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Toponomastica Veneziana - G
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Gasparo Contarini (Fondamenta).

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Gàmbara o Querini (Calle) alla Carità.
Stendesi in mezzo del palazzo Gambara, da noi descritto nell'articolo antecedente, e d'un altro palazzotto, ove abitava negli ultimi tempi della Repubblica un ramo dei Querini. Per tale famiglia vedi Querini (Campiello ecc.).

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Gesù e Maria (Calle del) a S. Simeon piccolo.
Le sorelle Angela e Lucia Pasqualigo, trasferitesi, insieme ad Antonio loro zio paterno, nell'isola di Candia, colà entrarono nel monastero di Santa Caterina. Reduci dopo alcun tempo a Venezia, fondarono l'anno 1623 in questo punto della città una congregazione di pie donne con annesso oratorio dedicato alla Natività del Signore, e volgarmente al «Gesù e Maria». In seguito, dilatato il convento, abbracciarono la regola di S. Agostino, e nel 1633, ove era l'oratorio, edificarono una chiesa. Papa Innocenzo X approvò il loro istituto con bolla 1° luglio 1647. Nel 1806 queste monache furono concentrate con quelle di S. Andrea. In tempi a noi più vicini, cioè nel 1821, il parroco di S. Cassiano, Domenico Bazzana, introdusse nel convento del Gesù e Maria le monache Servite Eremitane col titolo dell'Addolorata, le quali lo occupano tuttora.

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Ghetto Novissimo (Ponte, Calle del) ai SS. Ermagora e Fortunato.
Vedi Ghetto Vecchio.

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Ghetto Nuovo (Ponte, Calle del) a S. Girolamo.
Vedi Ghetto Vecchio.

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Ghetto Vecchio e Ghetto Nuovo (Ponte di) a S. Girolamo.
Questo Ponte è così denominato perché sta fra il «Ghetto Vecchio», ed il «Ghetto Nuovo», unendoli insieme.

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Ghetto Vecchio a S. Geremia.
Qui si stendeva anticamente un tratto di terreno, chiamato il «getto», o il «ghetto», perché, come scrive il Temanza nelle Illustrazioni all'«Antica Pianta di Venezia», era la sede delle pubbliche fonderie, ove si gettavano le bombarde, e del magistrato presidente alle stesse. Tali fonderie esistevano fino dal secolo XIV, leggendosi in una «Parte» del 29 maggio 1306: «Cum tempore quo diminuta fuerunt salaria, fuisset diminutum salarium Nicolao Aymo qui est officialis ad Ghettum» ecc. Avevano cessato d'esistere però nei primordii del secolo XV, poiché nel 1458 un Gasparino De Lon, avente l'età di 50 anni, citato come testimonio in una contesa giurisdizionale fra il parroco di S. Geremia, e quello dei SS. Ermagora e Fortunato, dopo aver detto che il luogo «ideo vocabatur el getto quia erant ibi ultra duodecim fornaces, et ibi fundebatur aes», soggiunse che si ricordava d'aver veduto quelle fonderie nella sua puerizia, e che «erant deputati tres domini ad eundem locum et offitium, prout sunt ad alia offitia, et erant scribanus et alii officiales, et vivebant centum personae quodammodo ex illo offitio». Dal documento medesimo si rileva che il «ghetto» era chiuso tutto all'intorno, e che, per mezzo d'una porticella, e d'un piccolo ponte attraversante il rivo, passavasi ad un terreno vicino, ove solevansi accumulare le macerie delle fornaci. Anche questo secondo riparto, o per la vicinanza al primo, o perché là pure si fossero in seguito stabilite alcune fonderie, si disse il ghetto, ed ebbe l'aggiunta di «nuovo» affine di contraddistinguerlo dall'altro, che prese il nome di «vecchio». Perciò il Sabellico circa il 1490 così scrisse : «... sublicium... Hieremiae pontem revise, ubi cum trascenderis, ad laevam flectito. Hic subito dextera occurrit aerificina vetus, patrio sermone jactum vocant, locus hodie magna ex parte dirutus. Ex ea insula in campum undique aedificiis clausum ponte trascenditur. Est is undique ut insula circumfluus; recentiorem jactum nominant. Tenuis rivus Hieronymi aram inde dividit». Tanto il «Ghetto Vecchio», che il «Nuovo» si destinarono nel 1516 per abitazione agli Ebrei, ed essendo stata Venezia forse la prima città a voler divisi gli Ebrei dai Cristiani, od almeno trovandosi gli Ebrei più numerosi a Venezia che altrove, il nome «Ghetto» divenne celebre così da passare a tutti gli altri luoghi di terraferma, e degli altri stati eziandio, ove i figli d'Israello vennero costretti ad abitare insieme. Ai medesimi poi nel secolo XVII si concesse un terzo riparto prossimo agli altri due, il quale, usandosi già la voce «ghetto» ad indicare un luogo destinato a soggiorno degli Ebrei, assunse la denominazione di «Ghetto Novissimo».

Esposta così la vera etimologia della voce suddetta, che alcuni erroneamente vogliono derivare dal caldeo «ghet» (gregge) oppure dall'ebraico «nghedad», e siriaco «nghetto» (congregazione, sinagoga) diremo due parole sulle vicende dell'Ebraica nazione in Venezia.

Si conosce dal Gallicciolli che fino dal 1152 aveva stanza fra noi. Probabilmente da principio abitava alla Giudecca. Nel secolo XIV, abusando dell'usure, venne confinata nella terra di Mestre. In seguito richiamossi, ma con condotta limitata ad un numero determinato d'anni, la quale, mediante l'oro sborsato al Governo, di tempo in tempo rinnovavasi. Gli Ebrei nel 1534 costituirono un'Università, composta di tre nazioni, denominate Levantina, Ponentina, e Tedesca, a cui nel 1722 si preposero gli «Inquisitori sopra l'Università». Anticamente erano soggetti a rigorisissime discipline. Dovevano portare un segnale che li distinguesse dai Cristiani, e questo consisteva ora in una O di tela gialla, ora in una berretta gialla, ora in un cappello coperto di rosso. Sorpreso un Ebreo a giacere con una donna cristiana, se quella fosse stata meretrice, pagava, per legge 19 luglio 1429, cinquecento lire, e rimaneva prigione per sei mesi; se non fosse stata donna di partito, stava in carcere per un anno, e pagava parimenti lire cinquecento. Non potevano gli Ebrei esercitare alcun'arte nobile, eccetto la medicina, e nemmeno alcun'arte manuale. Era ad essi severamente vietato da principio di acquistare case, od altri possessi. Dovevano finalmente, come abbiamo riferito, abitare nel «Ghetto», le cui porte venivano chiuse dal tramonto al levare del sole, essendovi guardie e barche armate all'intorno per impedire ogni contravvenzione.

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Giacinto Gallina (Calle) ai SS. Giovanni e Paolo.

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Giardini Pubblici.
Vedi Garibaldi.

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Gradenigo (Fondamenta) a S. Simeon Grande.
Il palazzo Gradenigo è della scuola del Massari. Adiacente al medesimo stendesi ampio giardino, intorno al quale si può girare in carrozza a quattro cavalli, come praticavasi fino allo spirare del secolo trascorso. In esso si diede una caccia di tori il 10 febbraio 1767 M. V.

La patrizia famiglia Gradenigo è originaria dalla Transilvania, ove teneva posto qualificato, e signoreggiava ampie possessioni, ma, esclusa per ire di parte, trasferissi in Aquileja, e vi dimorò fino alla distruzione di quella città. Allora, come vogliono alcuni, andò ad edificare Grado, da cui in seguito passò a Venezia. Vanta un Giovanni, che seguì nella fuga il doge Pietro Orseolo, suo suocero, e che, vestito l'abito di S. Benedetto, morì nel 1016 a Montecassino in odore di santità. Vanta pure, in mezzo a molti patriarchi, vescovi, generali, senatori ecc., tre dogi, fra i quali Pietro fece adottare nel 1297 la famosa legge che riformò l'antica costituzione veneta, sostituendo all'originaria democrazia l'aristocrazia ereditaria. Questo doge domò eziandio la ribellione di Baiamonte Tiepolo, e morì nel 1311 avendo sepoltura in chiesa di S. Cipriano di Murano, fondata nel 1108 dalla di lui famiglia, e juspatronato della medesima.

Un'altra linea dei Gradenigo diede il nome ad un «Ramo» e ad una «Corte» situati a S. Giustina. Alla linea da S. Giustina si riferisce il seguente racconto, che trascriviamo dal codice 183, Classe VII della Marciana: «16... Girolamo Gradenigo q. Pietro q. Tadio da S. Giustina era fatto dalla famiglia Ab. di S. Cipriano. Gli fu consegnata e raccomandata dal duca di Mantova la cantatrice D... che cantava nel teatro di S. Moisè, poi a S. Luca, e innamoratosi fornicò seco, et s'accordò seco, il che venuto all'orecchio del Duca, lo perseguitò talmente che, abbenchè fuggito a Trento per andar in Germania con la donna, gli convenne tornar a dietro, e, per quanto hanno operato li fratelli, non è mai stato possibile placar il duca, che ha voluto che vada ai suoi piedi a chiedergli perdono, e sposarla in sua presenza, che indegnamente lo eseguì, et anzi con fasto e vanità la conduce in tutti li ricreamenti, abbenchè per questo sia fuori della sua casa, e membro reciso colla sua parte fuori di casa».

Il palazzo Gradenigo a S. Giustina, la cui fabbrica attuale data dal secolo XVII, era celebre per ricca biblioteca di stampati e di manoscritti, alcuni dei quali compilati nel secolo trascorso da Pietro Gradenigo, nonché pel museo di monete e di medaglie, formato specialmente a cura di Giacomo Gradenigo q. Girolamo, che fu Provveditore generale in Dalmazia, morto nel 1795, e del di lui fratello Gian Agostino, vescovo di Ceneda. Qui soggiornò ai nostri tempi l'arciduca d'Austria Federico.

Il Cicogna nelle sue schede manoscritte riporta il seguente avanzo d'iscrizione che lesse sui muri del palazzo medesimo: Danieli Gra... Et Cap.

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Gradenigo (Rami) detti Chioverette a San Simeon Grande.
Sono dietro il palazzo Gradenigo, rammentato nel principio dell'articolo precedente. Sappiamo poi dalla Descrizione della contrada pel 1713 che «Nardo Biasin» teneva a pigione in questo sito le «chiovere con tre casette e due casotti del N. U. Bortolo Gradenigo». Pel nome «Chioverette» vedi Chioverette (Calle delle).

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Grande (Canale).
E' detto anche «Canalazzo», e divide in due parti Venezia. Alcuni trovano nella sua tortuosità un indizio che esso fosse l'alveo di qualche grosso fiume. Varie volte venne scavato, e nel 1433 si ordinò che fossero tolti tutti gli «squeri» da S. Marco a S. Croce, i quali ne pregiudicavano il corso. Un documento che il Gallicciolli attribuisce al secolo XV, o XVI, ricorda che le finestre, o balconi, posti sopra questo canale erano 18619. Filippo de Commines, ambasciatore di Carlo VIII, venuto nel 1495 a Venezia, parlando del «Canal Grande», così ebbe ad esprimersi: «C'est la plus belle rue que je croy qui soit en tout le monde, et la mieulx maisonnée... Les maisons sont fort grandes et haultes et de bonnes pierres et, les anciennes, toutes painctes; les aultres, faictes depuis cents ans, toutes ont le devant de marbre blanc, qui leur vient d'Istrie, à cent miles de là, et encores maincte grande pièce de porphire et de sarpentine sur le devant». Ed a ragione il Fontana, nel «Manuale ad uso del Forestiere in Venezia», scrive: «E' una via questa veramente trionfale, una magica scena, un panoramico incanto, un olimpico spazio per quattro miglia dischiuso all'animose gare del remo, un teatro dell'arti per le sublimi opere d'architettura che lungo le sue sponde ne formano, a così dire, le decorazioni con scialacquo di marmi, e con squisitezza di gusto».

