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Shindia Lodge Varanasi

Alle 5 del mattino dopo qualche ora di sogni popolati da movimenti tellurici (Patty e io facciamo sogni analoghi di terremoto), sono di nuovo allo sportello, il viso coperto dell’ untume nerastro che la locomotiva diesel ha generosamente scaricato lungo il treno.

Per la campagna di Varanasi sembra essere “cacca time”. Dal treno a velocità ridotta colgo una panoramica sulla defecatio mattutina di una certa fetta della popolazione maschile: si defeca in singolo o a coppie, in ordine sparso, allineati e coperti su muretti, o anche a gruppi modello accampamento, ma si defeca o si attende di farlo in pubblico e anzi in discreta compagnia. Tutti loro sembrano particolarmente ispirati dalla vista del treno, sfoggiano testicoli quasi appoggiati al terreno e guardano il treno, e io dal treno guardo loro come componente di un paesaggio rurale particolarmente affollato di defecatori aurorali, una pianura verde rasa, con grandi alberi sferici, un insieme piuttosto inconsueto nella mia esperienza.

A parte questo la campagna e le sue case sembrano piuttosto ordinate e pulite, in netto contrasto con Delhi e, peggio, con quanto scoprirò a Varanasi.

L’incontro con Ganga è assai meno intenso di quel mio primo ad Haridwar di due anni fa: non ho lacrime e fatico a sollevarmi dallo strato di mota rossa che ricopre le strade che portano ai ghat. Mota spessa un centimetro costellata di escrementi dei più svariati animali, per lo più di grosse dimensioni, bufali e mucche. Non riesco ad assimilarmi alla santità del luogo, mi sento estraneo e invadente di riti arcaici e complessi che non conosco né ho tempo, voglia o forse carattere di approfondire. Turista, in un luogo sacro, costretto quindi a difendermi dalla miriade di “operatori turistici” che, più o meno legittimamente, si aspettano che io voglia vedere, comperare, fingere di partecipare: invece voglio solo lavarmi, riposarmi, uscire dal contatto della melma e della ressa, partire domani per la montagna. Che differenza se fossi giunto qui a coronamento di un lungo sogno come per molti dei veri pellegrini che affollano i ghat…

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Mi rintano  in albergo, la camera offre una stupenda visuale sull’ansa del fiume: Varanasi è un luogo in cui Ganga si da tutta alla città, la lambisce col suo labbro d’onde e lentamente modellandola la assorbe nella vasta lingua di sabbia dell’altra sponda. Sul terrazzino ho un incontro ravvicinato e diffidente con un gruppo di scimmie. Restiamo un po’ a guardarci con loro che a balzi repentini scompaiono da un lato per riapparire dall’altro o penzoloni dal tetto.

Osservo  il rituale pantomimico che l’anziano tuttofare dell’albergo mette in atto per allontanare il branco dal suo tetto. E’ munito di una canna di media lunghezza e di alcune grosse scaglie di mattone. Percorre lentamente su e giù le scale rullando piano la canna sulle sbarre del corrimano, poi fa degli appostamenti e punta il bastone come un fucile. Le scimmie lo sfuggono all’ultimo momento sfalsandosi di piano, non prima che lui abbia fatto il gesto di scagliare una delle pietre. Vanno avanti così per una ventina di minuti, poi il loro gioco finisce, i quadrimani accettano che la casa sia abitata dall’uomo e scompaiono nell’intrico di tetti e cavedii.

Poi arriva la pioggia, come una spessa nebulizzazione dal fiume, senza forza di caduta ma con uno straordinario potere impregnante: non laverà la mota dalle strade, limitandosi a scavare dei rigagnoli e a sciogliere ulteriormente la mole di detriti e deiezioni che ne costituisce l’inesauribile sorgente. La folla sui gat si ripara sotto le tettoie e nei tempietti, si coprono le pire funerarie accese con vegetali che da questa distanza sembrano essere foglie di palma. Ringrazio più volte il Signore e Ganga che il mio terrazzino si trovi sopravvento rispetto al “burning ghat”, da cui vedo levarsi dense colonne di fumo che vanno ad avvolgere le case invece sottovento. Resto senza elettricità, e quando riprendo a scrivere la madre fiume si è svelata dalla pioggia opaca come nebbia, per ammantarsi di un sari di luce dorata da uno spiraglio nelle nubi. Le acque sono placide, qui, ma riconosco la forma delle piccole onde come quella stessa che faceva ruggire Ganga mentre sfondava un quartiere di Uttarcashi due anni or sono. Avessi scritto di Lei in quei giorni, impetuosa nelle sorgenti eppure dolce e lambente nei ghat fra le rapide, gelida e vivificante come la ricordo uscire dal Sibling e gorgheggiare tra le cascate di Gangotri… Oggi non è così, non sono venuto per le sue acque di quarzo, la sfioro di passaggio, mentre sto andando altrove: un incontro imbarazzante quasi come un tradimento, o come reincontrare una donna che si è amata giovinetta. Ganga è buona e altera, mi concede uno splendido punto di vista sulla sua opulenta maturità e sale a baciarmi con un dolce schiaffo di pioggia.

