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Arabi e Israeliani
di Umberto Sartory - inviato il 25/04/2002
Da molto tempo ormai sto lavorando a questo articolo. Da quando ho memoria seguo mio malgrado le vicende di una regione che, pur lontana geograficamente da quella in cui vivo e da quelle in cui ho occasione e piacere di recarmi, si trova costantemente in un punto caldo dell'attenzione mondiale. Di conseguenza queste vicende, che sono tutt'altro che edificanti, anzi quasi esclusivamente composte di orrori, mi vengono quotidianamente scodellate assieme al cibo.
La mia intenzione originaria, nel cercare queste parole, era di comporre un monito alle parti, di suggerire, secondo l'insegnamento cristiano, che ciascuno dei contendenti operasse un esame di coscienza, cercando di portare all'altro non una critica ma un'autocritica. Che ognuno cercasse in sé le radici del presente orrore, e si ripromettesse di porvi fine non già attaccando un nemico esterno bensì operando su se stesso.

Mi sono dunque applicato a compilare una lista obiettiva che suggerisse ragioni e torti sia degli Arabi che degli Ebrei di Palestina, così come appaiono a un osservatore lontano e dall'intenzione imparziale.
Mano a mano che raccoglievo informazioni sulla questione, ho però dovuto mutare uno degli assunti da cui ero partito, cioè che le parti in lotta condividessero equamente quei torti e quelle ragioni, dal punto di vista della giustizia terrena.
Ho dovuto ricredermi, perché quella che emerge dalla mia personale memoria, nonché quella che posso desumere dalle notizie storiche e dal retaggio della Tradizione, è una pesante disparità di comportamento che vede gli Ebrei poter accampare indiscutibili ragioni, aver subito assai più torti e aver effettuato più di un atto di buona volontà. Vede d'altro canto gli Arabi del tutto privi di ragioni formali e sostanziali che non siano riconducibili alla xenofobia, all'intolleranza e soprattutto alla difesa di metodi di governo arcaicamente incivili e antidemocratici.
I torti subiti dalla Parte araba appaiono in gran parte imputabili a ritorsioni e rappresaglie seguiti ad atti di terrorismo la cui efferatezza e frequenza non ha eguali nella memoria dell'umanità.
L'unico punto luminoso che sono riuscito, con tutta la mia buona volontà (e la voglia di surrogare la mia prima ipotesi di equa ripartizione di torti e ragioni), a localizzare tra le azioni degli Arabi è il coraggioso viaggio del Presidente Sadat in Israele, e il suo tentativo di cambiare l'impostazione del problema secondo la metodologia autocritica anziché critica.
Fu un momento di grande speranza per tutti noi che a quella metodologia ci affidiamo, nonché per tutte le persone civili o anche solo sensibili. Quasi superfluo ricordare che furono ancora gli Arabi a spegnere quel portatore di speranza e saggezza.

Esporrò quindi per sommi capi come sono giunto a poter affermare quanto sopra.
È imprescindibile, per ottenere chiarezza in questo campo, esaminare gli assunti storici della questione.
Dobbiamo allora dire che la Palestina non fu mai, ne mai rivendicò di essere (fino ai recenti anni) uno stato sovrano, se si esclude l'Israele biblico. Dalla scomparsa di quest'ultimo, essa rimase una regione geografica priva di identità nazionale, e come tale fu provincia di vari imperi, da quello di Alessandro il Macedone a quello romano, per finire con quello ottomano, estintosi dopo la prima guerra mondiale.
Vale forse la pena ricordare che furono i Romani a rinominare come Palestina quella che era la "Terra di Canaan", e che ancora a quel tempo l'Autorità locale sottoposta al Governatore romano era il Sinedrio di Israele.
Negli anni che seguirono lo sfaldamento dell'Impero Ottomano, come spesso in passato, la Palestina fu terra di passaggio e di contesa fra stati confinanti e tribù nomadi, al punto di venir sottoposta nel 1922 come protettorato alla Gran Bretagna, nel tentativo di arginare i continui focolai di violenza che vi si innescavano, tra popolazioni pressoché barbare e decisamente sanguinarie.
La Gran Bretagna realizzò forse che i Sionisti erano di fatto gli unici a poter affermare per Tradizione diritti di identità nazionale su quella terra, e fece del suo meglio per facilitare la loro immigrazione. Probabilmente vedeva, in questa forma di ricolonizzazione, un possibile alleato al tentativo di civilizzare quei popoli sparsi e guerreggiatori. Fu costretta a desistere e limitare invece il movimento immigratorio a causa delle violentissime reazioni dei paesi arabi confinanti.