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Grande (Corte, Ramo Corte, Corte Seconda, Ramo Corte Seconda) alla Giudecca.
Sì l'una che l'altra di queste Corti è così detta per la sua ampiezza, e da esse presero il nome i Rami vicini. Altri invece sostengono che esse Corti fossero così appellate dalla cittadinesca famiglia Fugacci detta Grandi. Sappiamo infatti che i tre fratelli Antonio, G. Domenico, e Giorgio, figli dell'avvocato Marco Grandi e di Cecilia Albanesi, i quali ottennero nel 1634 l'approvazione alla cittadinanza originaria veneziana, erano nati nelle loro case situate «sulle corti grandi in cao la Zueca».

Nelle «Corti Grandi» alla Giudecca si solevano ai tempi della Repubblica celebrare più fiate le così dette Cacce dei Tori. Vedi Cicogna, «Inscr. Ven.», III. Questo divertimento, che, come abbiamo veduto, davasi anche in molti «Campi», ed altri luoghi spaziosi della città, è così descritto nel «Lessico Veneto» del Mutinelli: «Appeso nel campo un ornato pallone a segno della festa, bastava questo per divulgarne l'annunzio; intanto le famiglie agiate dimoranti sul campo mandavano inviti agli amici, le povere appigionavano le finestre, ed intorno al campo s'innalzavano gradinate di legno. Così disposte le cose, giunto il giorno, e il momento della festa, comparivano a suon di tromba nello stecconato i tori condotti da macellai e da Cortesani, che dicevansi Tiratori, i quali bellamente portavano brache di velluto nero, e giubboncello di scarlatto, con berretto rosso in capo, se fossero stati della fazione Castellana, nero, se avessero appartenuto alla Nicolotta. Fatto dai Tiratori col bove un giro per il campo, e venendosi poscia alla prima slanciata, cominciava allora una fierissima lotta tra il bove ed i molti cani che si aizzavano, perocché devesi sapere come i popolani e specialmente i Cortesani, due o tre per ciascheduno, possedessero di quegli alani per boria e per diligentemente educarli a quella caccia. Consisteva per tanto quella festa di sangue nella destrezza dei cani a ferire, ed in quella dei bovi a difendersi, laonde i fiati degli spettatori andavano a sprecarsi per far plauso alla virtù di sole bestie. L'ultima domenica di carnovale davasi una caccia di tori affatto sciolti anche nella corte del Palazzo Ducale, e questa fu istituita per sollazzo delle damigelle della dogaressa incoronata; ma quantunque non sempre il doge avesse moglie, e non sempre la moglie fosse stata incoronata a principessa, tuttavia la caccia aveva luogo in ciaschedun anno con grande numero di spettatori. In occasione di venute di principi si davano straordinariamente queste cacce nella Piazza di S. Marco».

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Gritti e Martinengo (Fondamenta) ai SS. Ermagora e Fortunato.
Sopra questa Fondamenta, che dà sul «Canal Grande», sorge il palazzo Gritti coll'arma della famiglia scolpita sulla facciata, susseguito dal palazzo Martinengo, un tempo Memmo. Ambidue appartengono allo stile della decadenza. Dei Gritti abbiamo detto nell'articolo antecedente; ora diremo alcun che dei Martinengo. Se ne assegna a capostipite un Teobaldo, favorito dell'imperatore Ottone I, che lo fece suo vicario, e gli donò nel 953 quindici castella nel territorio bresciano, ove un Leonardo, nipote di Teobaldo, edificò il castello di Martinengo. Questa famiglia, che signoreggiò pure Brescia e Ventimiglia, venne accolta nel grembo dei veneziani patrizii con quadruplice aggregazione. Il primo graziato fu nel 1448 un «Antonio q. Zuane», condottiere della Repubblica nella guerra contro i Milanesi; il secondo, un «Giacomo q. Marco» nel 1449, condottiere pur esso ai medesimi stipendi; il terzo, un «Z. Maria q. Francesco» nel 1499, che nella battaglia di Ghiara d'Adda cadde ricoperto di ferite, combattendo sotto il vessillo di S. Marco; il quarto finalmente un «Z. Batt. q. Federico» che, insieme al fratello Paolo, offrì nel 1689 i soliti 100 mila ducati per la guerra di Candia. Altri famosi guerrieri, specialmente nelle linee non ammesse al veneto patriziato, produsse la famiglia Martinengo. Il palazzo che questa famiglia possedeva ai Ss. Ermagora e Fortunato comperossi nel 1886 dal cav. Luigi Mandelli, che lo fece restaurare, riformandone la facciata lungo il Campo.

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Gustavo Modena (Calle) a S. Giovanni Grisostomo.

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Gabriela (Corte) alla Bragola.
Il sovrastante palazzo che guarda la «Riva degli Schiavoni», apparteneva alla patrizia famiglia Gabrieli, ed ha tuttora sul prospetto la figura dell'arcangelo Gabriele con sotto lo stemma della famiglia proprietaria. L'arcangelo e questo stemma scorgonsi pure ripetutamente scolpiti sopra il bel pozzo della Corte. I Gabrieli vennero da Gubbio, nell'Umbria, e, rimasti del Consiglio nel 1297, abitavano alla Bragola fino dal 1379, anno nel quale «Zanin» e «Zaccaria Gabrieli» di quella parrocchia facevano fazione all'estimo del comune. Bellissima fama lasciò di sé Trifon Gabrieli, soprannominato il Socrate Veneziano. Egli nacque nel 1470 e cominciò molto giovane ad aver parte nelle pubbliche magistrature, le quali tuttavia abbandonò ben presto per abbracciare il sacerdozio. Benché fosse stato proposto a patriarca di Venezia, ed a vescovo di Trevigi, mai non ambì gli onori ecclesiastici, compiacendosi di vivere ritirato, e di passare buona parte dell'anno nelle sue ville del Bassanese e del Padovano, nonché in Murano, ove accoglieva studiosi, ed amici letterati, con cui era solito di leggere i classici, sponendone verbalmente le bellezze. Supplì pure colle sue lezioni alla chiusura dell'Università di Padova al tempo della lega di Cambrai, ma poco curossi di pubblicare i suoi scritti. Venne a morte in età di ottanta anni «piuttosto da digiuno che da febbre», come, alludendo alla di lui grande frugalità, scrisse Pietro Aretino.

Scrive il Sanudo in data 11 agosto 1509 che Angelo Gabriel q. Silvestro, il quale fu all'impresa di Serravalle e di Cividale, mandò a Venezia una «barca di cuoro assai larga», che fu ritrovata a Cividale, e che, con varie altre, era stata fabbricata dai Tedeschi all'epoca della lega di Cambrai per venire a Venezia, «la qual barca stete molti zorni in cha Gabriel sora Canal Grando a S. Zuane in Bragora; poi, di hordine di la Signoria, fo portà in l'arsenal dove è al presente».

Rilevasi avere il Senato il 18 giugno 1585 prescritto che dietro privilegio 5 marzo 1248, i «nobili di ca' Gabriel et eredi» non potessero «essere molestati per scavatione dei canali pei loro stabili posti in confin de S. Zuane in Bragola sopra la Fondamenta che discorre da S. Marco a Castello», e che si commettesse ai Provveditori di Comune, non ostante la parte 5 marzo 1582 in proposito «dil cavar li rii di questa città», di considerare esenti da ogni contribuzione «li N. U. Gabrieli e consorti di ca' Gabrieli» in simile argomento.

Dalla famiglia Gabrieli, che produsse pure alcuni vescovi, e che si estinse nel 1805, denominossi un'altra strada presso la «Calle della Testa» ai SS. Giovanni e Paolo, avendo questa famiglia posseduto colà altri stabili, nei quali l'anno 1579 si voleva concentrare i Turchi. Vedi Fontego dei Turchi (Salizzada del). Alla famiglia medesima, e precisamente a Zaccaria Gabriel q. Giacomo, fu cessa nel giorno 3 agosto 1515 dai padri dei SS. Giovanni e Paolo la cappella della B. V. della Pace, che presso la loro chiesa esisteva.

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Galeazza (Ramo Primo Calle, Ramo Secondo Calle, Calle della) a Rialto.
Non della «Galeazza», ma «della Galia» erano appellate anticamente queste località, le quali sboccano in «Ruga Vecchia» a S. Giovanni di Rialto, tratto di strada, che, al pari dell'altro presso la chiesa di S. Giacomo, chiamavasi un tempo «Ruga dei Oresi», o degli Orefici. Constando poi dalle Condizioni del 1566, che in «Ruga dei Oresi» a Rialto aveva bottega da orefice «Marco dalla Galia» (cioè all'insegna della «Galia», o Galea), non ci sembra fuori di ragione il credere che da ciò traessero origine le denominazioni in discorso.

Presso il «Campo di S. Bartolammeo» havvi un'altra «Calle della Galeazza», negli Estimi del «Galiazzo». Denominossi forse da quel «Galiazzo fruttarol», che nel medesimo anno 1566 troviamo domiciliato presso il «Campo di S. Bartolammeo». Anche nei Necrologi Sanitarii: «Adì 1 feb. 1565. Zuan Paulo fio de s. Galeazzo fruttariol, zorni 15 in c.a da sp.mi S. Bort.o».

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Galizzi.
Vedi Gallizzi.

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Gallicciolli (Ponte).
Vedi Morti (Ponte dei) a S. Cassiano.

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Gallina.
Vedi Giacinto Gallina.

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Galliòn (Ramo Primo, Ramo Secondo, Ramo Terzo, Ramo Quarto, Ramo Quinto) a S. Giacomo dall'Orio.
Nulla si sa, dice il Gallicciolli, circa l'origine di questo nome, confessando di non trovarlo nelle cronache. Esso, come sembra, non è molto antico, poiché anche nei catasti comparisce alquanto tardi. Suppongono alcuni che qui si abbia fabbricato qualche grossa galea, o «galeone», oppure che così si dicesse la vasta unione di casacce qui poste per certa somiglianza ad una galera grandiosa, ove molti e molti stanno rinchiusi, e stipati. Siccome però i catasti fanno menzione del «magazen del Galion» a S. Giacomo dall'Orio, potrebbe essere che un prossimo spaccio da vino avesse questa insegna, e quindi derivasse il nome alle vie.

In «Galion» a S. Giacomo dall'Orio scoppiò il 5 settembre 1771 nelle prime ore della notte un incendio nella casa d'un conciapelli, con abbruciamento delle case vicine, che appartenevano alla Scuola di S. Giovanni Evangelista.

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Gallipoli (Calle stretta di) ai Frari.
Chiamasi anche «Stretto di Gallipoli» per la strettissima sua imboccatura. «Gallipoli», secondo il Gallicciolli, è nome formato da «ca'» (casa) e «Lipoli», famiglia che qui teneva domicilio. Altri vogliono che questo luogo sia stato così appellato per ischerzo dal popolo veneziano, il quale nei tempi di gran commercio era solito d'udir nominare assai spesso lo Stretto di Gallipoli, o dei Dardanelli, per cui andavano le nostre navi a spargere le ricche merci dell'Asia a Costantinopoli e nel Mar Nero.

All'estremità di questa Calle dicesi aver abitato Tiziano Vecellio in una casa, l'area della quale è ora ridotta ad orto col N.A. 3024. Convien dire però che ciò accadesse prima del 1531, mentre da quell'epoca in poi, fino al giorno della sua morte, Tiziano abitò in «Birri» a S. Canziano. Vedi Tiziano (Campo di).

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Gallizzi (Sottoportico, Calle) a S. Silvestro.
Un «Osvaldo Galizi» abitava, ed aveva bottega da olio in questo sito nel 1740. Egli nel 2 decembre 1749 venne citato all'«Avogaria di Comune» qual testimonio di Caterina Zanchi, che chiedeva d'essere abilitata, maritandosi con un nobile Veneto, a procrear figli capaci del Maggior Consiglio. Nel processo relativo troviamo le indicazioni seguenti circa la persona del Gallizzi: «Osvaldo Ant.o Galizi q. Piero, nativo di Berg.mo, dice d'essere 40 anni che abita in q.sta città; abita a S. Silvestro, ha bottega da olio e biave in d.ta contrà». Pietro di lui figlio, che forse è quel «Pietro Galizzi» da «S. Silvestro», annoverato nella «Minerva Veneta» pell'anno 1785 fra i sensali della nostra piazza, comperò il 30 decembre 1791 dalla famiglia Todeschini uno stabile, situato «a S. Silvestro sulla fondamenta», mentre prima la di lui famiglia non aveva casa propria in detta contrada.