A picco sotto di me gruppi di bufali neri e lucidi come ebano nuotano sereni fra le abluzioni dei devoti; sembrano quasi enormi girini, ma il binocolo mi consente di cogliere le loro espressioni da ippopotamo buono, con lineamenti che nel taglio dell’acqua si rivelano simili al muso di cani setter.

Nel traguardo di due guglie del tempio di Shiva mi concedo una lunga osservazione al binocolo del rito funebre. Posso scorgere tre pire, una quasi esausta, una ardente e una pronta a ricevere il corpo. Il defunto arriva in barella, avvolto strettamente in un telo bianco, e viene posto sulla sommità della catasta con l’aiuto di un telo rosso; sulla legna fanno cadere scomposta anche una larga sciarpa oro e rosso. Dopo un considerevole lasso di tempo arriva un servente con un grande fascio di sottili canne secche in una mano e un altro, piccolo, acceso nell’altra. Lo pone sotto il mucchio di legna, più o meno sopravvento. C’e una brezza molto tesa, che spira senza quasi interruzione sin da quando sono arrivato. Dopo breve la catasta comincia a fumare ma si smorza quasi subito. Per un bel po’ sto ad osservare i serventi indaffararsi a rinzaffare con canne e tizzoni  presi dalle altre pire, ma il fuoco non accenna a divampare, il che è strano con questo vento. Nelle pire che invece ardono gli addetti rimestano con lunghi bamboo verdi. Il corpo del cremato sembra comportarsi come un qualsiasi tronco, e come tale viene trattato. Quando si spezza nel punto più debole, tra cassa toracica e bacino, le gambe vengono rivoltate a piedi verso  il centro, in modo che il fuoco le aggredisca a entrambe le estremità. Poi è la volta del busto: passano una corda sotto il collo e ribaltano la testa nel centro del fuoco, poi la coprono ribaltandoci sopra i mezzi tronchi di legno già tagliati dal fuoco .

Mentre registro tutto questo la pira fresca continua a rifiutare di accendersi; vedo qualcuno gettare ripetutamente piccoli pezzi nel punto in cui si cerca di appiccare la fiamma: forse si tratta di esche o forse di offerte rituali, comunque non sembrano sortire altro effetto che qualche sporadica fiammella e consistenti sbocchi di fumo. Da questa distanza ho anche l’impressione che non si proceda nel modo migliore: le esche di canne sono troppo piccole e sporadiche, inoltre non mi sembra vengano collocate nel posto migliore rispetto al vento, ma si sa che i binocoli falsano la prospettiva e quindi forse mi sbaglio… La gente attorno alla pira si dirada, sembra diffondersi una sorta di rassegnazione, la parte sopravvento viene coperta con la sciarpa oro-rossa che, neppure lei, ha ancora preso fuoco. Del morto vedo adesso spuntare i piedi che vento o fuoco hanno scoperto del lenzuolo bianco. Comincio a pensare che al signore in oggetto non piaccia affatto l’essere osservato in questo importante frangente del suo passaggio terreno da due osservatori con binocolo, che se ne voglia andare in fumo nell’intimità dei suoi cari, mescolare i suoi geni allo stato gassoso con il contiguo e ormai coetaneo correligionario della pira accanto, senza l’intrusione oculare di profani. Decido di ritirarmi a scrivere, prima che i familiari debbano svenarsi in ulteriori offerte per placare l’insoddisfatto dipartente o una qualche a me indecifrabile divinità.

Rituali dei morti e rituali dei vivi, sui ghat i bimbi approfittano delle immersioni rituali per riemergere con manate di fondale che si scagliano poi l’un l’altro. Si tuffano dalle pedane, fanno seggiolino a chi schizza più in alto, giocano insomma tra bufali assorti e dense spire di fumo.

Scritto tutto questo, esco a vedere la pira: arde allegramente ma quando la inquadro al binocolo improvvisamente le fiamme si abbassano. Abbasso lo strumento anch’io e vado a prepararmi per la tappa di domani verso il Nepal.

19/07/2000 16:50