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Marlene Dumas: la violenza della vita, tra verità e sospetti -  
di Lucilio Vianello - inviato il 13/07/2003
Ci sono stato una domenica mattina, entrando nella casa deserta come si entra in una vera casa altrui, con rispetto e circospezione, quasi battendo i piedi sullo zerbino e chiedendo permesso.Palazzetto Tito, con i suoi ambienti vissuti, i suoi pavimenti di legno a spina di pesce, i comodi divani, il caminetto, le quiete finestre aperte sul giardino e sul Rio di San Barnaba e la Terza di Brahms nell’aria.C’ero già stato, all’inaugurazione, ma, come spesso succede, è difficile concentrarsi veramente ad un evento mondano, soprattutto ad uno affollato come l’apertura della prima mostra personale in Italia dell’artista sudafricana Marlene Dumas alla Fondazione Bevilacqua La Masa.Sono tornato per ritrovare con calma la suggestione dei tratti violenti, le pennellate spesse di colore puro, verde smeraldo, bianco abbagliante come la fronte alta e spianata, insopportabile da guardare de “La Morte dell’Autore” (The Death of the Author, 2003), corpi che in qualche maniera sembrano feriti, raccontano storie dolorose e violente.Anche nei soggetti più intensamente erotici (o sfacciatamente pornografici, a seconda dell’osservatore) si avverte una sorta di violenza, una specie di urgenza come in “Fingers” (1999) dai gelidi riflessi blu cobalto e acquamarina e “After Fingers” (1999) inchiostro su carta.Durezza anche nelle parole dei testi che accompagnano i disegni nella stanzetta “nascosta” su per le scale (l’Artista si è trattenuta per un certo periodo presso la Fondazione e ha esposto le opere seguendo la disposizione delle stanze, facendosi quasi condizionare dalla casa).Paradossalmente i soggetti dove la brutalità è mostrata più esplicitamente (la serie Imaginary con le sue impiccagioni), sono quelle che meno mi impressionano, quasi i soggetti mi paiono dei “pupi”, burattini non veri, nature morte come “Grouse” (2002)Dappertutto corpi che le didascalie descrivono come morti, ma che escono dai quadri venendomi incontro come volessero imporsi alla mia attenzione, raccontarmi delle storie, storie di vita e di sofferenza.Cosa racconta ad esempio la “Mano” (2002) abbandonata, scomposta, quasi schiacciata da non si sa quale avversità?Cosa dicono le sindoni della serie “After 2003” emergendo dal cartoncino nelle loro tonalità di grigio, nero e marrone, mi parlano di vita o di morte?E come non essere attratti dal corpo della donna in “Mist” (2000), che potrebbe essere morto, ma che forse non lo è, forse è solo sfinito dalla troppa vita, disfatto da un eccesso di piacere.Magari si tratta proprio di questo, la sofferenza del vivere e la violenza della vita, la transitorietà del piacere che tuttavia rimane una “verità” tra le menzogne, come sembra suggerire anche “Measuring your own Grave”.La vita, la morte, il piacere, come in un film noir “Suspect” (1999) vi lascerà con la sensazione inquietante che nulla è mai come sembra.E se sarete fortunati come me, a Palazzo Tito vi capiterà di incontrare il “padrone di casa”, un pigro gattone (o gattona?) bianco e nero che vi seguirà passo passo nella vostra osservazione, facendovi sentire di volta in volta sorvegliati molto speciali e complici nello sguardo sull’ arte di Marlene Dumas.Fondazione Bevilacqua La MasaPalazzetto Tito San Barnaba, VeneziaMARLENE DUMAS – SUSPECTFino al 25 settembre 2003

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