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01 agosto 2000 – Kathmandu

 

La vita a Kathmandu scorre. Scorre cosí.

La cittá é molto grande ed é contornata dalla cosiddetta Ring Road, un anello quasi circolare dove il traffico si snoda simile a una giungla. Migliaia di mezzi circolano freneticamente  in un confondersi e fondersi di auto, camion, autobus stracarichi di persone, moto, biciclette. A tutto ció si aggiungono i pedoni, che si buttano confusamente nel traffico spuntando da ogni dove. Nonché animali: cani, capre e soprattutto mucche sacre.

Le mucche sacre godono sicuramente di una “corsia privilegiata”. Sono loro a regnare sovrane su tutto e solo a loro tutto é concesso, anche dormire bellamente sdraiate al centro della carreggiata, con aria serafica, imperturbabili, certe che nulla le possa toccare. E cosí é effettivamente.

Al loro cospetto tutti rallentano, si fermano, le evitano con rispettose acrobazie di guida, in una sorta di generale timore reverenziale. Mucche e tori stanno lí, come templi o altari viventi, in mezzo al traffico convulso che giorno e notte si sbizzarrisce in un’orda di suoni di clacson, su strade piene di buche, tombini vistosamente sporgenti e decine di altre insidie pronte a tenere alto il livello dell’adrenalina.

Dalla tangenziale circolare si accede, attraverso vari punti, ai quartieri della cittá. L’impresa ci riesce sempre alquanto ardua a causa degli scarsi punti di riferimento (il palazzo reale, una torre, dei ponti sul fiume Bagmati) e di improbabili sensi unici.

Il cuore di Kathmandu é grande e batte forte. Si snodano migliaia di strade, calli, callette strettissime, corti nascoste, viottoli sterrati. Tutti con buche delle piú svariate dimensioni che, quando piove, si trasformano in una litania di pozzanghere profonde e inevitabili.

Durbar Square é la piazza piú famosa. Quivi si ergono decine di maestosi templi newari, quelli costruiti su piú livelli a pagoda, interamente in legno scuro intagliato, con importanti scalinate sui quattro lati che permettono di raggiungere il punto piú alto e, stando lí seduti, di osservare cosa accade intorno.

Quello che accade é davvero straordinario.

Centinaia di persone brulicanti, in un’armoniosa mescolanza di etnie, si muovono animatamente, senza sosta, in un equilibrio perfetto, come in una sfera di cristallo che, comunque, le contiene.

I mercati si tengono in ogni angolo. Le donne espongono per terra su grandi teli i frutti e le verdure piú disparati, portati dai villaggi agricoli della campagna circostante e dagli orti in cittá.

I negozi e le botteghe si aprono sulle calli. Sono piccoli, soffocanti e stracolmi di mercanzie. Le porte sono come balconi con colonnine, in ordine di tre, tutti di legno naturale o dipinto di azzurro e a sera vengono chiusi con un lucchetto. Spiccano in particolare gli arcobaleni infiniti delle sete degli impalpabili sari, pronti a prendere forme sinuose in drappi sui corpi bruni di deliziose donne. E poi le spezie, in una varietá talmente ampia che non riesco a immaginarne i sapori ma solo mi incanto a vedere i colori, in una gamma che riproduce le tinte morbide e sincere della terra, della natura. Le botteghe dei dolci sono un’altra stanza incantata: dolcetti a sfera, a ciambella, a cubo; gialli, fucsia, bianchi, coperti di foglia d’argento; di pastafrolla, di mandorle, soffici o duri in maniera inattesa, cosparsi di miele, di scagliette variopinte, di burro; fritti o lievitati e cotti al forno.

Sui vicoli delle gioiellerie le vetrine spiccano sontuose e l’attrazione é irresistibile verso quel sole allo zenith in piena estate che é l’oro puro, finemente lavorato in collane e bracciali di fattura indiana.

La gente si muove in alta densitá e camminare in questa folla é come vivere in una specie di sogno, che ogni poco ti mostra, ricco e generoso, una scena inconsueta.

Gli sherpa camminano tra la folla, portando sulla schiena i loro carichi immensi (fino al quadruplo del loro corpo) con una fascia tesa sulla fronte. Hanno corpi esili e la statura é bassa per cui é davvero incredibile assistere a tale sistema di trasporto. Le donne dei villaggi newari portano le loro cose sulla testa, stando ben ritte e poggiandole su un anello di stoffa imbottita che si posa sul capo. Altri ancora adottano il sistema a bilanciere: un lungo bastone sulle spalle con i pesi in equilibrio alle due estremitá.

Si distinguono i monaci buddhisti in libera uscita dai tanti templi della valle. La loro veste é rosso cinabro e ne esalta il portamento nobile, distaccato ma pur sempre disinvolto. Hanno crani rasati e Timberland, zainetti Reebok e orologi d’oro. Non danno confidenza a nessuno. Si muovono fieri e ieratici in un’aura che li rende avulsi da qualsiasi disturbo. E poi i ragazzi delle scuole che si aggirano a tutte le ore, con sguardi e passi convinti, volti a una meta ben precisa. Le loro divise sono impeccabili: camice candide stirate di fresco e inamidate, pantaloni o gonne grigi di taglio occidentale, cravatte scure. Camminano distinti e sicuri nel sole o nella pioggia, a coppie o in gruppo, assumendo un contegno che a tratti non smentisce la gioia, le risa, i lazzi della loro giovinezza acerba.

Tra la gente non smettono di transitare auto, biciclette, motociclette, risció, carretti stracolmi di merci. Il tutto in una frenesia di clacson e strombazzamenti senza sosta.

