutti i Grandi della laguna, di solito divisi tra di loro, si trovarono uniti e concordi nel fondare nell’isola di S. Giorgio un nuovo monastero: un monastero, si badi, esente, cioè libero da ogni controllo non soltanto da parte del vescovo locale ma anche dello stesso duca.
Come Cluny, come Fruttuaria, come altre abbazie dell’epoca, S. Giorgio appare espressione di un monachesimo nuovo che ha superato il punto morto della pigra e spesso complice soggezione al secolo e alle grandi famiglie per riscoprire la sua originaria funzione di oasi contemplativa, di anticipo della Gerusalemme celeste piantato nel cuore del ducato
”.
Tratto da: “Religione e Politica nella Venezia del Mille”.

In quello stesso Convento fu possibile, ottocento anni dopo, l’elezione di un nuovo Pontefice nonostante nella Basilica di San Pietro bivaccassero gli armati di Napoleone.

L’atto votivo, per Venezia, è il germoglio di ottocento anni di concordia interna repubblicana:   era scattata la sinergia tra laicato e sacerdozio che permette la formazione di individui Cittadini completi, abili secondo i loro talenti grazie all’efficienza delle Scuole e fin da fanciulli educati alla visione religiosa della Repubblica in sentimenti analoghi a quelli parentali.

I Veneziani infatti crescono costantemente consapevoli, ciascuno secondo la sua misura, non solo di essere figli della Repubblica, ma di essere anche i Padri protettori di questa loro Madre nell’umana esperienza dei Popoli.


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