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Gallo (Corte e Rami, Ramo del) al «Malcanton».
Credesi che queste strade, situate nell'antico circondario di S. Margherita, debbano il loro nome ad una famiglia Gallo, che in quella parrocchia abitava nel principio del secolo XVI.

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Gambara (Campiello, Calle) alla Carità.
Nobilissima per antichità di titoli fu la famiglia Gàmbara in Germania, dalla qual regione passò a Brescia. Ebbe quattro cardinali, e quella Veronica distinta poetessa, e sposa d'un signore di Correggio, morta nel 1550. Il conte Francesco Gambara, insieme ai fratelli e discendenti, fu ammesso all'aula degli ottimati Veneziani nel 1653. Né tale ammissione ottenne, come tante altre famiglie, pel solo esborso dei 100 mila ducati, poiché il conte Nicolò Gambara aveva mantenuto nel 1571 a favore dei Veneziani un reggimento contro i Turchi, esempio imitato poscia nel Friuli dai conti Gian Francesco ed Annibale. Questa famiglia inoltre erasi mostrata benemerita della Repubblica negli anfratti colla Corte Romana nel 1605. I Gambara acquistarono il palazzo della Carità dai Mocenigo in virtù del matrimonio, successo nel 1678, fra Eleonora Gambara e Francesco Mocenigo. Ne parla il Boschini («Le ricche minere della pittura veneziana»), dicendo che dopo la Carità «si arriva alla casa Mocenigo, dalla quale uscì quel memorabile e glorioso capitano di mare Lazzaro Mocenigo. Il cortile della casa è dipinto da una parte dal Pordenone, dove si vedono diverse figure, tra le quali vi è un huomo vestito all'antica di gran colorito: evvi anche il Tempo et Amore sopra una palla con l'arco et la saetta».

Ricorda il Sanudo all'anno 1514, 20 febbraio M.V., che in quel giorno, ultimo di carnovale, si recitò una commedia di Plauto «dai fioli di Lazzaro Mocenigo a casa soa alla Carità».

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Garibaldi (Strada) a Castello.
Dopo l'entrata delle truppe italiane a Venezia, avvenuta nel 1866, si volle decorare questa strada col nome del generale Giuseppe Garibaldi.

Essa per lo passato portava il nome di «Strada Nuova dei Giardini» perché mette ai «Pubblici Giardini». Quel «nuova» poi si riferisce all'epoca della sua formazione, come «Ponte Nuovo», «Corte Nuova», «Fondamente Nuove» ecc. Venne costrutta nel 1807, interrato il rivo, che correva fra le due fondamente, ed allora dicevasi anche «Via Eugenia» in onore del Vicerè d'Italia Eugenio Beauharnais. I Giardini Pubblici s'incominciarono a tracciare nel medesimo anno 1807 dietro il decreto dell'imperatore Napoleone, che voleva provveduta la «sua buona città di Venezia» di un pubblico luogo di passeggio. Ad ottenere lo spazio necessario si distrussero la chiesa e il convento di S. Domenico, la chiesa e il convento di S. Nicolò di Bari, lo spedale dei Marinai, la chiesa e il convento della Concezione di M. V. o delle Cappuccine, e la chiesa e il convento di S. Antonio Abate. Il disegno dei Giardini devesi all'architetto Giovanni Antonio Selva. Nel mezzo di essi sorge un magnifico arco, lavoro a quanto credesi, del Sammicheli, che era all'ingresso della cappella Lando nella chiesa di S. Antonio, e che, dopo aver giaciuto per 15 anni in pezzi al suolo, si ricostrusse nel 1822. Più innanzi scorgevasi un capitello di colonna, altro avanzo della chiesa di S. Antonio, sopra il quale è scritto: Frater Çotus Primus Prior, e scolpita l'insegna dell'ordine. Esso ora venne trasportato al Civico Museo. La collinetta, ove s'innalza il Caffè, architettato pur esso dal Selva, si formò a poco a poco colle macerie qui in varie epoche depositate. Era chiamata «Punta di S. Elena» pell'isoletta che le sta di fronte, «Capo Verde» perché tutta coperta di erba, e «Punta», o «Motta di S. Antonio», per la vicina chiesa dedicata a questo santo.

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Garzoni (Calle e Traghetto, Rio) a S. Samuele.
Nel 1289 un «Zuane di Garzoni» venne da Bologna a Venezia, ed all'epoca della guerra di Ferrara tenne pagati 24 militi a favore della Repubblica. Garzone, di lui figlio, ottenne nel 1335 insieme al fratello Bandino, o Baldovino, un privilegio di cittadinanza Veneziana. Avendo poi esso Baldovino acquistato molte benemerenze nella guerra di Chioggia, doveva nel 1381 essere ballottato pel Maggior Consiglio, ma venuto a morte innanzi il giorno della prova, lo furono in quella vece i di lui figli Giovanni e Nicolò, che rimasero approvati. La famiglia Garzoni abitava anticamente in «Campo S. Polo», e fu solo circa alla metà del secolo XVII che divenne proprietaria d'un palazzo a S. Samuele con facciata archiacuta sul «Canal Grande», ove pose residenza. Vanta alcuni vescovi, quel Pietro pubblico istoriografo, che raccolse nel suo palazzo di S. Samuele una ricca biblioteca lodata nei «Viaggi» del p. Coronelli, e quel Girolamo, fratello di Pietro, che nell'infausto assedio di Negroponte (an. 1688) venne colpito da una palla di moschetto nel seno, né cessando per questo di strenuamente combattere, spirò sotto le scimitarre turchesche.

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Garzotti.
Vedi Rio Marin.

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Gatte (Salizzada, Ramo, Campo delle) a San Francesco della Vigna.
«Gatte», secondo il Gallicciolli, è corruzione di «legati», o nunzii apostolici, che, come vuolsi, abitavano presso questa situazione prima d'occupare nel 1585 il palazzo posto quasi di faccia alla chiesa di S. Francesco della Vigna, da ciò poscia detto della «Nunziatura». Avvegnaché il Berlan non si mostri molto soddisfatto dell'addotta etimologia, essa è avvalorata dalla tradizione popolare, e dallo scorgersi che nei catasti le accennate località sono chiamate prima «de legati», poscia «deligati», e finalmente «delle gate», progressivi stadii, come ben si vede, del corrompimento del nome. Leggesi inoltre che Nicolò Franco, poi vescovo di Treviso, legato di Sisto IV nel 1483, stanziava presso quel Campo che divideva la contrada di S. Ternita da quella di S. Antonino, cioè nel «Campo delle Gatte», e che colà pure fece residenza più tardi monsignor Giovanni Della Casa, altro nunzio, od ambasciatore pontificio, presso la Repubblica Veneziana. Questi infatti appose al mandato dell'indice dei libri proibiti, che pubblicò in Venezia, la seguente data: «Venetiis apud sanctum Joannem a Templo, die VII mensis Maij, MDXLIX». E nel processo contro Francesco Spiera troviamo una lettera di Pietro Cauzio, pievano di Cittadella, diretta all'auditore di monsignor Della Casa il 9 gennaio dell'anno medesimo colla soprascritta «in Venetia a S. Giovanni dei Furlani». Tutti sanno poi che la chiesa di San Giovanni del Tempio, detta in seguito di Malta, ed anche comunemente «dei Furlani» per essere posta presso la calle di questo nome, non dista dal «Campo delle Gatte», né ripugna il credere che i legati apostolici risiedessero nell'antico palazzo dei priori di S. Giovanni, rammentato dal Sansovino, l'orto del quale stendevasi e stendesi ancora fino al «Campo delle Gatte».

In «Campo delle Gatte» abitò nel 1796, assai giovane, Ugo Foscolo colla madre vedova, col fratello, e con una sorella.

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Gàffaro (Ponte, Rio, Fondamenta del) ai Tolentini.
Erra il Filiasi («Saggio sull'Antico Commercio» ecc. «dei Veneziani») dicendo che queste strade, soggette un tempo alla parrocchia di S. Croce, presero il nome dall'avervi abitato uno di quei capi degli Arabi, chiamati al Cairo «gaffer», con cui i Veneziani, come gli altri mercatanti europei, solevano, a propria guarentigia, stipulare i contratti. Qui per lo contrario, come ben nota il Gallicciolli, resta memoria d'una famiglia Gàffaro. Tra le epigrafi mortuarie della chiesa dei Carmini, riportate dai raccoglitori, abbiamo la seguente: Sepultura Jacobi Gaffaro De Confinio Sanctae Crucis et Suor. Hered. MD. Die VII Junii. E nel mezzo delle Condizioni della parrocchia di S. Croce (an. 1514) trovasi quella di «Anzola Gaffaro relita de ser Gaffaro», il quale, senza dubbio, è colui che venne sepolto in chiesa dei Carmini. Questa famiglia Gaffaro, come crede il Gallicciolli, è quella che produsse Domenico prima pievano di S. Basso, quindi di S. Nicolò, e finalmente vescovo di Eraclea, il quale nel 1370 venne derubato e ferito alla gola per opera d'un di lui schiavo, ajutato da altri complici. Egli forse morì per le riportate ferite, dicendosi nelle «Raspe» che esse furono fatte «cum periculo vitae», e trovandosi nel 1374 un «Tommasio» seduto sopra la cattedra vescovile d'Eraclea.

Sulla «Fondamenta del Gaffaro» scorgesi una casa, che nel secolo XVI apparteneva ad Andrea Odoni, cittadino veneziano, sopra il prospetto della quale ammiravansi varii affreschi di Girolamo da Trevigi. Questa casa, in cui l'Odoni aveva raccolto gran numero di pitture ed anticaglie, è lodata dall'Aretino nel Libro II delle sue «Lettere». Ai nostri tempi era posseduta dalla contessa Adriana Renier Zanini.

Sulla «Fondamenta del Gaffaro» nacque il 17 gennaio 1789 Emmanuele Cicogna, autore delle «Inscrizioni Veneziane». Lo stabile venne atterrato, meno il piano terreno, che ora ha due magazzini segnati dai N. 3542, 3543. Pel Cicogna vedi Trevisana (Calle).

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Gàmbaro (Calle, Campiello del) in Rialto Nuovo.
«In Rialto Novo» stanziava nel 1661 «Iseppo Rossi hosto al Gambaro», pagando pigione a varii consorti.

Fino dal secolo XV troviamo un'osteria all'insegna del «Gambaro» in Rialto. Un Venturino «hospes in hospitio Gambari in Rivoalto» venne ucciso con più ferite in quel secolo per opera d'un Armano cappellaio tedesco, d'un Angelino, e d'un Leonardo, pur essi tedeschi. Costoro furono condannati in contumacia, con sentenza 25 settembre 1465, a perpetuo bando e, nel caso di contravvenzione, ad avere tagliata la mano destra nel luogo del delitto, e, con essa, secondo il solito, appesa al collo, ad essere condotti frammezzo alle due colonne di S. Marco, e decapitati. Con sentenza contumaciale 7 marzo 1478 furono più tardi banditi, e, qualora fossero stati rinvenuti in Venezia e nello Stato, condannati a morire sulle forche in «Campo delle Beccarie» a Rialto, un Francesco Pincarella, un Giovanni Gallina, ed un Giacomo «ab Azalibus», mezzani d'amore, per aver ferito «cum uno gladio panesco» un Fioravante, ed un Girolamo da Brescia, che, con altri compagni, stavano giuocando alle carte «in hospitio Gambari in Rivoalto», e per aver rubato i danari che stavano sulla tavola da giuoco.

Una «Calle del Gambaro» abbiamo pure presso la «Calle dei Fabbri», così denominata per una bottega da ferro all'insegna del «Gambaro», condotta dalla famiglia Monti, che perciò si diceva «dal Gambaro» ed abitava in un prossimo stabile. Vedi Monti (Calle del).

