West Bengala dal treno

di Umberto Sartory

 

Delhi ci offre un cielo opaco dietro cui arde un Sole impietoso. Percorrendo la citta in moto l'aria passa da molto calda nelle zone alberate e ombrose a torrida tra le case e nelle aree brulle. Il calore diventa parossistico in un lungo raccordo autostradale imboccato per errore. La sensazione è quella di guidare contro il getto di un asciugacapelli.

La notte dormo al ritmo dei blackout. AC on AC off. Con Patrizia beviamo birra Kingfisher a litri, tra le occhiate in tralice dei camerieri, che la vedono piú o meno come noi lo champagne, ma con molta maggiore morbositá, dato che a loro è proibita per religione e metabolismo. Sembrano generalmente delusi a non vederci fare cose da ubriachi.


Sono in treno da sette ore, ormai è notte, Trovo finalmente una porta aperta e vedo sfilare Jalalabad, interminabile sequenza di cubicoli e strade affollate. Attraversiamo la stazione a passo d'uomo e due bambini saltano sul predellino per chiedermi l'elemosina. Un gioco che fanno ridendo e che a me fa sudare freddo.

Non se ne parla di sedere sulla porta aperta: questo è il Rajadani Express, e corre con tutta la fretta che ha l'India di modernizzarsi.
Corre sgangheratamente, rolla beccheggia e barcolla ma corre. Direi che raggiunge forse i 100 km orari, che per i binari indiani sono una velocità da brivido.
Corre troppo per la pianura indogangetica, assorta com'è nella sua ipnosi calda di monsone. Troppo per i bufali e gli aironi guardabuoi; questa corsa mi priva delle figure icastiche stagliate sulla sterminatezza del paesaggio, dei sari accesi nel contrasto delle risaie.

Abituato a treni da cui si poteva scendere e risalire in corsa senza pericolo, dai quali si potevano scambiare saluti con i passanti lungo i binari, sono a disagio in questo serpente impazzito che tritura la poesia del paesaggio, che polverizza i templi rurali e non si ferma mai. Niente soste imprecise e impreviste, niente affollamento, gli steward servono il cibo con le mani dentro sacchetti di nylon. Il Governo ha promesso di portarci a New Jalpaiguri in 21 ore anziché 36 e sembra intenzionato a mantenere.

Cosa sará dell'India quando avrà troppa fretta per le sue devozioni? Me lo chiedo da quando, sbarcato a Delhi, ho sentito che la città ha cambiato odore. In tre giorni nessuno ha cercato di dipingerci una tikka in fronte o venderci una ghirlanda, ma ci sono molti più modelli di auto e moto in circolazione: Ambassador ed Enfield cominciano a scarseggiare.
Bajaj produce le Freedom e le Pulsar 150cc; Yamaha, Honda e Kawasaki alzano i limiti di velocità e il municipio deve affiggere cartelli che chiedono: 'HERO OR ZERO?'. 150 all'ora e la ripresa di una moto giapponese mal si adattano a un traffico estremamente composito e misto di trazioni meccaniche, animali e umane, senza chiare delimitazioni tra pedoni, bestie e veicoli, dove l'unica regola è: 'Se cè un buco mi ci ficco io, ammenocché tu non ci abbia già infilato la ruota, il piede, lo zoccolo o le corna'. Acrobazie di guida fra umani che portano enormi fardelli in testa, autocarri che si spingono nei carrugi pullulanti di risciò e lambrette. "Hero or zero?". Il modello "Hero" della Honda deve aver fatto non poche vittime, per suggerire questo calembour.

Durante la notte nella mia cuccetta sogno un terremoto interminabile che scuote Venezia e io che prego la Madonna di farlo finire e di tenere insieme le nostre pietre malandate. Mi sveglio alle 8 nel moto squassante del treno con un sospiro di sollievo.

Siamo ormai nel West Bengala, o forse nel Bihar, comunque un'altra immensita', lussureggiante e intrisa d'acqua invece che di caldo. Il treno rallenta notevolmente l'andatura e ferma piu' spesso in piccole stazioni affollate, come i terrapieni della linea ferroviaria, dai rifugiati dall'esondazione del Brahamaputra e di chissa' quali altri fiumi, che allaga il paesaggio.
Uomini e animali si accampano sugli argini e operosamente contemplano il fiume che benedice le loro terre e le loro case con i doni annuali. Questa non e' alluvione, ma danza di fertilita' fra la terra e l'acqua, cui gli uomini e le donne accudiscono sacerdotalmente.

Argini, strade ed emersioni sono fragili e basse, la linea di demarcazione tra felicita' e tragedia sta in pochi centimetri di acqua in piu', in un metro di argine libero o spazzato. Quest'anno il monsone sembra buono, ci sono molte isole emerse, si pesca, si pascolano animali, si traffica lungo le linee di comunicazione affioranti, si va a scuola. Noi passiamo col treno, e tutta quell'acqua frena anche il Rajadani Express, posso stare sullo sportello aperto e fotografare.

Da New Jaipalguri a Darjeeling la strada arrampica colline affilatissime, snodandosi allacciata alle minuscole rotaie del Toy Train come in un interminabile caduceo. 1600 "passaggi a livello" incustoditi, o giu' di li'. Su quasi ciascuno la jeep Mahindra deve fermarsi e passare in prima per attutire i sobbalzi. Entrambe le carreggiate, ma soprattutto quella ferroviaria, sembrano disegnate da un modellista fanatico delle splines. Le quali, comunque, riescono a portare trenino e automobili su per crinali di terriccio pressoche' verticali.

Darjeeling, come tutto da queste parti, e' costruita a terrazze su una serie di sponde cosi' ripide da dare il paradosso di ingressi a pianoterra che sfociano all'altro lato su una vista quasi a strapiombo di 1000 e piu' metri.
Anche lei vittima della smania indiana di occidente, pullula ormai di nuovi edifici in cemento armato, che soppiantano le fatiscenti vestigia coloniali in legno e vetro, vecchie ormai come le piante di te con cui sono nate.

Una piantina di te, simile molto nell'aspetto ai nostri rododendri, e' produttiva per circa cent'anni, e proprio in questi tempi si compie il ciclo secolare di questa pratica a Darjeeling.
Continuera' la voglia di inerpicarsi per il titanico lavoro di sostituire tutte le piantagioni create con il frustino degli Inglesi?
Oppure "Darjeeling Orange Pekoe" diventera' una sigla per miscele di Calcutta, mentre la citta' montana esplodera' nel turismo, sia pure in prevalenza indiano? Il numero di alberghi in Chow Rasta, quartiere centrale, impressiona anche me che sono di Venezia.

Siamo alloggiati nell'ala vecchia dell'Hotel Bellevue, struttura coloniale ormai molto trasandata, ma con una veranda privata e mobili in stile. La vista spazia sulla citta' e sarebbe penso mozzafiato se solo le nubi allentassero la loro morsa fino all'orizzonte degli ottomila.


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