Non è difficile ravvisare tra i motivi di queste reazioni il timore di governanti "teocrati" e di fatto assoluti, verso l'installazione di coloni portatori di forme politiche e di vita ben più evolute o comunque più democratiche, liberali o socialiste, come erano gli Ebrei provenienti, e formati, dai quattro angoli della civilizzazione "occidentale".

Nonostante l'inasprimento delle condizioni, gli Ebrei alla ricerca della patria antica continuarono a porre le fondamenta per la ricostruzione del loro Stato con una immigrazione di tipo individuale nei territori di Palestina, acquistando grandi appezzamenti di terreno dai proprietari.
Impossibile determinare con certezza se già vi fosse un disegno preciso e coordinato, in queste azioni commerciali, mirato alla ricostituzione di Israele, o se si trattasse invece di mere scelte personali, che giunsero quasi fatalmente “a massa” durante e subito dopo le ultime gravi persecuzioni, subite da parte dei regimi nazista e sovietico.

Di fatto gli Ebrei si trovarono a un certo punto nella condizione di poter esigere dalla comunità delle nazioni civili il riconoscimento dei territori, da loro comperati, in forma di stato nazionale.
Possiamo dire che costituirono Israele, dal punto di vista giuridico, come una estensione della proprietà privata. Un principio in fondo analogo a quello con cui si riconosce il diritto alla chiusura al pubblico passaggio delle strade vicinali e agricole. Ottennero questo privilegio grazie ai titoli di proprietà e soprattutto sull'onda emotiva conseguente la scoperta dell'eccidio subito nei campi di sterminio nazisti.
Le Nazioni Unite ritennero equo garantire, a un popolo capace di mantenere la propria identità e le proprie comuni aspirazioni attraverso millenni di diaspora, un territorio-rifugio.
È assai probabile che a favore del riconoscimento di Israele abbia giocato anche il fatto che gli Ebrei uscivano dalla tempesta nazista tutt'altro che proni, anzi estremamente motivati e determinati, al punto di non esitare a ricorrere al terrorismo dinamitardo. Data la capillare diffusione di comunità sioniste molto potenti in pressoché ogni Stato, ben si comprende come fosse difficile sottovalutare la loro minaccia per gli stati che quelle comunità ospitavano.

Secondo il mio primo e preferito punto di vista, questa inclinazione al terrorismo e questo temerlo squalificano di molto la civilizzazione, ma ho premesso di attenermi alla pur ignobile realtà dei fatti, e questa non trascura affatto di tener conto dei rapporti di brutalità.
Il terrorismo dinamitardo dei sionisti fu comunque limitato nel tempo all'immediato dopoguerra e non giunse neanche a sfiorare l'efferatezza di quello arabo che insanguina la Terra da oltre 50 anni. Inoltre va anche detto che gli Ebrei lottavano per affermare qualcosa e non per negarla. Cercavano il loro Stato, mentre gli Arabi di Palestina riuscirono (e riescono) a malapena a sospendere momentaneamente le loro lotte fratricide solo per negare, o annegare, Israele.
Questo cercarono di fare gli Stati confinanti al tempo della ricostruzione di Israele; essi non accettarono la risoluzione ONU, non accolsero fraternamente un popolo che vagava senza patria da 2000 anni, anzi si unirono in una coalizione di molti grandi contro uno piccolo, vile già in questo anche senza citare la xenofobia e l'oscurantismo dei membri. Fusero questa precaria alleanza nella parola d'ordine "ributtiamo a mare gli Ebrei".

Paradossalmente, se un sentimento di unità nazionale è nato fra le tribù arabe di Palestina (cosa di cui mi si consenta di dubitare), lo si dovrebbe proprio al tentativo di cancellare Israele.