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Gesuati (Fondamenta delle Zattere ai, Rio Terrà dei).
Essendo arrivati a Venezia alcuni individui della religiosa famiglia fondata in Siena dal beato Giovanni Colombini, fissarono il loro domicilio prima in una casa a S. Giustina, e poscia nel 1392 nel sito di cui parliamo, in un locale che chiamossi «Casa della compagnia dei poveri Gesuati». Nel 1423 coll'elemosine dei fedeli, e coi doni di Francesco Gonzaga, primo marchese di Mantova, innalzarono un chiostro, ed un oratorio dedicato a S. Girolamo. Nel 1493 s'accinsero a trasformare l'oratorio in una chiesa, che, dopo 30 anni durati nella fabbrica, fu consecrata nel 1527 sotto il titolo della Visitazione della Beata Vergine. Soppressi i Gesuati nel 1668, vennero in loro luogo l'anno seguente i padri Domenicani della Congregazione Osservante del beato Giacomo Salomone, e nel 1726, a breve distanza dall'antica, posero la prima pietra d'una nuova chiesa più ampia, intitolata a S. Maria del Rosario, che venne compiuta nel 1743, architetto il Massari, e chiamossi pur essa volgarmente dei Gesuati.

In quel torno fu ricostruito anche il convento, a cui Apostolo Zeno donò la sua biblioteca. Nel 1815 il convento predetto si convertì in orfanotrofio maschile, diretto dai pp. Somaschi, assegnandosi all'uso medesimo l'antica chiesa dei Gesuati, dedicata, come abbiamo detto, alla Visitazione. La chiesa di S. Maria del Rosario si eresse contemporaneamente in parrocchiale, e se ne compose il circondario con quelli delle soppresse parrocchie di S. Vito, S. Agnese, e S. Gregorio, e con qualche frazione di quello dei SS. Gervasio e Protasio.

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Gesuiti (Campo, Rio, Ponte dei).
Nel 1150, ovvero 1155, i padri Crociferi, volgarmente «Crosechieri», coll'aiuto di certo Pietro Gussoni, o Cleto Grausoni, edificarono in questa situazione un monastero, un ospitale, ed un tempio dedicato a S. Maria Assunta, che fu rifabbricato dopo l'incendio del 1214. Passati in commenda tutti i conventi dell'ordine dei Crociferi, questo di S. Maria Assunta fu concesso nel 1464 al cardinale Pietro Barbo, e poi al celebre Bessarione, che morì nel 1472. Frattanto, essendo i Crociferi caduti in una gran rilassatezza di costumi, tentò il Senato presso la S. Sede che fossero espulsi dal loro convento, e vi sottentrassero monache Francescane. Ma né le Francescane, né i canonici regolari di S. Spirito, né i religiosi Serviti, intenti tutti in varie epoche a possedere il convento citato, poterono venire a capo dei loro desiderii. Esso fu preda delle fiamme nel 1514, ed ebbe perciò una rifabbrica. In seguito Pio V ridonò ai Crociferi tutte le rendite delle commende, già confiscate, e li recò nel 1568 a regolare riforma. Essendo però quei padri ricaduti nei loro errori, Innocenzo X soppresse 21 dei loro conventi, lasciandone sussistere soli 4, a capo dei quali costituì questo di Venezia. Anche i quattro superstiti furono finalmente soppressi da Alessandro VII nel 1656 onde assegnarne i beni alla Repubblica, travagliata dalla guerra di Candia. In tale congiuntura i Gesuiti, che nel 1606, per le controversie fra la Repubblica e papa Paolo V, si erano partiti da Venezia, ritornando, acquistarono per cinquantamila ducati il convento dei Crociferi, e nel 1657 vi fissarono domicilio. Essendo la chiesa cadente, si prese nel 1715 a rialzarla dai fondamenti, ed in tre lustri venne compiuta sul disegno di Domenico Rossi. G. Battista Fattoretto innalzò la facciata. Soppressi i Gesuiti nel 1773, il loro convento servì ad uso di pubbliche scuole, e nel 1807 di caserma. La chiesa si mantenne uffiziata come sussidiaria della parrocchia dei SS. Apostoli, fino al 1844, in cui si restituì ai Gesuiti, i quali presero ad abitare un ospizio contiguo verso le «Fondamente Nuove», ove, quantunque in piccolissimo numero, abitano tuttora.

In «Campo dei Gesuiti» esiste l'antichissimo ospedale dei Crociferi, che nel secolo XIII venne beneficato da Bertoldo patriarca d'Aquileja, e dal doge Renier Zeno. Aperto da bel principio a poveri ed infermi d'ambo i sessi, dalla metà del secolo XV esso non ospita che povere donne. L'annesso oratorio, rifabbricato nel 1553, era sacro un tempo alla Beata Vergine, ma nel 1844 fu concesso dalla Direzione della Casa di Ricovero ed Ospizii alla Confraternita dei SS. Filippo e Luigi, laonde presentemente ha questi titolari. Vedi: Bellomo, «Notizie storico-pittoresche dell'Oratorio dei Ss. Filippo Neri e Luigi Gonzaga. Venezia, Molinari, 1846». Questo oratorio si ristaurò nel 1881. Si ritrae dal Verci («Storia degli Ecelini») che nello spedale dei Crociferi venne solennemente giurata la pace il 23 giugno 1221 fra il patriarca Bertoldo, ed i Veneziani.

Nel Campo medesimo facevasi il giuoco del pallone. Abbiamo una tavola, edita da Domenico Lovisa, che rappresenta esso giuoco in tale località, tavola interessante poiché, oltre la facciata della chiesa dei Gesuiti senza statue, vi scorgi la scuola dei «Varoteri» (pellicciai) sorgente in fondo al campo, e l'arco sottoposto per cui si aveva accesso alle «Fondamente Nuove». Il giuoco del pallone venne proibito in «Campo dei Gesuiti» per decreto del Consiglio dei X, 21 aprile 1711.

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Gheltof (Calle) al ponte dell'Aseo.

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Gherardi (Corte) a S. Canciano.

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Gherardini (Fondamenta) a S. Barnaba.
Vedi Girardini.

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Ghiaccio.
Vedi Giazzo.

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Giazzo (Calle del) a S. Lio.
Che qui si vendesse ghiaccio, lo prova il catastico del 1661, ove troviamo un Marco Contarini proprietario d'una casa «in contrà de S. Lio, in calle dove si vende il giazzo».

I caffettieri, come altrove si vide, godevano alcuni privilegi per ottenere, dentro certi limiti, l'appalto del ghiaccio, e quello dell'acquavite.

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Gioachina (Calle, Ramo, Calle) a S. Geremia.
Da una famiglia popolare così cognominata, che v'abitava sul principio del secolo XVII.

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Giovanelli (Sottoportico) a S. Eustachio.
La cittadinesca famiglia Coccina bergamasca, dello stesso sangue dei Salvetti, fattasi ricca col commercio di gioie, fondò in Venezia nel secolo XVI, oltre il palazzo a S. Apollinare, passato poscia nei Tiepolo, un altro pure in questa situazione. Non lo tenne però in sua proprietà per lungo spazio di tempo, imperciocché a mezzo circa il secolo medesimo lo troviamo posseduto dall'altra famiglia cittadinesca Cavalli, e precisamente da un G. Francesco, figlio di Martino, il quale nel 1557 pose tomba a sé e famiglia in chiesa di S. Eustachio, e testò il 16 novembre 1562 in atti del notaio Giuliano Mondo. Morto G. Francesco, Bartolomeo di lui figlio alienò l'edificio, collo strumento 9 agosto 1581, in atti G. Antonio Callegarini, a Luca Antonio Giunta q. G. Maria, disceso da quella celebre famiglia fiorentina venuta fino dal 1482 ad esercitare in Venezia l'arte della stampa. Per varii anni la tipografia Giunta fiorì in queste soglie, finché, avendo Tomaso Giunta q. Luca Antonio, maritato nel 1625 le proprie figlie Lucrezia e Bianca, l'una in Nicolò Foscarini q. Pietro q. Renier da S. Agnese, e l'altra in Renier Foscarini, fratello di Nicolò, ne avvenne che il palazzo di S. Eustachio, unitamente ad altre facoltà dei Giunta, passasse nei Foscarini. A questa linea appartenne il cav. Antonio giustiziato sotto accusa di fellonia nel 1622, e poscia dichiarato innocente. Ma non è possibile, come erroneamente conghietturarono Romanin, Zanotto, ed altri, che qui lo sventurato avesse domicilio, essendone avvenuta la condanna anteriormente all'epoca nella quale la di lui famiglia acquistò la signoria del palazzo. Egli, per quanto risulta da uno de' suoi testamenti, ed altre prove, abitava a S. Agnese in un palazzo attualmente distrutto sulla «Fondamenta Foscarini», ora «Rio Terrà», e ben si pare che gli accennati scrittori fondarono la loro congettura sopra la semplice esistenza del busto e dell'iscrizione d'Antonio nella cappella del Crocefisso della prossima chiesa di S. Eustachio, senza avvedersi che quel busto e quell'iscrizione furono posti più tardi, quando cioè, divenuti i Foscarini proprietari del palazzo, adornarono la cappella medesima con altri cenotafi della loro famiglia, il che, secondo il Cicogna nelle sue schede manoscritte relative all'epigrafi della chiesa di S. Eustachio, successe soltanto dopo l'anno 1711. Fatta questa breve digressione, e ritornando al palazzo, non è da tacersi come il suo cortile venne dipinto da G. Battista Zelotti, e come uno di quegli affreschi, visibile tuttora ma assai danneggiato dal tempo, trovasi lodato nell'opera d'Anton Maria Zanetti col titolo: «Varie pitture a fresco dei principali maestri veneziani». Quest'autore, dopo averci offerto quattro figure dallo Zelotti altrove dipinte, così continua: «Per compiere questo saggio si aggiunse la bella figura che sta a sedere ad una finestra in atto di sonar il leuto, sola rimasa intatta fra le altre che adornavano il cortile di casa Coccina, oggi» (1760) «Foscarini, a S. Eustachio». Aggiunge poi in una nota che quella casa era allora abitata «dai patrizii co. Giovanelli». Infatti noi sappiamo che, fino dal primo giugno 1755, i Giovanelli l'avevano presa a pigione dai Foscarini, ed ecco la ragione per cui «Sottoportico Giovanelli» chiamasi la via presa per tema dell'articolo presente. Non è da tacersi ancora come il palazzo medesimo scorgasi inciso nella raccolta del Coronelli coll'annotazione: «Ha in frequenti occasioni prestato comodo alloggio a gran re e personaggi cospicui». Più tardi, cioè nel 1709, v'abitò anche Federico Cristiano IV re di Danimarca. Né ciò deve recar meraviglia, trattandosi di fabbrica, che, per pregi d'architettura, per vastità di proporzioni, e per ricchezza di marmi, siede non indegna sorella fra le altre fabbriche che torreggiano sopra il «Canal Grande».

La famiglia Giovanelli ebbe nobile origine nella città di Bergamo, ma, avendo provato men prospera sorte nel negoziare, andò in Ungheria, ove attese agli scavi delle miniere, e fu ascritta a quella nobiltà. In seguito, venuta a Venezia, divenne patrizia nel 1668. Si gloria di tre procuratori, del patriarca Federico, e d'altri uomini che ben meritarono della Veneta Repubblica. Ebbe molte onorificenze, così antiche come nuove, dalla casa d'Austria, ed attualmente possede un magnifico palazzo a S. Fosca, pel quale vedi Fiori (Campiello, ecc. dei).

Un «Sottoportico e Corte Giovanelli» abbiamo pure a San Giovanni Decollato, presso le quali località esistevano nel 1713 varii stabili «della commissaria del N. U. Carlo Vincenzo Conte Giovanelli».

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Girardini (Fondamenta) a S. Barnaba.
Non vi ha dubbio che i patrizi Girardini, o Gherardini, abitassero sopra questa Fondamenta, poiché, quando essa venne nuovamente selciata dopo la metà del secolo trascorso, «il N. U. Claudio Girardini» trovavasi fra quelli che dovevano concorrere al «pagamento del grosso per ducato». Ciò si rileva dalla partecipazione fatta ai Provveditori di Comune il 6 aprile 1759 da Agostin Zerletti «deputato alla consegna delle pubbliche strade». Il medesimo Claudio Girardini è annoverato fra i patrizii domiciliati in parrocchia di San Barnaba dall'Anagrafi Sanitaria pell'anno 1761.