Le mucche sacre e i tori sono una presenza costante nell’insieme. Dormono indisturbati in mezzo al traffico, osservano la vita umana dal ciglio delle vie, placidamente sdraiati o parcheggiati in piedi fuori dalle botteghe. Nessuno osa indurre questi animali a spostarsi. Sono esseri liberi e rispettati come dei. Sono altari o templi viventi. Come i migliaia di lingam e Ganesh e Shiva e Parvati e Brama e cosí via che spuntano ovunque, anche negli angoli piú reconditi e impensati della cittá. Come la Kumari, la dea vivente, la bambina preziosa custodita e adorata piú di una principessa, che vive nascosta in un tempio candido e che appare e si manifesta alla gente in poche occasioni importanti dell’anno. Il suo incarico cessa con la prima mesturazione. Si dice che porti sfortuna sposare una ex Kumari. In realtá nessuno o molto pochi possono e desiderano permettersi il lusso di una moglie tanto viziata e abituata alla venerazione.

I banchi dei macellai stanno nelle zone piú appartate della cittá. Vederli mi ha indotta a diventare momentaneamente vegetariana anche se questo non mi consente certo di superare il veto severo dell’accesso ai templi hindu. Sono dense nuvole di mosche che si posano su scarne carcasse di animali, sanguinolente. Macellai e calderai sono qui considerati “intoccabili” Talmente infimi da non avere addirittura diritto a una casta. Piú infimi degli infimi. Ne comprendo la ragione profonda e complessa. E rispetto anche questo, che tanto mi fa riflettere sulle nostre ataviche abitudini occidentali. Torno in albergo verso sera. La propietaria é tibetana e si chiama Dolma, proprio come quella ragazza del libro di Alexandra Dvid Neel (“Il lama della cinque saggezze”) che tanto ho amato. Il personale é formato sei giovani tibetani, buddhisti, di una gentilezza imbarazzante. Sono curiosi di vedere il PC portatile di Umberto e ne rimangono estasiati. Le due cameriere ai piani si aprono in sorrisi e saluti a non finire e sono premurose con noi come mammine.

La scorsa notte, di fianco alla nostra stanza, alloggiavano due monaci tibetani. Il loro supremo, sublime distacco zen non mi ha permesso di vederli. Ma ho intuito la loro presenza dalle vesti rosso sacro appese ad asciugare sulla lunga terrazza comune. Ho voluto toccare quella stoffa sottile, di una tinta che mi ha sempre rispettosamente ammaliata. Ho avuto bisogno di riceverne, in qualche modo, la strana energia, oscura e potentissima, di cui ho la percezione che siano fittamente intrise.

Nel buio della notte avverto dn suono lontano. Come un’intensa preghiera ad ora inconsueta, come un richiamo imprevisto. E’ buio pesto ma quel canto cupo, deciso, carico di sacralitá viene proprio dal grande stupa adorno di bandierine che vedo ogni giorno dalla mia finestra. Quasi penso di avere un eccesso mistico di percezione e di riuscire a udire, in uno stato di grazia, gli om mani padme hum scritti a migliaia sulle bandierine di stoffa leggera allo scopo preciso che si librino nel vento.

Il canto prosegue nel nero della notte, nell’invisibile, nel regno delle entitá e degli spiriti lunari. Cessa e riprende. Mi concentro. Ascolto ancora.

E’ una mucca. Una mucca che fa la Om, come dice Alessio.

Tornando a casa, questa sera, ho visto un bambino che dormiva per terra, con la testa posata su un sacco pieno di bottiglie di plastica vuote, coperto con un cencio sudicio. I piedi nudi tutti rovinati dal camminare scalzo. Poco lontano, a Chatrapati, un dormitorio all’aperto. Una ventina di corpi miseri arrangiati alla meglio sotto la scarna luce al neon.

Questa é la notte. A Kathmandu.

Nel quartiere di Tamel, ghetto turistico, si vanno spegnendo le ultime lucette dei locali stile Italia minore degli anni ’60. Odo, allontanandomi, le vecchie canzoni dei Pink Floyd e di Bob Dylan. Detesto passare per quella zona. Vorrei che la gente di qui potesse vedere oltre. Oltre l’azzurro dei miei occhi e lo stile dei miei abiti, oltre il mio modo di muovermi. Oltre tutte queste cose che mi imprimono addosso, come a fuoco, un marchio indelebile: “occidentale”; che mi pesa come un fardello, qui troppo, davvero troppo pesante da portare.

Un uomo, da dietro le spalle, mi sussurra l’abusato mantra per occidentali: “haschish, marjuana, oppium, heroin, lsd”. E’ come un sibilo il suo bisbigliare, soffocato e suadente, quasi detenesse le chiavi del paradiso. Abbasso gli occhi e proseguo, senza replica.

Vorrei poter gridare alle genti di Kathmandu che la mia casa non é cosí diversa dalla loro. Che le calli strette, i campielli, le corti, i templi e i capitelli sono straordinariamente simili a quelli di Venezia. A una Venezia di cent’anni fa, quando 300.000 abitanti circolavano per la cittá con merci provenienti da tanto lontano e la vita si svolgeva per strada, davanti a un susseguirsi di piccole botteghe dai balconcini di legno. Proprio come a Kathamndu. Dove sento il profumo di Venezia, lontana nello spazio e anche nel tempo.

Canto tra me il motivo del cd che ho comprato: é ancora e ancora “om mani padme hum”. Rimango ipnotizzata.