Ma non sempre la forza si commisura alla dimensione, e Israele mise i rotta i suoi nemici, in una sorprendente analogia con il suo mito di Davide e Golia.
Gli oppositori, sconfitti nello scontro frontale, passarono a più vili sistemi: avviarono le lamentele per le conseguenze di guerre che essi stessi avevano innescato, e al contempo le loro folli e indiscriminate rappresaglie contro l'intero mondo di aspirazione democratica.
Attentati, sequestri, stragi, dirottamenti divennero il loro quotidiano contributo alla vita sociale. Agirono sempre al di fuori anche di quelle poche regole che la civiltà è riuscita a imporre alla guerra, come l'obbligo di indossare una divisa, di rispettare i civili, di salvaguardare i prigionieri.
Fecero anzi della trasgressione a queste regole la loro arma principale, giungendo a trucidare atleti olimpici così come un ostaggio vecchio e paralitico.
Ma la loro brutalità non fu mai efficace, soprattutto, io penso, perché erano privi della più piccola briciola di ragione, e alla luce dei più recenti avvenimenti, direi anche di senno.

Posso dalla mia memoria esumare più di un episodio in cui Israele invece, pur nella brutalità della situazione, compì atti, se non di conciliazione, almeno di buona volontà, restituendo territori da lui occupati in seguito a guerre cui non aveva dato inizio. In questi territori gli Arabi si affrettarono a reinstallare postazioni belliche e centri di attività terroristica.

Se si continuerà a voler risolvere questa questione per mezzo della brutalità, come una certa parte del mondo arabo sembra fermamente intenzionata a fare, trovando pronta risposta nella legge del taglione (punto che Arabi e Israeliani hanno in comune), ritengo che le popolazioni arabe della Palestina siano destinate a essere soppresse.
Un destino che si legge nella loro stessa tecnica di combattimento suicida. Al di là dell'orrore e della pietà che simili azioni suscitano, credo che il mondo civile non sentirà la loro mancanza, non più di quanto senta quella del tyrannosaurus rex o della tigre dalle zanne a sciabola.
Se è infatti lecito aspettarsi che un uomo civile auspichi la scomparsa di eserciti e macchine da guerra, quanto più e prima è auspicabile che scompaiano genti capaci di procreare e allevare bambini al solo scopo di usarli come mine antiuomo?
A questo gli Israeliani non sono mai giunti. Posso convenire sul fatto che gli Ebrei abbiano molti torti, che nel momento della prova la loro civiltà e umanità faccia acqua da più parti, ma al contempo i cosiddetti palestinesi non mostrano di avere alcuna ragione, ciononostante commettono atti di tale indiscriminata ferocia da farli decadere dalla condizione umana civilmente e attualmente intesa.

Naturalmente la mera analisi dei fatti non inficia la mia convinzione profonda che la responsabilità morale dei fatti di Palestina non possa che essere paritetica tra le parti in contesa.
Questa tesi può solo però venir verificata quando si ponga a fondamento dell'etica sociale quella iniziatica e cristiana. In un campo cioé in cui sia lecito processare soprattutto le intenzioni, i livelli di consapevolezza, di coscienza sociale e di sviluppo spirituale, mentre sia al contempo ovvio che l'unica coscienza deputata a giudicare e correggere sia quella stessa portatrice dei fenomeni in osservazione.
È un campo in cui agisce sostanzialmente la coscienza impegnata nell'autoosservazione; non avendo io vissuto in prima persona e in corpore vili la tragedia Arabo-Israeliana non ritengo mio diritto inferire a questo livello basandomi su dati riportati.
Anche tenuto presente il fatto che si tratta di popolazioni entrambe dichiaratamente estranee al messaggio di perdono e consapevolezza cosmica portato dal Cristo.
A mio modo di vedere, per bilanciare la propria posizione nel rapporto di civiltà, gli Ebrei avrebbero dovuto ricolonizzare Israele con lo spirito dei martiri cristiani e di quelli mormoni. Personalmente sono convinto che questo sarebbe stato più efficace, avrebbe avuto un costo di martirio molto più basso e forse oggi l' “Arabia Felix” rifiorirebbe sulla sponda meridionale del mare Mediterraneo.
Purtroppo però nemmeno il messaggio portato in persona da Gesù riuscì a passare le orecchie di Sion, mentre in quelle arabe risuona appena come eco lontana e fantasmagorica.

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