Dicono gli storici che si ha memoria della famiglia Girardini fino dall'ottavo secolo, che essa, da Arezzo sua patria, si sparse in varie regioni, e che un colonnello della medesima, diramatosi da Firenze a Verona, e quindi a Venezia, ottenne l'anno 1652 la patrizia nobiltà nella persona del Marchese Bernardino.

Sulla «Fondamenta Girardini» a S. Barnaba esisteva l'ospizio di S. Agnesina e colà tuttora leggesi sopra una porta: Del solo prior di S. Agnese, e sopra un'altra: Del Priorato di S. Agnese. In questo ospizio, diretto dalla scuola di S. Agnese, che raccoglievasi in chiesa di S. Barnaba, ricettavansi fanciulle orfane fino all'età di 20 anni, protraendosi talora il beneficio fino al momento del loro matrimonio, o della loro monacazione. Questo ospizio venne fondato nel secolo XIV da Angelo Condulmer, padre del pontefice Eugenio IV. Ciò si rileva da un brano di lettera riportato dal Cicogna nel volume VI delle «Inscrizioni», e diretta il 24 marzo 1470 da Isabella Barbo, sorella di papa Paolo II, ad un Benedetto suo cappellano in Roma. In questa lettera essa gli raccomanda di provocare dal papa «un'indulgenza de colpa e pena in caxo de morte a cadauna persona che desse elemosina da un ducato in zoxo, over da un ducato in suzo, come meglio potrete fare, e lo spedal de le donzele de S. Agnexe, posto in contrà de S. Barnaba, per soventione de le dete, perché le sue intrade son molto anichilate, avixandove che el deto hospitale fo edificato, et ancor dotato per la bona memoria de mis. Angelo Condulmer, el qual ser Anzolo fo avo nostro, zoè de la S. de N. S. et de tuti nui per esser sta padre de la S. memoria de papa Eugenio».

Dopo la metà del secolo XVII questo ospizio cessò di prestarsi alla sua destinazione, quantunque le sue rendite continuassero a venir amministrate dalla scuola di S. Agnese. Erra poi il Cicogna credendo che Isabella Barbo parli nella sua lettera non di questo, ma d'altro ospizio situato non lungi dalla chiesa di S. Agnese.

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Giudecca.
E' un'isola disgiunta da Venezia mediante un canale che non solo «della Giudecca», o «delle Zattere», ma si trova appellato «Vigano» (da «vicus» borgo, o villaggio, considerandosi la Giudecca rispetto a Venezia come un villaggio, o borgo), e «Carbonaria» (dalle zatte cariche di carbone che v'arrivavano). Quest'isola era detta anticamente «Spinale», o «Spinalonga», secondo alcuni, per la sua figura lunga e ristretta come uno spino di pesce, e secondo altri, pei grandi spinai che in essa vegetavano. Il nome «Giudecca» sembra proveniente dai molti Giudei, od Ebrei, che nei primi tempi vi s'accasarono. Scrive il Battagia nei suoi «Cenni storici e statistici sopra l'isola della Giudecca» che tale opinione è corroborata dall'esservi in Ferrara una contrada egualmente appellata pell'avervi soggiornato gli Ebrei; dal sapersi che alla Giudecca sorgevano due sinagoghe demolite nel secolo scorso, dall'avervisi rinvenuto alcuni anni fa presso le Zitelle una pietra d'un piede quadrato con caratteri Ebraici; finalmente dalla costante tradizione degli isolani che indicano perfino i luoghi dove gli Ebrei abitavano. Contuttociò alcuni fanno invece derivare «Giudecca» dal «giudicato», o sentenza, colla quale, sullo scorcio del secolo IX, si concessero alcuni terreni di Spinalonga alle famiglie dei Barbolani, dei Flabanici, e dei Caloprini, richiamate dall'esiglio, per indennizzarle dei danni sofferti. Dicono che «giudicato» avrassi pronunziato alla Veneziana «zudegà», donde saranno derivate le voci «Zudeca», «Zueca», e finalmente «Giudecca».

La Giudecca stendevasi anticamente dalla punta occidentale di S. Biagio fino al sito ove trovasi il «Ponte Lungo», il quale fu eretto nel 1340 appunto per congiungere l'antico tratto dell'isola con quello che, mediante gl'interramenti, aveasi cominciato a formare verso S. Giorgio fino dal 1252.

Il celebre padre Coronelli diede il disegno d'un ponte che avesse dovuto congiungere l'isola della Giudecca alla città di Venezia, e che si scorge inciso nella raccolta del Gherro in varie cartine bislunghe unite. La proposta è spiegata nel «Libro de' Compari» pubblicato nel MDCCXIV.

Racconta Benedetto Varchi nel libro X della sua «Storia Fiorentina» che il divino Michelangelo, abbandonata Firenze, ove stavano per rientrare i Medici, giunse nel 1529 a Venezia, «e per fuggire le visite e le cerimonie, delle quali egli era nimicissimo, e per vivere solitario secondo l'usanza sua, e rimoto dalle conversazioni, si ritirò pianamente alla Giudecca, dove la Signoria, non si potendo celare la venuta d'un tal uomo in tanta città, mandò due de' primi gentiluomini suoi a visitarlo in nome di lei, e ad offerirgli amorevolmente tutte quelle cose, le quali, o a lui proprio, o ad alcuno di sua compagnia, bisognassero; atto che dimostrò la grandezza così della virtù di Michelangelo, come dell'amore di quei magnifici, e clarissimi signori alla virtù». Dicesi, ma non è accertato, che il Buonarroti presentasse in questa occasione al Senato un modello pell'erezione in pietra del «Ponte di Rialto».

Alla Giudecca, ricca un tempo di ottomila abitanti, v'erano molti palazzi in cui si diedero molti festeggiamenti agli esteri principi, e si ha memoria che nel palazzo Corner soggiornò momentaneamente nel 1800 il Pontefice Pio VII.

V'erano pure molte ortaglie (e ve ne sono tuttavia) che si affittavano talvolta per un giorno intero, ed ivi avevano luogo, specialmente nel secolo trascorso, tresche, orge, e baccanali.

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Giusti (Calle dei) presso le «Zattere».
Nel 1661 in questa Calle, fin d'allora appellata «dei Giusti», e sottoposta alla parrocchia di S. Agnese, un «Vico Giusto» era comproprietario di due case. Egli probabilmente discendeva da quella famiglia Giusto, o Zusto, un «Vetorello» ed un «Tonolo» della quale, di condizione pescatori, notificarono stabili in parrocchia di S. Agnese nel 1566. Veggansi anche i necrologi del secolo XVI, ove vengono registrati varii Giusto, o Zusto, tutti da S. Agnese.

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Giustinian (Calle) a S. Barnaba.
Dicono i cronisti che Giustiniano il «magno», e Giustino di lui nipote e genero, imperatore d'Oriente, furono i progenitori della famiglia Giustinian. Aggiungono che Giustiniano, nato da Giovanni postumo, figlio di Giustino, passò circa il 670 da Bisanzio nell'Istria, ove fondò Giustinopoli, venne poscia a Malamocco, e finalmente a Venezia, ove i di lui discendenti fecero tosto parte del Consiglio, si distinsero per molti meriti, e diedero il nome a strade parecchie. E' fama che la famiglia Giustinian stava per estinguersi nel secolo XII, essendone periti nella guerra contro l'imperatore Emmanuele Comneno tutti gl'individui di sesso maschile, eccetto un Nicolò monaco al Lido. Allora permise il pontefice che, per reintegrare il casato, potesse questi uscire dal chiostro, ed unirsi in matrimonio ad Anna, figlia del doge Vitale Michiel II. Procreati alcuni figli, Nicolò volle ritornare nella solitudine, ed Anna ancora prese il velo nel convento di S. Adriano di Costanziaco, da essa fondato. Senza questo singolarissimo evento non avremmo avuto quel Lorenzo primo patriarca di Venezia, canonizzato nel 1690 da papa Alessandro VIII, quella beata Eufemia, abadessa del monastero di S. Croce alla Giudecca, e, per tacere di tanti prelati, generali e senatori, quel Marcantonio eletto doge nel 1684, sotto il quale si riportarono varie vittorie sopra gl'infedeli.

Il palazzo Giustinian a S. Barnaba è composto da due fabbriche, erette nel secolo XV.

Un altro ramo dei Giustinian possedeva un palazzo, disegnato dal Longhena, a S. Vitale, ove pure trovansi una «Calle», nonché un «Sottoportico e Campiello Giustinian». Questo ramo chiamavasi Giustinian Lolin, poiché Giovanni Lolin, a cui il palazzo antecedentemente apparteneva, lasciollo, con altre facoltà, mediante testamento 25 giugno 1623, a Giovanni Giustinian, nato dalla propria figlia Franceschina, maritatasi con Francesco Giustinian. Il palazzo medesimo, ove morì nel 1836 il celebre medico Francesco Aglietti, venne posseduto più tardi dalla duchessa di Parma.

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Giustizia (Campo di) a S. Marta.
Nei primi tempi l'esecuzioni capitali avevano luogo spesse volte presso la riva di S. Giorgio, e poi a S. Giovanni in Bragora. In seguito venne destinato alle medesime quello spazio che si apre fra le due colonne della «Piazzetta»; anzi, avendo, come è fama, l'ingegnere Nicolò Barattieri domandato, in premio del loro innalzamento, che in mezzo ad esse fossero concessi i giuochi d'azzardo, altrove proibiti, volle il Senato, coll'obbrobrio delle esecuzioni, distogliere il popolo dall'approfittare della data licenza. Non è però che i rei non si giustiziassero talvolta anche altrove, e specialmente ove avevano commesso il delitto, trovandosi sovente nei decreti la comminatoria: «sub poena furcarum in loco delicti», e leggendosi p. e. nei «Registri dei Giustiziati» che nel 1593, 3 luglio, «Tommaso lavorante in Cecca di anni 40 fu fatto dal consiglio dei X impiccare in faccia della Porta della Cecca per aver in quella commesso il suo delitto». Quando trattavasi di casi enormi, solevasi ricorrere eziandio ai tormenti anteriori; si trascinavano cioè i colpevoli, a coda di cavallo, fino a S. Croce, ove si tormentavano colle tanaglie, anche infuocate, o col taglio d'una mano, dopoché mandavansi a morte, e si abbruciavano, oppure se ne appiccavano i quarti nei luoghi più frequentati, come in capo alle vie che da Venezia conducevano a Padova, a Mestre, a Chioggia, ed a S. Andrea del Lido. Usavasi, nelle esecuzioni, del capestro e talvolta della mannaja. Talvolta, massime nei delitti politici, strozzavasi il reo nelle carceri, e poscia appendevasi con un piede alle forche. I giustiziati seppellivansi prima nel cimitero di S. Zaccaria, e poscia presso la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, ma in quest'ultimo sito soltanto dal 1618, poiché si legge che il primo sepolto ai SS. Giovanni e Paolo fu un Nicolò Renault, volgarmente Rinaldi, strozzato in quell'anno nel carcere. Caduta la Repubblica, trasportossi il teatro dei supplizii in una palude presso il «Campo di S. Francesco della Vigna», e poscia presso S. Marta. Il primo giustiziato a S. Marta fu Leonardo Sleiza, militare austriaco, moschettato nel 1842 per aver ucciso il proprio fratello.

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Gobbi (Sottoportico e Corte dei) a S. Maurizio.
Un «Antonio Gobbi» abitava in questa Corte nel 1740, occupando una casa che, fino dal 23 giugno 1724, aveva preso a pigione dal «commendatore Alvise Corner».

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Goldoni (Calle e Ponte) a S. Luca.

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Gondulmèr (Fondamenta) ai Tolentini.
Antichissima e tribunizia fu la famiglia Gondulmer, o Condulmer, venuta da Pavia. Essendo rimasta esclusa dal Consiglio nel 1297, vi fu poscia riassunta con triplice aggregazione. Una linea ebbe questo onore nel 1381 per meriti acquistati nella guerra di Chioggia. Una seconda nel 1431 pell'esaltazione al papato di Gabriele Gondulmer, che fu detto Eugenio IV. Raccontasi che, essendo in Egitto Angelo di lui padre, ed il padre del doge Foscari, andassero entrambi da un eremita, creduto profeta, per consultarlo di loro ventura, e che questi rispondesse all'uno dei due: «Tuo figlio sarà il maggiore fra i sacerdoti» ed all'altro: «Il tuo poi diverrà capo di una grande nazione». Eugenio IV ebbe una sorella, per nome Polissena, che, contratto matrimonio con Nicolò Barbo, fu madre dell'altro pontefice Paolo II. Papa Gondulmer favorì grandemente i nipoti, poiché fra i medesimi fece Marco patriarca, Francesco cardinale, ed Almorotto signore di Bagnacavallo, S. Agata, e Massa dei Lombardi.

Una terza linea dei Gondulmer venne ammessa al Maggior Consiglio l'anno 1653 in un Nicolò, figlio di Domenico, già Cancelliere Grande in Candia. Oltre quelli del padre, egli vantò nella supplica i meriti di Nicolò, suo avo, che nel 1538 aveva servito a proprie spese nell'armata, riportando grave ferita, e terminò coll'offerire gli indispensabili 100 mila ducati. Dicesi che il nuovo aggregato morisse nello stesso anno 1653 per soverchia allegrezza dell'aggregazione. Tra i di lui discendenti non sono notabili che un G. Antonio, bandito per avere ammazzato la moglie con un'archibugiata sulla schiena, ed un Domenico, eletto vescovo di Lesina e poscia di Belluno.

La prima delle linee dei Gondulmer da noi rammentate possedeva un palazzo, che antecedentemente era dei Loredan, e che sorge di fronte alla chiesa dei Tolentini, dando il nome alla sottoposta Fondamenta. Ne troviamo menzione in una Miscellanea manoscritta (Classe XI, Codice 58 della Marciana), che contiene un Diario degli avvenimenti successi in Venezia dal 1° ottobre 1742 al 25 settembre 1743. Questo Diario, sotto la data 8 agosto 1743, ha i cenni seguenti: «Il giorno di S. Gaetano la famiglia ducale di Modona, accompagnata da molte gentildonne Veneziane, andò al palazzo del N. U. Condulmer in faccia la chiesa dei Tolentini, a goder la sagra. Vi fu bel rinfresco, illuminazione nel giardino, e serenata nobilissima, il tutto a spese d'esso N. U. Condulmer, ch'era famoso giuocatore, e che avea guadagnato molti danari alla principessa Ereditaria». Poco più innanzi narra il Diario medesimo che «nella conversazione fatta in ca' Condulmer alla famiglia ducale di Modona», il giorno di S. Gaetano, fu chiamato ad improvvisare in lingua rustica padovana «Zuane Sibillato padrone di barca da vino, ed ora portalettere da mare del Mag.to alla Sanità», persona di bassi natali, ma di grande ingegno, ed amico di Luisa Bergalli-Gozzi, d'Anton Federico Seghezzi, del Verdani, e d'altri letterati.

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Gonella (Calle e Corte) a S. Giobbe.
L'arma della famiglia Gonella, consistente in una grande stella, scorgesi tuttora replicatamente scolpita sulla prossima muraglia. Così si esprime parlando dei Gonella una nostra cronaca (Classe VII, Codice 839 della Marciana): «Questi vennero da Cremona, et fo uno maestro p.o Gonella, ceroico famoso, qual venne habitar a Venetia, et da lui è discesa la casa Gonella. Questi hanno fatto molte fabbriche in la contrà di S. Hieremia in Cannaregio». In effetto, nell'albero dei Gonella, esistente nei Registri dell'«Avogaria», appare qual capostipite un «Pietro Gonella fisico», vissuto nel secolo XIV. In quell'albero figura eziandio un «Vettor Gonella», che fino dal 1511 era «Gastaldo del Principe», i nipoti del quale vennero approvati cittadini originari nel 1596. La medesima grazia ottennero il 10 luglio 1683 Pietro e Domenico Gonella, quantunque figli d'un Giovanni, uomo violento, che venne bandito da Venezia, mediante sentenza 4 gennaio 1656 M. V., per avere percosso Giulio Vignoni suo suocero. Questo bando venne rivocato il 1° febbraio dello stesso anno, avendo l'offensore ottenuta la pace dall'offeso. Giovanni però tornò ad essere bandito il 30 ottobre 1665 perché diede un pugno sulla faccia alla propria sorella Marcolina, cavandole una pupilla degli occhi, che poscia, con efferata barbarie, raccolse da terra ove era caduta, e diede alle fiamme. Tuttavia giunse a liberarsi anche dal nuovo bando il 25 gennaio 1679 M. V. In Pietro, figlio dell'anzidetto Giovanni, si estinse nel 1729 la famiglia Gonella, la quale in quel tempo era decaduta dallo splendore a cui era ascesa nei secoli antecedenti. Imperciocché anticamente avea contratto parentela con molte famiglie patrizie, e possedeva in Cannaregio, e precisamente al «Ponte di S. Giobbe», un palazzo, passato poscia in mano dei patrizii Valier ed ora distrutto, parecchie case, una tintoria, ed una «posta di chiovere». Aggiungansi beni in terra ferma e navigli proprii coi quali andava mercanteggiando.

Riferisce il Barbo nella sua cronaca che il turbine del 1° luglio 1541 «rovinò tutti li camini della cha Gonella, quale è di uno nominato m. Vettor, et molti altri di Cannaregio».

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Gorna (Calle della) presso le Fondamente Nuove.
Da una grondaja, o rigagnolo, scavata nel suolo, e tuttora esistente per dare sfogo all'acque piovane.

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Gorne (Campo, Fondamenta di Campo, Rio delle) a S. Martino.
Dall'ampie «gorne» (grondaje) di marmo, che gettano l'acqua, raccolta nei cantieri dell'Arsenale, nel rivo sottoposto.

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Gozzi (Rio del) ai Gesuiti.
La famiglia Gozzi, nobile bergamasca, vanta fino dal 1445 un «Pezolo», figlio di «Bonizolo», che a proprie spese conservò sotto il veneto dominio Alzano dall'armi dei Milanesi. Essa venne a Venezia correndo il secolo XVI, e verso la metà del susseguente secolo XVII era già divisa in quattro colonnelli, domiciliato il primo a S. Sofia, il secondo a S. Cassiano, il terzo a S. Maria Mater Domini, ed il quarto ai SS. Apostoli. Quest'ultimo ebbe a capostipite nella nostra città un Gabriele, da cui nacque quell'Alberto, appellato «dalla seda» perché teneva un negozio di panni di seta in «Calle dei Toscani» a Rialto. Egli, con istrumento 31 maggio 1638, in atti d'Angelo Schietti N. V., comperò da «Contarina Contarini, consorte Piero de Priuli q. Michiel», un palazzo posto in parrocchia dei SS. Apostoli, e precisamente ai Gesuiti, sul rivo che perciò si chiama «del Gozzi» (oggi detto anche «dei Sartori»). Questo è il palazzo di cui parla il Sansovino nella sua «Venetia» allorquando, dopo aver nominato il palazzo Zeno ai Gesuiti, aggiunge che «di qua dal ponte si trova quello dei Contarini, già fatto dalla casa Dolce». Esso ha tuttora scolpita sulla muraglia di fianco l'arma dei Contarini. Alberto Gozzi nel 1546 venne ammesso al patriziato. Negli anni 1645-1646 fu uno dei benemeriti sovventori pell'erezione dell'eremo dei Camaldolesi nell'isola di San Clemente, e fabbricò pure un bell'altare in chiesa di S. Moisè. La linea patrizia dei Gozzi andò estinta nel 1698 in un altro Alberto, di lui nipote, il quale, con testamento 26 agosto di quell'anno, in atti Alessandro Bronzini, lasciò tutte le sue facoltà ai quattro ospitali degli Incurabili, Pietà, Mendicanti, ed Ospedaletto, nonché al monastero delle Convertite, prescrivendo che, vita durante, ne fosse usufruttuaria la moglie Andriana Donà. Essa però, ritiratasi in seguito fra le Cappuccine di Castello, rinunziò all'usufrutto, mediante convenzione 16 settembre 1725, in atti Carlo Gabrielli, ed ecco il palazzo porsi all'incanto, e venir comperato, come vedremo, dalla famiglia Sceriman. Vedi Seriman (Salizzada). In questo palazzo ebbe stanza per qualche tempo l'accademia degli Industriosi prima di trasportarsi in ca' Morosini dal Giardino a S. Canciano.

A proposito del palazzo medesimo leggiamo nel codice 183, Classe VII della Marciana: «1676. Lunardo Loredan q. s. Fran.co q. s. Hier. q. s. Lun.o fu trovato morto in un battello al ponte de Ca' Gozzi, alli Gesuiti, in notte scura e piovosa. Fu detto che, sorpreso da un accidente nell'ascendere il Ponte, cadesse a basso, e dando nella testa sul battello, si accoppasse, e fosse trovato semivivo, e portato a Ca' Gozzi non mai potesse rinvenire. Altri dicono che, andando da una putta cantarina, che manteneva, li parenti honorati l'havessero gettato giù di quel ponte dopo havergli dato un colpo di bastone in la testa. Altri dicono che venisse da mano più alta, che desiderava, o haveva ottenuto l'avvicinarsi in quei contorni. Altri dissero opera delli Inquisitori di Stato, come lo scrisse il Lamelotto» (cioè «Amelot») «nel suo Gouvernement de Venise. La putta si chiamava»... Il Capellari Vivaro fa morto il suddetto Leonardo Loredan nel 1674 in età di 39 anni.

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Gradisca (Calle, Ramo) a S. Giacomo dall'Orio.
Vuole il Gallicciolli che qui, ed in una Calle del medesimo nome alla Madonna dell'Orto, soggiornassero alcuni di Gradisca, venuti nei secoli XIV e XV a Venezia per dedicarsi all'arte della lana.

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Grana (Campiello della) a S. Martino.
Un «Albertin dalla Grana» da San Martino era nel 1361 Guardian Grande della Scuola di S. Giovanni Evangelista. Egli è senza dubbio quell'«Albertin dalla Grana» medesimo, che nel 1379 offrì alla Repubblica L. 800 per la guerra di Chioggia, e che anche in quell'epoca abitava in parrocchia di S. Martino.

La famiglia Grana, o dalla Grana, venne da Cremona, e fino dal 1259 ritrovavasi nella nostra città.

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Grandiben (Calle) a S. Martino.
Era posseduto dalla cittadinesca famiglia Grandiben, e forse venne da essa fondato quel palazzo archiacuto il quale guarda col prospetto il «Rio di San Martino», essendo da una parte fiancheggiato dalla «Calle Grandiben», e dall'altra dalla «Calle Erizzo», ove sopra una porta scorgesi tuttora scolpito lo stemma degli antichi proprietarii. I Grandiben, o Grandinben, produssero, secondo le cronache cittadinesche, «diversi mercanti, dottori, secretarii, et altri degni uomini». Un Nicolò Grandiben, figlio di «Marchiò paron de nave», venne, come ducal secretario, adoperato in molti servigi, e spedito nel 1478 ad intimare a Lorenzo Zane, patriarca d'Antiochia e vescovo di Brescia, di comparire innanzi la Signoria per iscolparsi d'aver comunicato al papa le cose che trattavansi in senato. Sebbene il vescovo prendesse altra direzione, Nicolò adempì con tutta premura il geloso incarico. Egli fece testamento l'8 agosto 1490, in atti di Francesco Malpiede, disponendo che la sua casa grande di S. Martino con le case finitime, nonché altre sue possidenze, fossero del figlio Girolamo (anch'egli poscia ducal secretario) «ita tamen quod pozale et vera unita, quae erunt in domo mea magna, vadant in ecclesiam S. Martini Venetiarum cum suis columnis et tabula marmorea, ad aeternam memoriam domus meae, pro faciendo unum baptisterium». Beneficò pure la chiesa ed i poveri della parrocchia di S. Martino, prescrisse che in chiesa di San Daniele fosse eretta una cappella ove dovesse aver sepoltura, e lasciò un annuo legato a quelle monache. Il palazzo e l'altre case dei Grandiben a S. Martino passarono coll'andar del tempo nella famiglia Negri, in virtù del testamento di Diana Grandiben 3 ottobre 1630 in atti di Giovanni Vignon. Questa donna, ultima della famiglia, lasciava i suoi beni alla madre Lucrezia Zaniboni, dopo la morte della quale, meno i beni di Vedellago, che dovevano toccare al di lei zio «M.r Vicario Zaniboni», tutti gli altri erano trasferibili, secondo l'espressione della testatrice, «in Agnesina moglie di Marcantonio Negri mia germana, insieme a Marcantonio suo consorte». Perciò «Marcantonio Negri q. Francesco» notificava nel 1661 di possedere, unitamente alla consorte Agnesina, «come eredi della Sig. Diana Grandiben», una casa, ove abitava, gli altri stabili in parrocchia di S. Martino «nella calle detta di Cà Grandiben».

Nel palazzo Grandiben nacque, come appare da lapide affissa sul prospetto presso il «Ponte Erizzo», Francesco Negri, famoso letterato e grecista.

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Grassi (Ramo) a San Samuele.
Antichissima, la famiglia Grassi trasse l'origine da Bologna, e nel 1230 si trasferì a Chioggia, di cui ottenne la cittadinanza nel 1646. Trasmigrata a Venezia salì agli onori del patriziato nel 1718 in un Paolo e fratelli (uno dei quali per nome Pietro fu vescovo di Parenzo) offrendo alla Repubblica nell'ultima guerra turchesca 60 mila ducati d'argento. Angelo, figliuolo di Paolo, edificò verso la metà del secolo scorso un magnifico palazzo in «Campo S. Samuele», sulle cui scale, a documento dei propri figli, fece scolpire il motto: Concordia Res Parvae Crescunt; Discordia Etiam Maximae Dilabuntur. Giovanni, uno di questi, impalmò nel 1772 Margherita Condulmer, e qui, per dare un'idea della dissolutezza dei tempi, riportiamo un aneddoto conservatoci dal prete Zilli nelle sue «Memorie di casi avvenuti in Venezia» (Codice Cicogna 1166). Racconta il buon prete che, il 20 gennaio 1779 M. V., «la N. D. Margherita Condulmer, moglie di s. Zuane Grassi, d'improvviso si ritirò nel monastero di S. Lucia. Il motivo di tale risoluzione fu, per quanto vien detto, la negativa avuta dal marito (per altro all'eccesso compiacente) di avere per suo cavaliere servente il N. U. Gaetano Dolfin, figlio di campaniel di Melma, giovane che affetta il letterato, e desiderato appunto per questo dalla dama, onde servirgli di guida nelle scienze, come ella diceva. Il giorno dietro però si lasciò persuadere a ritornare alla propria casa. Non è questo il primo tratto di pazzia di questa signora, la quale non ha difficoltà di dire al marito di dare e ricevere dei baci dai suoi serventi, ma nulla di più, come altresì non è questo il primo incontro pel marito di farsi ridicolo appresso tutto il paese, essendo scimunito e stupido a segno tale da andare in persona a pregare il servente di riconcigliarsi colla moglie e di tornare al suo fianco, come fece nell'incontro che Baccalario Zen l'aveva abbandonata».

La famiglia Grassi si estinse nella prima metà del secolo presente nei figli del suddetto Giovanni, viventi ancora i quali, il palazzo venne alienato. Esso in quest'ultimi tempi fu ristaurato, e decorato di prossimo giardino dal barone Simeone Sina.

Una «Corte Grassi» esiste anche a S. Sofia, presso la «Ruga dei due Pozzi», così denominata da un'altra famiglia del medesimo cognome. Trovasi che nel 1514 un «Domenego», un «prè Lorenzo», un'«Anzola», ed una «Paola, fratelli e sorelle Grassi», abitavano in parrocchia di S. Sofia. E nei Necrologi Sanitarii: «Adì 6 Setembrio 1610: il S. Pietro di Grassi del q. Francesco d'anni 26 in c.a. da una ferita nel petto g.ni X. S. Sofia». Un Paolo Grassi pittore fece, secondo la «Cronica veneta sacra e profana» del 1736, alcuni lavori nella prossima chiesa di Santa Caterina.

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Greca (Ramo e Calle, Calle) a San Moisè.
Queste località, all'ingresso delle quali scorgevasi ancora poco fa scolpita in pietra l'arma Pizzamano, sono appellate negli estimi «della Greca, o della Grega», e, scorrendo le Notifiche del 1537, abbiamo trovato che «Sebastian Pizzamano» possedeva varie case in questa situazione, in una delle quali abitava «m.a Rimorda grecha».

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Greci (Ramo Calle, Calle, Campo, Fondamenta, Rio, Ponte, Ramo Primo dei).
Dopo le vittorie d'Orcano, Amurat I, e Bajazette, molti Greci trasmigrarono fra il 1400 ed il 1437 a Venezia, ove si permise che celebrassero i sacri uffizii ora in questa, ed ora in quella chiesa della città. Altri profughi giunsero fra noi nel 1453 dopo la conquista di Costantinopoli, fatta da Maometto II, ed allora si ordinò che i Greci tutti dovessero uffiziare la cappella di S. Orsola presso il tempio dei SS. Giovanni e Paolo, e poscia la chiesa di San Biagio. Nel 1526 gl'individui della suddetta nazione comperarono uno spazio di terreno, situato in parrocchia di S. Antonino, e quindi eressero un tempio a S. Giorgio martire, incominciato nel 1539, e compiuto nel 1573, quantunque avesse avuto consecrazione fino dal 1564, come ricorda l'iscrizione esterna sulla porta. L'architetto fu Sante Lombardo, sostituito nell'esecuzione da G. Antonio Chiona. La cupola venne costrutta nel 1571 da un Andrea, che credesi il Palladio; il campanile in quella vece da un Bernardino Ongarin sotto la direzione di Simeone Sorella (anni 1587-l592). La facciata di questo tempio ebbe un radicale ristauro nel 1884. Presso al medesimo eravi un piccolo monastero di monache Basiliane che fu riedificato nel 1691 sul disegno del Tremignon, ove durarono le monache fino al 1829. Poco discosto sorsero pure nel secolo XVII, per lascito dell'avvocato Tommaso Flangini, un ospitale ed un collegio, che il Longhena rinnovò nel 1678. Per più estese notizie circa gli edifici appartenenti alla colonia greca, e circa la storia della medesima, vedi quanto ne scrisse il chiarissimo comm. Giovanni Veludo nell'opera: «Venezia e le sue Lagune».

La Chiesa greca si divise definitivamente dal grembo cattolico, caduta la Repubblica.

Al «Ponte dei Greci» sorge il palazzo Zorzi, ora Liassidi, che il Sansovino nella sua «Venetia» dice ricco di «diverse bellezze di ritratti, et figure di marmo e di stucco d'Alessandro Vittoria». In esso pure havvi una pregevole «vera» di pozzo del secolo XV.

Presso questo ponte, la sera del 22 gennaio 1586 M. V. venne ferito a morte, mentre ritornava dalla visita d'un ammalato, il celebre medico e filosofo G. B. Peranda. Vedi S. Severo (Ponte ecc.).

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Gregolin (Calle).
Vedi Gregorina.

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Gregorina (Calle) o del Quartier alla Madonna dell'Orto.
Leggasi cogli Estimi «Gregolina», o di «Ca' Gregolin». Fino del 1484, trovasi un «Salvador Gregolin», domiciliato alla Madonna dell'Orto. Questi dalla moglie Anastasia Businello ebbe due figli, Bernardino ed Antonio, che, per quanto appare dalle «Mariegole» della Scuola di S. Marco, a cui erano ascritti, abitavano nella medesima parrocchia. Il secondo, che nelle «Mariegole» è detto «mercante da frumento», lasciò una mansionaria alla chiesa della Madonna dell'Orto, con testamento 27 settembre 1511, ed alla Madonna dell'Orto venne sepolto con epigrafe illustrata dal Cicogna. Né diversa abitazione ebbero «Zuane» figliuolo di Bernardino, Marcantonio figliuolo di «Zuane», che fu ducal secretario, e Giuseppe figliuolo di Marcantonio, che provossi cittadino veneto il 19 novembre 1590. Infine, nel 1661 eravi in «Calle Gregolina», alla Madonna dell'Orto, «la casa propria della Claris.ma Sig. Laura Gregolina».

Quanto alla seconda denominazione «del Quartier», noi la crediamo una corruzione di «Partio», trovandosi nella «Redecima», ordinata nel 1711, appellata questa strada «Calle Gregolina o del Partio», e ciò perché colà esisteva il «partio», o partito, del tabacco.

Ignoriamo poi se appartenessero alla famiglia già domiciliata alla Madonna dell'Orto quei Gregolini, i quali più tardi diedero il nome alla «Calle», ed al «Ramo Gregolina» presso la «Calle dei Fabbri», nell'antico circondario di San Luca, e nell'attuale S. Marco. Un «G. Battista Gregolin q. Lorenzo», procuratore della chiesa di S. Luca, morì nel 1707, ed ebbe tomba con epigrafe nella chiesa medesima.

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Grifalconi (Corte).
Vedi Falcona.

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Grimana (Sottoportico e Calle) a Castello.
Varie case nel 1661 erano qui possedute dal N. U. Francesco Grimani. Sono discordi i cronisti circa l'origine di questa famiglia. Dicono però i più riputati che un Servadio Grimani, di nobile sangue longobardo, abbandonata Venezia, ove i suoi maggiori avevano eletto domicilio, trasportossi a Venezia nel 900, e che fino dal 940 suo figlio Teodosio venne ammesso al Consiglio. Un Antonio Grimani salì al soglio ducale nel 1521. Come generale di mare, egli aveva avuto mala fortuna nel combattere i Turchi, ed accusato di tradimento era stato condotto in ferri a Venezia. Qui rifulse la pietà del cardinale Domenico suo figlio, che corse ad accoglierlo, ed accompagnarlo alla carcere, sostenendone amorosamente i ceppi. Antonio Grimani fu poscia esigliato a Cherso ed Ossero, donde fuggì per ricovrarsi alla Corte Romana presso l'anzidetto suo figlio Domenico. Questi adoperossi in favore della Repubblica in più affari, il perché ottenne che il padre, non solo fosse richiamato in patria ed assolto, ma rieletto Procuratore di S. Marco, e finalmente assunto al potere supremo. Il cardinale Domenico Grimani ebbe tre nipoti, rivestiti anch'essi delle primarie dignità della chiesa, cioè Marino cardinale nel 1527, Marco patriarca d'Aquileja nel 1529, e nel 1537 generale di venti galere della chiesa contro gl'infedeli, e Giovanni, che al pari di suo fratello Marco fu patriarca d'Aquileja e fondatore del palazzo a S. Maria Formosa, di cui parleremo nell'articolo seguente. La famiglia Grimani produsse in seguito altri due dogi, un altro cardinale, ed un altro patriarca d'Aquileja, senza contare molti militari valenti, e molti gravissimi senatori. Essa riedificò, ed abbellì alcune delle nostre chiese, fece sorgere varii palagi, e fondò tre teatri cioè quello di «Calle della Testa», più non esistente, quello di S. Samuele, e quello di S. Giovanni Grisostomo esistenti tuttora. Diede il nome a varie strade di Venezia.

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Grimani (Calle) a S. Luca.
Girolamo Grimani, padre del doge Marino, fece costruire nel secolo XVI, sopra disegno del Sammicheli, il prossimo grandioso palazzo, che, alcuni anni fa, era sede degli Uffizii Postali, trasportati oggidì in palazzo Giustinian a S. Salvatore. Qui nel 1596 si diede una festa per onorare il Duca e la Duchessa di Mantova coll'intervento di cento gentildonne vestite di bianco fra le più belle della città, «et tutte addobbate», come lasciò scritto il Sansovino, «di quantità di ori e di gioie così grande che nulla più non ostante la prohibitione delle leggi, che concessero loro per quella fiata il poter comparire così ornate».

Qui successe la solenne incoronazione di Morosina Morosini moglie del doge Marino Grimani. Approdarono perciò a queste rive il 4 maggio 1597, sulle ore diciotto, il bucintoro e le «peate» ducali coi Consiglieri, con altri nobili di Pregadi, e col Cancellier Grande, i quali tutti, al suono di trombe, ed al tuonare delle artiglierie, ascesero le scale, e pervennero in sala. Allora il Cavaliere del Doge andò per la principessa, che venne tosto incontro alla comitiva, e poscia giurò quanto nella Commissione Ducale, donando una borsa d'oro a ciascuno dei Consiglieri ed al Cancellier Grande, ove contenevasi un'aurea medaglia colla sua effigie e le parole: Maurocena Maurocena da un lato, e coll'iscrizione: Munus Maurocenae Grimanae Ducissae Venetiar. 1597, dall'altra. Dopo tale cerimonia, la dogaressa montò in bucintoro accompagnata da una folla di barche, e dai brigantini dell'Arti magnificamente addobbati. Discese poscia alla «Piazzetta di S. Marco», nella quale, per cura dei beccai, era stato eretto un grand'arco, e fece con tutto il suo seguito il giro d'ambe le piazze sotto un porticato di tende. Aprivano il corteggio trecento bombardieri, a cui tenevano dietro le Arti coi loro gonfaloni; quindi i suonatori di pifferi e di trombe; quindi una schiera di gentildonne giovani, a due a due, vestite di seta bianca, e seguite da altre gentildonne più vecchie, vestite di verde, pavonazzo, e color di rosa secca. Dopo le gentildonne, venivano quattro procuratesse, e la moglie del Cancellier Grande in abito di seta nera. Si vedevano in seguito sette tra figlie e nipoti della dogaressa in vesti bianche ad argento ed oro. Finalmente, preceduta da sei damigelle vestite di verde, e da due bellissimi nani, maschio e femmina, compariva la dogaressa col corno in testa, sotto del quale le scendeva sugli omeri un sottilissimo velo, e con manto bianco, e sottana di soprariccio d'oro. Chiudevano la processione i Consiglieri, i Procuratori, e tutta la Signoria. Così accompagnata, entrò Morosina Morosini nella basilica di S. Marco, e di là al palazzo ducale, passando innanzi a tutte le 19 Arti in bell'ordine disposte. Giunta nella Sala del Maggior Consiglio, e seduta sopra il trono, successe un bellissimo festino, rallegrato da una refezione composta di confetture rappresentanti uomini, donne, barche, ed altri oggetti, la quale, al lume di più che 60 torce, era stata prima condotta in giro per la «Piazza di S. Marco». Morosina Morosini, rimasta vedova, chiuse i suoi giorni nel palazzo di S. Luca il 29 gennaio 1614, legando alla basilica di S. Marco la «Rosa d'Oro», che le era stata spedita in regalo dal pontefice Clemente VIII.

Nel palazzo medesimo alloggiò nel 1625 Ladislao VII, figlio di Sigismondo III re di Polonia, e nel 1658 furono spesati dal pubblico due ambasciatori spediti dal principe della Moscovia.

Tra le altre strade, che presero il nome dalla famiglia Grimani, non possiamo tacere del «Ramo Grimani» a S. Maria Formosa, perché conduce ad altro grandioso palazzo, fondato, come vuolsi, da Giovanni Grimani, patriarca d'Aquileja nel 1545, e celebre specialmente per la statua d'Agrippa, che si conservava nell'atrio, qui recata dal Panteon di Roma. E' curioso l'aneddoto che si racconta intorno a questo colosso. I Grimani negli ultimi tempi della Repubblica avevano deliberato d'alienarlo, allettati da generosa profferta d'oltre Alpe venuta, e più non mancava che spedirlo fuori di Venezia. Già la barca è approntata, già barcajuoli e famigli s'accingono all'opera. Quand'ecco appare nella corte, in vesta d'uffizio, Cristofolo Cristofoli, fante degli Inquisitori di Stato, che dice agli astanti, meravigliati della sua venuta: «Son qua da parte della Serenissima per augurarghe bon viazo a Sior Marco Agripa prima che el parta». Riportato ai Grimani l'avvenuto, essi capirono il gergo, e temendo d'incorrere nello sdegno del governo, ed arrossendo forse di essere cagione che le nostre artistiche glorie passassero in mano degli stranieri, comandarono tosto che la statua rimanesse al suo posto, né più diedero corso al contratto. A rimuovere un consimile pericolo pell'avvenire, il conte Michele Grimani, ultimo di questa linea, ingiunse, con testamento 24 aprile 1862, ai propri eredi di offrire la statua medesima in dono al comune di Venezia. Il Grimani morì nel 1864, e la statua venne trasportata al Civico Museo il 29 marzo 1876.

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Gritti (Ramo, Calle, Calle, Sottoportico, Ramo Primo) alla Bragola.
Non si sa precisamente il paese donde provennero i Gritti, autori della denominazione che portano queste ed altre vie di Venezia. E' incontrastabile soltanto l'antichità della loro origine, avendo, come si legge, esercitato nei primi tempi la podestà tribunizia nelle nostre isolette, ed essendo stati assai per tempo ammessi al Consiglio. Un Giovanni Gritti nel 1104 fu tra i primi capitani all'impresa d'Acri in Soria. Un altro Giovanni nel 1360 venne eletto arcivescovo di Corfù, del qual grado troviamo pure rivestito un Andrea, secondo cugino di Giovanni, nel 1425. Un altro Andrea cinse il capo del corno ducale nel 1523. Egli aveva reso, come generale, grandi servigi alla patria nelle guerre contro l'Impero e la Francia. Nel 1509 scacciò gl'Imperiali da Padova, e nel 1512 ritolse Brescia ai Francesi. Ma nell'anno istesso fu battuto, e fatto prigioniero da Gastone di Foix, che riconquistò Brescia. Condotto a Parigi, rese destramente Luigi XII favorevole ai Veneziani, e conchiuse nel 1513 una lega vantaggiosa con questo principe. Come doge, dichiarossi or per la Francia, or contro di essa, attendendo a riavere le possessioni perdute dai Veneziani in Italia. Andrea Gritti ebbe un figlio naturale, per nome Luigi, che seppe in tal guisa cattivarsi l'affetto di Solimano, imperatore dei Turchi, da divenire quasi l'arbitro della monarchia. Dopo aver seguito il sultano all'assedio di Vienna, ed aver combattuto al suo fianco, venne dal medesimo nel 1533 dichiarato palatino d'Ungheria, e governatore di quel regno. Infelice però fu la di lui fine, poiché, fatto uccidere il vescovo di Varadino, cadde in mano degli Ungheri sollevati, che nel 1535 lo decapitarono con due figli, uno dei quali era vescovo d'Agram, ed eletto arcivescovo di Strigonia.

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Groppi (Calle dei) a S. Marziale.
Nel 1740 un «pre' Francesco Groppi, q. Zuane, q. Lorenzo», domiciliato a S. Barnaba, notificò di possedere varie case «in contrà di S. Marzilian, in calle de ca' Groppi», nonché altre case nella medesima contrada, e possessioni ad Oriago, «con riserva d'aggiungere altri beni di ragione del q. R. D. P. Dom. Groppi, fu piovan di S. Barnaba, sopra quali al presente pende litigio». Questo Domenico Groppi, oltre di essere pievano di S. Barnaba, fu vicario del patriarca di Venezia Maffeo Contarini, e pubblico notajo. Egli viene nominato in parecchi rogiti dal 1453 al 1507, in cui il 20 aprile fece il proprio testamento negli atti di Cristofolo Rizzo, pievano di S. Moisè, lasciando varii legati pii, e disponendo che fosse provveduta de' suoi beni la famiglia di Giacomo suo fratello. Morto nel 1507, ebbe sepoltura in chiesa di S. Barnaba con epigrafe riportata dalle nostre cronache cittadinesche, le quali dicono che la famiglia Groppi discese da Bergamo, e che produsse diversi dottori, secretarii e mercanti. Anticamente essa attendeva al commercio della seta.

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Grue (Fondamenta delle) a S. Maria Mater Domini.
Forse dalla famiglia Grua. Trovasi memoria di questa famiglia nel Codice 30, Classe VII della Marciana, ove si legge che «alcuni da Ca' Grua, ovvero, come altri dicono, da Ca' Vilinici», levarono l'arma degli Zeno, «e si fecero chiamare da Ca' Zen». Un «Marco Grua», un «Polo Grua q. Piero», ed un «Nicolò de Stefano Grua» furono pure ascritti alla Scuola Grande di S. Maria della Misericordia («Mariegola» dal 1308 al 1499).

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Guardiani (Sottoportico, Calle, Ponte dei) all'Angelo Raffaele.
In questa situazione avranno abitato i Guardiani, o Gastaldi, di qualche scuola di divozione, e probabilmente di quella del Sacramento della prossima chiesa dell'Angelo Raffaele. Ciò supponiamo anche fatta considerazione che l'immagine del SS. si venera tuttora in un altarino del Sottoportico.

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Guerra (Calle al Ponte, Ponte, Campo, Callesella della) a S. Giuliano.
Il Dezan ed il Berlan vogliono derivato il nome a queste località da un combattimento che vi avrebbe sostenuto una colonna di congiurati di Bajamonte Tiepolo dopo la sconfitta loro toccata in «Piazza di S. Marco». Vedi Remer (Campiello del). Tuttavia è cosa certa in quella vece aver avuto origine il nome suddetto dalle guerre delle canne e dei bastoni, e poscia dei pugni, che qui si facevano. Vedi Pugni (Ponte dei). E giova innanzi tratto osservare che molti ponti di Venezia, i quali erano agone a tali combattimenti, si denominavano «della Guerra», per cui nella «Guida» del Coronelli troviamo il «Ponte della Guerra» ai Gesuati, il «Ponte della Guerra» a S. Marziale, il «Ponte della Guerra» a S. Fosca, ed il «Ponte della Guerra» a S. Barnaba, i due ultimi dei quali conservano tuttora impresse l'orme pei lottatori. Venendo poi a parlare particolarmente del «Ponte della Guerra» a San Giuliano, ricorda il Sanudo che il 29 dicembre 1509 si proibirono le «batagiole» sul «Ponte di S. Giuliano». Nel codice Cicogna 2078 leggiamo sotto l'anno 1546: «Sopra il Ponte della Guerra a San Zulian si fecero i pugni». E finalmente abbiamo un opuscolo impresso in Venezia in «Salizzada a S. Moisè» nello stesso anno 1546 col titolo: «Quattro canti in Ottava Rima delle Battaglie e Battagliuole fatte sopra li Ponti di Venezia in S. Zulian, S. Barnaba, Crocecchieri, e S. Marcuola».

Anche il «Sottoportico della Guerra» a S. Sofia trasse l'appellazione dagli accennati combattimenti, soliti a tenersi sopra il prossimo ponte detto anticamente «Ponte della Guerra di Campo dell'Erba», quindi «Ponte della Guerra o Priuli», ed ora «Ponte Priuli» soltanto (Codice Cicogna 620). Qui notiamo alla sfuggita che l'antico palazzo sovrastante al «Sottoportico della Guerra» a Santa Sofia, apparteneva alla patrizia famiglia Benedetti, come si scorge dallo stemma a rombi scolpito sulla facciata, e sopra un fianco della fabbrica, nonché dalla Pianta topografica di Venezia, unita alla «Guida» del Coronelli, ove l'attiguo ponticello, ora distrutto, è chiamato dei Benedetti. In questo palazzo, ferito a morte da ladroni, cessò di vivere nel 1658 Vincenzo q. Pietro Benedetti, estinguendosi in lui la famiglia.

Quanto al «Rio della Guerra» a Castello, presso le Vergini, esso, secondo i medesimi Dezan e Berlan, ricorderebbe una di quelle fiere zuffe avvenute fra i Caloprini ed i Morosini. Veramente racconta la storia che, sorta al tempo del doge Pietro Tribuno, per cagione di donne, una grande inimicizia fra queste due famiglie, i Caloprini ferirono a morte in «Campo di S. Pietro di Castello» Domenico Morosini, ed un'altra volta quattro Morosini uccisero tre Caloprini mentre erano in barca. Nulla però si può dire di preciso sopra l'argomento; anzi altri credono che il «Rio della Guerra» prossimo, come si trova, alla «Darsena» dell'«Arsenal Nuovissimo», abbiasi intitolato dai navigli da guerra, che nei cantieri colà posti si costruivano.

UP

Guglie (Ponte delle).
Vedi Cannaregio.

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